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Venerus e Rosalìa si riprendono la scena

  • Writer: Koinè Journal
    Koinè Journal
  • 5 days ago
  • 5 min read
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di Antonio Bosco.


Rosalìa – LUX


Tra tutte le parole che sono state usate per descrivere questo incredibile album, probabilmente “sorpresa” è una delle più abusate. Chi ha seguito la carriera di quest'artista senza farsi ingannare dall'etichetta "reggaeton da spiaggia" che le veniva attribuita da ascoltatori poco attenti, aveva compreso l'impegno lirico, la voglia di fare arte da ascoltare e assimilare, la distanza tra la sua musica e quella scritta per Tik-Tok dai tanti mestieranti del genere. È necessario dare un breve sguardo alla sua carriera: nel 2017 esordisce con Los Ángeles, un album di flamenco minimale, una sorta di laboratorio, non di certo un prodotto da radio; El mal querer, del 2018, prosegue sulla scia del flamenco, ma si rivela essere un concept album femminista in cui ogni brano mette in scena una storia di abuso patriarcale. Parentesi reggaeton a parte, che comunque hanno un posto ben preciso nella sua storia e nella sua discografia, anche in Motomami l’artista demarca la linea che separa tra ciò che funziona sui social (ciò che in un’era geologica passata ma non troppo lontana avremmo definito “radiofonico”) e ciò che invece richiede un ascolto impegnato. Certo, l’album funzionava benissimo in contesti danzerecci, ma allo stesso tempo era intriso di femminismo, fede, sessualità. Nonostante ciò, è stato uno dei lavori più acclamati del 2022. Dunque, no; per definire il quarto album di Santa Rosalìa da Barcellona utilizzeremmo qualunque altra parola ma non “sorpresa”.


LUX è diviso in quattro movimenti, composto da diciotto brani (tre dei quali disponibili solo su edizione fisica, ennesima scelta che indirizza l’ascolto verso modalità ben precise), accompagnato dalla London Symphony Orchestra e cantato in quattordici lingue. Mentre l’album precedente, bene o male, funzionava anche con un ascolto disattento, LUX è l’opposto, e questa intenzione è chiarita già dallo spettacolare singolo di lancio Berghain, che inizia con una melodia orchestrale barocca e finisce per esplodere in un movimento quasi techno, accompagnato dalla voce angelica di Björk e da Yves Tumor. Un brano che lascia addosso la rara sensazione che questa volta, nella musica, qualcosa di nuovo e valido sta accadendo, accompagnato da un’urgenza creativa, l’elemento che fa la differenza tra un album bello e un album decente (nel migliore dei casi).


Mio Cristo Piange Diamanti è probabilmente il momento più profondo dell’intero album, un’aria operistica cantata interamente in italiano, che sublima in un brano il concetto di bellezza nata dal dolore, sfruttando immagini dell’immaginario cattolico (come avviene in buona parte dell’album). Nonostante le origini religiose di Rosalìa, non è la morale cattolica a fare da padrona in questo lavoro, quanto piuttosto il linguaggio, profondamente capito e assimilato dall’artista, che sfocia in una spiritualità che potremmo definire post-confessionale. La vita delle sante (come Teresa D’Avila, Santa Chiara e molte altre) sono parte di questa grammatica. Padroneggiando un linguaggio del genere, l’autrice catalana può permettersi di parlare di qualunque cosa: rinuncia al lusso e fama intesa come malattia, tema di Sauvignon Blanc; sacrificio e offerta del proprio cuore, perché mi corazón nunca ha sido mío/ Yo siempre lo doy/ Coge un trozo de mí/ Quédatelo pa' cuando no esté”, come canta in Reliquia, uno dei brani più belli musicalmente e liricamente di LUX.


Il massimalismo dell’album non è per tutti, c’è da dirlo. Nonostante il raro consenso di pubblico e critica – è già l’album più acclamato dell’anno, con punteggi da classico annunciato – alcune penne, come di sicuro alcuni ascoltatori, non riescono a reggerlo, e non c’è da biasimarli: la musica oggi si consuma per frammenti, a colpi di skip, pensata come base per reel o al massimo playlist. LUX fa esattamente il contrario: pretende tempo, concentrazione, ascolto reale. Ci sono artisti, come Rosalìa, che ci ricordano che la musica può essere ancora una forma di cultura, di quella che può arricchire ed emozionare. Dedicarle del tempo, in questo caso, ne vale davvero la pena.


Venerus – Speriamo


In un momento di crisi nera per l’indie-pop italiano, esce sul mercato Speranza, il terzo album del cantautore milanese Venerus. Il titolo fa riferimento all’intercalare più usato e abusato quando va tutto male (quindi sempre; quando è stata l’ultima volta che in un album è stata celebrata un’epoca contemporanea tutta rose e fiori?): c’è sempre crisi, che sia politica, economica, e se manca ci sono le crisi interiori dell’autore di turno, che nell’it-pop, senza voler fare nomi, solitamente si traduce in una minestra di egocentrismo e retorica. Mancano due mesi a Sanremo, e non siamo ancora pronti. Sicuramente, una delle prime cose che saltano all’occhio è che i due elementi sopra citati in questo album sono praticamente assenti. La speranza, per Venerus, è un concetto da prendere sul serio e trattare con delicatezza.


Partiamo dall’aspetto musicale: l’album è fluido, oscilla tra vari generi, e già guardando i featuring (Cosmo, Mahmood, Izi tra i più salienti) possiamo notarlo. Se il pop è un grande calderone, gli ingredienti che vanno a mescolarsi all’interno sono il rap e il soul, trattati con una cura nella produzione (che vede Cosmo e Mace, tra gli altri, come parte attiva). Non stiamo parlando di avanguardia, ma le soluzioni scelte sono ariose, varie, pensate e ragionate, e sembrano avere tutte un senso all’interno del quadro. Nella tracklist, passare da un pezzo rap con un gran numero di voci come Cool a un brano intimo e lo-fi come Felini (uno dei momenti migliori del disco) è una scelta coraggiosa da un lato e funzionale dall’altro: in questo modo l’album non annoia. Anche la cantautorale Tra le tue braccia, con Cosmo, che ha bisogno di qualche ascolto in più per essere metabolizzata, e Stazione Bovisa, che ondeggia tra ritmi house-techno e soul, sono momenti degni di nota.


Venerus ha dichiarato che l’urgenza compositiva è nata dai testi, non dai beat, e questo si sente. Non ci sono riempitivi testuali evidenti, non ci sono le solite immagini buttate lì per fare scena. L’aspetto musicale così fluido e libero da vincoli è la veste perfetta per testi che trasudano un vero e proprio amore nei confronti della speranza, come sentimento vero e puro, analizzandola, rivoltandola, e trasformandola in arte. Nonostante i tempi bui dell’it-pop, Venerus ha voluto comporre un disco che abbia un senso, e i tempi di lavorazione lunghi, le revisioni, le trasformazioni, confermano tutte questa tesi La speranza è ciò che ci tiene in piedi, ma nei testi di Venerus non va confusa con l’ottimismo cieco da mental coach (quel miscuglio di frasi motivazionali su cui alcuni cantautori hanno costruito una carriera): qui viene trattata come qualcosa da rispettare, e si manifesta in piccole azioni concrete, in quei gesti minimi che ci tengono in vita. Un concetto sicuramente inflazionato, eppure sempre valido, se, come in questo lavoro, viene espresso con delicatezza e solidità. Il fatto che ci siano poche frasi memorabili all’interno del disco, almeno dopo i primi ascolti, è una prova manifesta dell’assenza di contenuti effettistici, di sentimenti posticci, quanto piuttosto dell’intento dell’autore di creare spazi da abitare, da esplorare, in cui poter riflettere e potersi ricaricare. Persino le molteplici collaborazioni rap sono anomale: ogni ospite si toglie le scarpe prima di entrare in casa di Venerus, e l’album non devia mai dai suoi binari, pur parlando tanti linguaggi diversi. Sarà sufficiente per farci re-innamorare della speranza? Non lo sappiamo, ma di sicuro è uno dei tentativi più seri che la musica italiana recente abbia messo sul tavolo.






Image Copyright: Rolling Stones

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