di Luca Simone.
Il Medio Oriente è in fiamme. Il 7 ottobre di un anno fa Hamas lanciava un attacco brutale al cuore di Israele, un attacco che ha generato un domino fatto di sangue e morte che ha già reclamato la vita di 50mila innocenti. Al di là delle congetture, al di là delle analisi di politica internazionale, la voce va data anche (e forse soprattutto) a chi questo mondo lo vive tutti i giorni. Così, per Koinè, ho intervistato Stefania Errico, giovanissima operatrice ONG in Giordania che, però, ha prestato servizio più volte anche in Libano. Ne è uscita un’intervista cruda, umana, in cui si è sì parlato di guerra, ma al di fuori dei campi di battaglia. Si è parlato di come la guerra sia capace di entrarti dentro quando le sei vicino, e di come alla fine si finisce per abituarsi al fatto che a pochi km di distanza qualcuno sta combattendo, qualcuno sta scappando, qualcuno sta bombardando, e qualuno sta morendo.
Stefania Errico è ad Amman, in Giordania, da ormai 3 mesi. È Assistant Project Manager per la ONG italiana Giovanni Paolo II e coordina un progetto di livelihood in ambito agricolo che ha l’obiettivo di aumentare l’impiego delle donne nell’agricoltura sostenibile, in particolare donne rifugiate siriane. Nella sua giovane vita Stefania ha viaggiato molto, mi racconta di essere stata in Australia, e di essere stata diverse volte in Libano, a Beirut, tra il 2019 e il 2023, confessandomi di averlo trovato ogni volta messo peggio.
La situazione del Medio Oriente la sapete ormai tutti. La leggiamo sui giornali, ne siamo a nostro modo partecipi nelle piazze, nei dibattiti e nelle discussioni, ma Stefania è lì. Stefania è nell’occhio del ciclone, e vive in prima persona quello che succede intorno alla piccola Giordania, posta al crocevia di Stati che si odiano e aspettano da decenni, in alcuni casi secoli, l’occasione buona per saltarsi addosso e scannarsi. Occasioni che, come possiamo facilmente vedere, non mancano mai. Soprattutto ora.
La prima domanda che scelgo di farle, per rompere il ghiaccio, riguarda le sue primissime impressioni della Giordania, del Libano, del Medio Oriente in generale, e la prima risposta che ne ricevo non riguarda il cibo, il divertimento, i paesaggi, ma le divisioni: “Giordania e Libano, sono Paesi molto diversi. La Giordania è uno Stato stabile, con un governo centralizzato abbastanza forte, mentre il Libano sono anni che è nel caos, soprattutto dopo la rivoluzione del 2019. Nonostante queste differenze, le divisioni tra la gente sono le stesse. Le percepisci, le vedi. C’è un razzismo strisciante tra popoli che dovrebbero essere fratelli, che si trovano ad essere divisi solo per la maldestra operazione geometrica di qualche lontano statista inglese o francese. Eppure, i giordani odiano i libanesi, i libanesi odiano i giordani, e tutti odiano i siriani, visti come immigrati che rubano il lavoro. Una narrazione familiare anche all’Italia no?”
Mentre me lo dice penso a quanto affini siano i sentimenti degli uomini, pur separati da diecimila miglia di mare salato. Noi dall’Occidente civile, loro dal Medio Oriente arretrato, allo stesso modo cerchiamo un disperato da odiare. La Giordania, basta prendere una cartina geografica, è letteralmente nel mezzo di Stati che hanno come unico obiettivo quello di farsi a pezzi, le chiedo perciò che aria si respira rispetto a questo tra le strade di Amman: “Sembra di stare in una bolla all’interno del caos. Qui noi la guerra la respiriamo tutti i giorni, è ad un’ora di macchina da noi, ma la vita continua a scorrere sottotraccia. Qui la guerra la mangiano a colazione, la bevono nei bar, la fumano dal narghilè. La guerra fa parte della vita. È una strana danza che ci si ritrova a ballare, surreale, in cui parlare di guerra inizia ad assumere lo stesso significato e ad avere lo stesso peso di discutere di cosa si farà per il weekend”.
La guerra fa parte della vita. Una frase ossimorica di una potenza sconcertante. Mi chiedo, e le chiedo, come possa lei da Occidentale essersi abituata ad una routine mentale del genere, come abbia fatto a far entrare così in profondità la guerra nella sua vita, e la risposta che ne ricevo mi zittisce, e chino la testa sul computer per continuare a prendere appunti: “Se sei qui, accetti di scendere a determinati compromessi. Accetti il fatto che a mezz’ora di macchina da te si stiano sparando con i carri armati, accetti che il villaggio che hai visitato la settimana prima sia fatto evacuare o sia bombardato. Accetti che per sopravvivere, l’unico modo è vivere come se queste cose fossero parte naturale della tua quotidianità. La cosa difficile, però, ti posso assicurare, non è certo questa, ma fare il contrario. O almeno lo è per me. Quando torno in Occidente e mi confronto con una vita privilegiata e priva di rischi, per me è come dover stipulare nuovamente un patto sociale al quale devo sottrarre un pezzo della mia quotidianità. È strano, lo so, ma quando la guerra ti entra dentro, è difficile farla uscire.”
Già, è strano penso. Una volta fatta entrare la guerra, mi chiedo, è poi davvero possibile poi liberarsene? Non credo. La guerra ti entra dentro come l’acqua, attraverso tutti i buchi, ma poi non riesce ad evaporare, rimane lì a ristagnare, a marcire. Prima di congedarmi le chiedo quale sia stata la cosa più strana a cui si sia trovata ad assistere, ma non ero preparato a ricevere la risposta che ho avuto: “Quando Israele ha fatto esplodere i cercapersone a Beirut io ero lì, ero per le strade del centro. Avevamo prenotato con alcuni amici un weekend fuori porta, e avevamo scelto di tornare a Beirut, che è una città meravigliosa. Ci dirigiamo verso il centro, ormai disabitato e militarizzato a causa dell’esplosione del porto e della rivoluzione del 2019 che ha avuto il suo epicentro proprio lì. Grazie ad una guardia compiacente siamo riusciti ad entrare, ed è stato come entrare in una città fantasma, c’era solo silenzio. Mentre camminiamo cominciamo a sentire il rumore delle ambulanze, un rumore che però aumenta, si moltiplica sempre più. Io sono abituata a sentire il suono dell’ambulanza che poi sparisce in lontananza, lì invece ci rendevamo conto che i suoni raddoppiavano, triplicavano… c’erano una, dieci, cento ambulanze che sfrecciavano contemporaneamente per le strade della città. Una volta ripresi i telefoni abbiamo saputo. Noi potevamo essere lì, potevamo essere vicino a qualcuno a cui è detonato un cercapersone, potevamo essere tra i feriti, come altre decine di migliaia di persone. Invece eravamo nel centro disabitato, ad assistere ad un film di cui noi stessi eravamo comparse. Una sensazione strana che mette i brividi.”
Già, una sensazione strana che mette i brividi. Sarà capitato anche a qualcuno di voi di sentirsi per una volta “parte” della Storia, di vivere un evento fuori dall’ordinario, ma cosa si prova a vivere ogni giorno eventi al di fuori dell’ordinario. Questo è stato il mio pensiero durante tutta la lunga chiacchierata con Stefania. Come si può arrivare ad accettare di essere parte di una serie di eventi così grandi e gravi che rischiano di risucchiarti dentro. La risposta, per quanto l’abbia cercata, non sono ancora riuscito a darmela. Sarebbe curioso chiedersi se qualcuno ci sia mai riuscito.
Image Copyright: UNICEF
Comments