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  • Writer's pictureKoinè Journal

È necessario costruire un nuovo femminismo?


di Caterina Amaolo.


«Un libretto fitto e soffocante; non graffierà gli uomini, ma confonderà un po’ di più, ce ne fosse bisogno, la coscienza delle donne»: con queste parole, alla fine degli anni Novanta, la sociologa e antropologa femminista Nicole-Claude Mathieu concludeva una puntigliosa e incisiva disamina critica di La domination masculin di Pierre Bourdieu.

Ora, mentre il testo di Bourdieu è stato tempestivamente tradotto in italiano, ristampato, adottato nei corsi universitari di gender studies, ridotto in citazioni da sfoggiare a riprova di una squisita sensibilità culturale e magnificato per aver ricordato alle donne che queste riproducono il dominio patriarcale tanto quanto gli uomini, del dibattito femminista apertosi in Francia al momento dell’apparizione del volume non è stato recepito quasi nulla nel nostro Paese.


Scritto sul finire di una vita, uscito sullo scorcio del Novecento, Il dominio maschile resta, a distanza di quasi due decenni, un libro miliare; non da ultimo perché riesce a porsi come una riflessione di epilogo e di bilancio, tanto di un secolo quanto di un percorso teorico che si è ormai imposto come una delle sue punte più autorevoli. È un libro difficile; è un libro necessario.


Da Il dominio maschile si possono estrapolare alcune fondamentali tesi guida che toccano i nervi scoperti delle logiche – oggi estremamente superficiali – riguardanti l’identità di genere in senso lato. La prima e più importante afferma che l’autopercezione sociale dei sistemi di potere si basa sulla dinamica per cui ciò che è primario appare secondario e marginale. Caratteristica fondante della cultura contemporanea, come di ogni cultura, sarebbe la facoltà di occultamento della violenza intestina. La seconda tesi presenta l’amnesia sistematica come effetto del consenso dei dominati ai dominanti, ottenuto tramite l’introiezione delle logiche di dominio nell’inconscio e nella materialità dei corpi, in forme di estetizzazione socialmente riconosciute. Se ne deduce che la violenza non solo non venga percepita come tale, ma, al contrario, si manifesti come valore, bellezza, genuinità, spontaneità. Il nostro milieu culturale, afferma Bourdieu, influenza il nostro habitus nella misura in cui l’ambiente culturale che ci circonda ci preesiste e ci trascende; è, per dirlo con le parole di Kant, un dato. Di qui, la tesi per cui la logica maschilista si regge, più di altre forme meno consolidate di dominio, sull’impossibilità dell’estraneazione dei soggetti. Nel dominio maschile siamo tutti immersi, senza possibilità di esclusione, e quindi con ridotte possibilità di reazione. Per questo il vero tema del libro è il paradosso della doxa comune, capace di riprodurre le logiche più prevaricanti in forme totalmente mimetizzate. Il dominio è la forma per eccellenza della «sottomissione paradossale» (Bourdieu 1998, 57).


Bourdieu, filosofo e antropologo, è anche uno tra i maggiori sociologi contemporanei, avvia la sua disamina partendo da lontano, assecondando quel principio secondo cui i comportamenti umani sono, spesso, costanti antropologiche. Parte, dunque, dallo studio etnografico dei Berberi di Cabilia, una popolazione che, in seguito all’isolamento, ha conservato fino a oggi una cosmologia androcentrica incontaminata rispetto a quella di altre civiltà mediterranee. Lo scopo non è esclusivamente metodico, il suo sistema non si arrende all’insignificanza della descrizione, all’irrelatezza del particolare.


L’esposizione critica, si concentra, su un assunto di base: la violenza simbolica è tanto più forte quanto meno viene percepita come tale, quanto più appare “dolce” e “naturale”. La logica del dominio maschile è la soglia minima e meno percepibile della violenza simbolica, una soglia che struttura le gerarchie di potere nelle società esistenti. La perpetrazione del sistema maschilista riverbera su tutti i piani dell’ordine costituito, in forma di conflitto naturalizzato tra i dominanti e i dominati, le qualità prestabilite del maschile e del femminile.


Queste, a loro volta, si condensano nelle identità socialmente determinate dei generi sessuali, ma non si limitano ad esse, annidandosi ed espandendosi nel linguaggio, nelle autopercezioni e autorappresentazioni dei corpi e nelle più svariate espressioni culturali. Più che la sessualità o l’identità sessuale, il discorso di Bourdieu è volto ai processi di sessualizzazione interni alla mente, al linguaggio e a tutte le sfere della vita materiale, dell’economia, del potere e del sapere. Il messaggio che se ne ricava è che la discriminazione sessuale è l’ordito costante, antropologico, di un’unica grande era, della quale solo oggi comincia a intravedersi un inizio di erosione. L’antropocentrismo maschilista è l’egemonia di questa era, è il suo governo occulto, la sua falsa coscienza. Svelarne la logica è anzitutto una questione di ordine conoscitivo, il cui obiettivo morale coincide con il mostrarne la natura “per niente naturale”, ma invece totalmente convenzionale e violenta. Il dibattito sul pensiero della differenza e sul maschilismo è ormai esteso ben oltre i confini della tradizionale critica femminista, in un quadro in cui è generalmente venuta a cadere l’implicita prospettiva rivendicatoria, incentrata sulla dinamica dominanti-dominate, dai gradi minimi al grado estremo del binomio vittime-carnefici. Mentre non solo conserva, ma addirittura enfatizza la preminenza del conflitto tra i sessi, il suo sguardo paritetico abolisce ogni lettura vittimistica o innocentistica di una controparte.


Ne risulta vanificata la possibilità stessa della rivendicazione, pur senza rinunciare a quella dell’accusa, appunto, che condanna la compartecipazione e la condiscendenza non solo femminile al potere maschile. A Bourdieu − che pure dialoga con grande rispetto con la tradizione femminista che gli si oppone e con tante rappresentanti dei Gender Studies − non interessa tanto la lotta per migliorare la condizione femminile, quanto lo scardinamento della logica sessista di fondo. E ciò in virtù della considerazione anche del maschio come vittima, assunto che nel pensiero femminista talvolta si nebulizza e si perde:


Il privilegio maschile è anche una trappola e ha la sua contropartita nella tensione e nello scontro permanenti, spinti a volte sino all’assurdo, che ogni uomo si vede imporre dal dovere di affermare in qualsiasi circostanza la sua virilità. […] Tutto concorre così a fare dell’ideale impossibile della virilità il principio di un’immensa vulnerabilità. Ed è appunto questa vulnerabilità che porta, paradossalmente, all’investimento, a volte forsennato, in tutti i giochi di violenza maschili come, nelle nostre società, gli sport, e in modo particolare quelli più adatti a produrre i segni visibili della mascolinità e a manifestare e provare le qualità dei virili, come gli sport fondati sullo scontro fisico diretto. (Ibid., 62-63)


L’omeostasi del dominio maschile, insomma, è dinamica, e alla sua conservazione concorrono passivamente tutti gli agenti sociali. Entrambi i sessi hanno, in realtà, molto da perdere. Il maschio esce sconfitto dalla perpetuazione della nozione di virilità così come la femmina da quella della femminilità. Per questo la prima cellula di riproduzione sociale del dominio simbolico è la famiglia, istituzione che già altrove l’autore aveva definito «finzione fondata», «parola d’ordine», «prescrizione che non si riconosce come tale perché è (quasi) universalmente accolta e data per scontata», nomos che, essendo immanente a tutti gli «habitus si impone come trascendente». (Ibid. 126) Dalla famiglia alla scuola, alla Chiesa, allo Stato, alla politica e al mondo delle professioni appare omogeneamente «responsabile della riproduzione effettiva di tutti i principi di visione e divisione fondamentali» (Ibid. 137-143).


Dai condizionamenti sinergici prodotti in queste sedi dipende la complessa genesi della nozione di femminilità come genere debole, segnato dell’insufficienza a essere percepito per sé e dall’obbligo a essere percepito dall’altro. L’introiezione della subalternità da parte delle donne porta a forme di costante insicurezza e autosvalutazione e spiega perché, nelle società occidentali, anche dopo che sono stati acquisiti diritti politici e professionali, come quello di voto, o l’accesso – “persino” con pari opportunità − alle carriere, la disimmetria rispetto agli uomini resti costante. Scatta, nelle donne, un meccanismo di autoesclusione, nascosto dietro le presunte vocazioni femminili, che tendono a perpetuare, sia nella scelta degli studi, sia in quelle lavorative, la divisione tradizionale degli spazi di potere. La centralità del problema sembra essere oggi diventata più difficile da riconoscere rispetto a quanto non accadesse poco più di un decennio fa. Che il dominio maschile sia il sistema dei sistemi non sarebbero disposti a crederlo in molti, ai nostri giorni. Eppure, il nesso tra i diffusi comportamenti iper-sessuali e sessisti e l’attuale degrado civile e culturale è molto stretto. La perdita di ogni minimo paradigma etico, la corruzione economica e politica e la mercificazione dei corpi; tra la proliferazione multimediale dei modelli seduttivi e l’imbarbarimento culturale non c’è grande distanza, a conferma della perdurante potenza simbolica del dominio maschile. Sconfiggerne la dittatura significherebbe combattere anche tante altre storture.


Femminismo e capitalismo: un nodo irrisolto

Nella misura in cui il genere è una costruzione identitaria di matrice culturale, esso può e deve essere decostruito. All’interno del sistema attuale la lotta femminista non può essere verosimilmente portata avanti se non è affiancata alla critica radicale dell’organizzazione sociale ed economica. Il valore economico della forza-lavoro può essere rappresentato come la somma di tre voci: il “salario diretto”, per il sostentamento del lavoratore durante il suo periodo di impiego; il “salario indiretto”, per il mantenimento del lavoratore durante i periodi di non impiego (malattia, disoccupazione, pensionamento); le “attività di cura” (nutrire, allevare, vestire, pulire, proteggere dal freddo e dalle malattie, erogare amore e affettività, insegnare a stabilire relazioni e a vivere in comunità; esse servono anche per il mantenimento della prole del lavoratore e quindi per la sua sostituzione da una generazione all’altra). In un modello tipico di capitalismo, l’impresa paga la prima voce; l’impresa e lo Stato, in proporzioni variabili, pagano la seconda; infine, la terza voce, in continuità con la divisione sessuale del lavoro delle società patriarcali, è assolta principalmente dalle donne all’interno delle case: in Europa, «secondo le ultime stime Eurofound, le donne trascorrono in media 26 ore in lavoro di cura contro le 9 degli uomini» (Giardini et al., 53).


Alla base di tale assunto si colloca una differenza di legittimità sociale che si accorda, in misura differente, con quello che Bourdieu definisce “capitale simbolico” e “capitale economico”. Le attività di riproduzione o di cura vengono relegate nella sfera domestica, e non ricevono un’adeguata ricompensa – in termini di riconoscimento e di retribuzione – da parte degli altri membri della famiglia, da parte di chi compravende sui mercati, o da parte dell’autorità pubblica. Mentre gli uomini sono retribuiti con il salario in quanto produttori (capitale economico), le donne, che sostengono il circuito della ricchezza sociale (capitale simbolico), vengono retribuite con la “moneta” dell’amore e della virtù. La subordinazione della sfera riproduttiva a quella produttiva, e la specializzazione forzata nelle attività riproduttive o di cura diventano, quindi, la principale ragione economica della subalternità femminile. L’indipendenza femminile, e per esteso la sua stessa identità di genere, non può esistere se non passando attraverso l’indipendenza economica.


Il più grande paradosso del femminismo commerciale è proprio questo: lottare per l’uguaglianza di genere senza lottare per l’uguaglianza sociale. Lottare, dunque, per un’emancipazione che non ci potrà mai essere in un sistema economico basato proprio sullo sfruttamento e sull’oppressione. Con l’aggravante di trasformare le lotte in profitto.









BIBLIOGRAFIA

N. C. Mathieu, Bourdieu ou le pouvoir auto-hypnotique de la domination masculine, in Ead., L’anatomie politique II. Usage, déréliction et résilience des femmes, La Dispute/SNÉDIT, Paris 2014, pp. 53-89.

Jean-Paul Baquiast, De Pierre Bourdieu en particulier et d'Internet en général.Admiroutes, 28 août 1998.

J. Benjamin (The Bonds of Love, Pantheon Books, New York 1988; trad. it. Legami d'amore. I rapporti di potere nelle relazioni amorose, Rosenberg & Sellier, Torino 1991

P. Bourdieu, La Domination masculine, Seuil, Paris 1998; tr. it. Il dominio maschile, Feltrinelli, Milano 1998.








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