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9 Novembre 1989, Goodbye Lenin! Luci e ombre del passaggio dell'Est nell'Ovest


di Davide Cocetti.


Dopo aver dedicato il precedente approfondimento alle cause che portano al crollo del muro di Berlino e alla riunificazione tedesca, è necessario affrontare le conseguenze a breve, medio e lungo termine di tale processo.

Il percorso di ricongiungimento delle due Germanie costituisce un singolare paradosso. Si fonda primariamente su fattori e interventi economici: dopo la caduta del Muro, il tramonto dell’egemonia del Sed e l’indizione di elezioni democratiche, ciò che i cittadini tedeschi orientali continuano a chiedere a gran voce è l’approdo alla società dei consumi dell’Ovest. Ciò nonostante, la riunificazione viene condotta attraverso criteri squisitamente politici: con ciò si spiega la rapidità della transizione e i provvedimenti messi in atto. Una simile discrepanza sulle logiche del processo non può che produrre numerose contraddizioni e problematiche.


I contratti

La preponderanza della questione economica risulta evidente sin dal primo trattato congiunto tra le due Germanie, siglato nel maggio 1990. Il contratto, strutturato in cinque capitoli, prevede l’adeguamento del sistema orientale al modello di soziale Marktwirtschaft (“economia sociale di mercato”) vigente in Rft. Soprattutto, sancisce l’unione economica e monetaria tra Germania federale e Germania democratica a partire dal 1° luglio ’90, sulla base del cambio 1:1 per le transazioni comuni e 2 marchi dell’Est a 1 per patrimoni e debiti. La scelta di estendere quasi nell’immediato il marco tedesco ai territori della Rdt presenta forti connotati politici. Nei moti di piazza di Berlino, Lipsia e degli altri centri dell’Est, il marco era stato richiesto a gran voce dai dimostranti. Nella notte tra il 30 giugno e il 1° luglio, migliaia di persone scendono in strada per festeggiare una sorta di “capodanno valutario”. Molto meno convinta della bontà del progetto di Kohl è invece la Bundesbank, informata solamente a fatto compiuto. La banca centrale teme, non a torto, che una manovra così repentina possa risultare traumatica per le economie di entrambi i territori e invita a tassi di conversione più prudenti, rimanendo però di fatto inascoltata.

La riunificazione economica precede quella politica. Sarà un secondo contratto, firmato in agosto dai due governi tedeschi e approvato in settembre dalle potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale, a sancire la completa estensione della legge federale sul territorio orientale. Il trattato entra in vigore il 3 ottobre 1990, ponendo definitivamente fine all’esistenza della Rdt. Il documento appone anche alcuni correttivi alle direttive economiche deliberate a maggio. In campo di privatizzazioni, la “regola ‘49” fa chiarezza sui beni espropriati da restituire ai legittimi proprietari: tutte le nazionalizzazioni e le confische gestite dalla Svag prima del 1949 vengono confermate, mentre gli atti della Rdt vengono dichiarati illegali. Viene implementato il sistema di perequazione finanziaria con la costituzione del fondo speciale quadriennale Fonds Deutsche Einheit in favore dei cinque nuovi Länder orientali.


Luci e ombre della conversione all’economia di mercato

Sarebbe un errore sostenere che Helmut Kohl e la sua coalizione di governo non abbiano tenuto conto delle problematiche insite in una transizione economica così repentina. La loro strategia è quella di accelerare lo shock per velocizzare la ripresa, attutendo l’impatto grazie agli ammortizzatori socioeconomici previsti dalla soziale Marktwirtschaft. Le previsioni del cancelliere si rivelano però fin troppo ottimiste, anche perché fondate su dati non sempre attendibili dell’ex Rdt.

Uno degli aspetti più delicati è senz’altro il processo di privatizzazione. Nonostante esso fosse già stato avviato in qualche misura durante gli ultimi mesi di vita della Repubblica democratica, i contratti di riunificazione impongono tutt’altro ritmo nelle liquidazioni e nelle cessioni di proprietà.


Le pressioni dei sindacati e delle rappresentanze dei lavoratori impongono al Treuhandanstalt (agenzia statale di liquidazione) la priorità del risanamento delle aziende, anche a discapito dell’interesse economico dello Stato. Non di rado ciò significa vendere le imprese estremamente al ribasso; oppure garantire addirittura sussidi economici all’investitore per il raggiungimento degli obiettivi fissati nel piano di rilancio di un’azienda. Come rendere sostenibili queste operazioni che pongono lo Stato in una condizione di perdita potenziale o reale? Kohl percorre la via dell’aumento della pressione fiscale sui Länder occidentali, decisione che gli costerà parecchio in termini di consenso alle successive tornate elettorali. Come se ciò non bastasse, gli onerosi investimenti non sono sufficienti di per sé per bloccare licenziamenti e fallimenti nell’immediato, né riescono a creare una coscienza imprenditoriale duratura presso i cittadini dell’Est. Alcuni dati possono aiutare a chiarire meglio il quadro. Solo il 6% del patrimonio privatizzato viene rilevato da imprenditori locali. Spesso si tratta di ex funzionari e dirigenti della Rdt, che faticano a relazionarsi con i meccanismi di un’economia di mercato; ciò nel lungo periodo determina un ricambio ai vertici senza paragoni nell’ex blocco sovietico. Nonostante gli sforzi per dare continuità alle attività produttive, alcune imprese si rivelano irrecuperabili e altre si trovano costrette a tagliare i costi. Le liquidazioni e i ridimensionamenti producono la perdita di più di due milioni di posti di lavoro nel giro di un anno. Una cifra già di per sé abnorme, ma che risalta con maggior forza in un’area in cui le istituzioni hanno garantito il pieno impiego per decenni. A farne le spese sono soprattutto le donne, occupate con tassi record sotto il regime socialista e ora colpite duramente, con conseguenze non trascurabili per i bilanci familiari.

Le difficoltà della transizione dal socialismo all’economia di mercato colpiscono anche le imprese e i settori produttivi dell’Est in cui la privatizzazione incontra meno ostacoli. Qui il nocciolo della questione riguarda soprattutto i vincoli imposti sui salari da sindacati e datori di lavoro occidentali. I primi vedono il raggiungimento della parità retributiva tra Est e Ovest come una tappa imprescindibile per mantenere il loro potere di contrattazione. I secondi sono preoccupati dall’ipotesi che i nuovi Länder possano allettare investitori stranieri in cerca di manodopera a basso costo. A sua volta il governo Kohl, pur non essendo del tutto convinto riguardo a un intervento dall’alto sui salari, teme che un marcato differenziale retributivo tra Est e Ovest possa innescare una migrazione interna su ampia scala. Le varie parti sociali trovano un punto di incontro, fissando con effetto immediato il minimo salariale nelle imprese orientali al 60% della media occidentale. Le attività della ex Rdt si ritrovano dunque con un costo della manodopera praticamente raddoppiato, a fronte di gravi problematiche di infrastrutture e di produttività. La concomitanza di questi fattori porta anche le (poche) imprese rimaste in positivo dopo la riunificazione a registrare a loro volta perdite significative. I beni prodotti non solo non hanno alcuna possibilità di competere in termini qualitativi con quelli provenienti da Ovest, ma spesso risultano anche più cari per via degli esorbitanti costi del lavoro.


Gli effetti sui Länder occidentali

Nell’immediato la riunificazione tedesca produce diversi effetti positivi per l’Ovest. L’economista Michael Grömling fa addirittura riferimento a un piccolo boom economico, soprattutto per quanto riguarda i settori più direttamente coinvolti nel processo di ricostruzione delle regioni orientali (Grömling, 2008: 9). Si tratta però di un exploit assolutamente temporaneo, che ben presto cede il passo a crescenti difficoltà economiche. Il volume dei flussi finanziari dalla Germania occidentale alla Germania orientale, anziché ridursi, si mantiene stabilmente in crescita fino al 1994. Questo accade perché gran parte delle risorse e dei marchi inviati ai nuovi Länder non viene utilizzata per innescare uno sviluppo economico fondato su basi solide e durature, bensì serve ad attutire l’impatto delle politiche di riunificazione. Il sistema produttivo dell’Est conferma la sua cronica incapacità di soddisfare la domanda di consumo dei suoi cittadini. Per venire incontro a queste esigenze, le aziende dell’Ovest reindirizzano verso i territori orientali una consistente fetta dei beni originariamente destinati al commercio estero. Ciò da un lato crea un circolo vizioso, consolidando lo strapotere delle imprese occidentali sul mercato a discapito della capacità competitiva di quelle orientali; dall’altro comporta un maggiore squilibrio nella bilancia dei pagamenti di uno Stato che investe sempre di più in welfare e previdenza sociale. Le esportazioni tedesche sono ulteriormente colpite dalla grave recessione che affligge Paesi come Italia e Gran Bretagna nei primi anni Novanta, riducendone il potere d’acquisto sul mercato internazionale.

Nel 1995 entra in vigore il Foederales Konsolidierungsprogramm.


Giunge così a compimento il percorso di inserimento dei nuovi Länder nel sistema di perequazione finanziaria. Ciò comporta indubbi progressi nello stanziamento e nella gestione dei fondi per la ricostruzione nei territori a Est, ma impone alle strutture amministrative degli Stati federati occidentali di sobbarcarsi gli oneri del processo. La mossa non riscuote grande successo tra la cittadinanza dell’Ovest; la quale, se già non vede di buon grado il riorientamento di una quota notevole delle proprie imposte verso le regioni orientali, tollera ancora meno la crescita della pressione fiscale. La necessità di incassare dello Stato tedesco si traduce nel rincaro delle tasse sui consumi e dell’IVA, ma anche nell’introduzione a fasi alterne del supplemento di solidarietà, ovvero un contributo che incide per circa il 7,5% (poi abbassato a 5,5%) sui redditi di persone fisiche e giuridiche.


Quali traguardi? Conclusioni e riflessioni

L’enorme sforzo profuso dallo Stato, dalle istituzioni e dai cittadini tedeschi per integrare le nuove regioni orientali nella struttura economica federale ha effettivamente prodotto i frutti sperati? La questione è tuttora oggetto di un dibattito serrato tra storici, economisti e politici. È innegabile che le misure adottate dal governo Kohl abbiano permesso di raggiungere risultati significativi, ma è altrettanto necessario tenere in considerazione le difficoltà e i limiti riscontrati lungo il percorso.

Tra il 1990 e il 1994 il Treuhandanstalt porta a termine la privatizzazione pressoché totale dell’enorme patrimonio statale ereditato dalla Rdt. Non solo: garantisce anche il mantenimento di almeno tre quarti dei posti di lavoro, limitando fortemente i contraccolpi sociali della riunificazione. I freddi numeri, senz’altro positivi, non raccontano però tutta la verità: essi celano infatti una quantità indefinita di trattative e rinegoziazioni tra istituzioni e privati, per garantire alle imprese di sopravvivere e competere nel libero mercato. Inoltre, non si può certo dimenticare che l’intero processo di privatizzazione viene condotto a spese dello Stato: il ricavo complessivo di circa 70 miliardi di marchi non copre neppure lontanamente i 340 miliardi di esborso impiegati per la denazionalizzazione dei beni e delle proprietà dell’ex Rdt.

Una delle questioni più sensibili del post-riunificazione, soprattutto per quanto riguarda il medio e il lungo periodo, è rappresentata dai costi sociali del riadattamento dell’economia orientale alle logiche di mercato. La privatizzazione si accompagna infatti alla liquidazione di molte attività ritenute irrecuperabili, ai tagli di quote rilevanti di personale e al riorientamento di imprese e aziende verso nuovi settori. I provvedimenti del governo Kohl, volti a garantire la continuità dell’impiego, riescono senz’altro a circoscrivere l’impatto traumatico di un mutamento così repentino, ma non possono evitarlo del tutto. La disoccupazione rimane a lungo una ferita aperta per i Länder orientali, soprattutto perché la natura della ristrutturazione economica non pone i presupposti per la creazione di nuovi posti di lavoro. Anche in questo caso, i dati ufficiali sui disoccupati iscritti alle liste di collocamento (alla fine del ’93 ammontano a 1,17 milioni, circa il 15% della popolazione a Est) non restituiscono un quadro esauriente della profondità del fenomeno. A queste pur ragguardevoli cifre vanno sommati tutti quei cittadini che beneficiano di misure politiche contro la disoccupazione, ma non possono certamente dirsi impiegati a tempo pieno. Si tratta di un gruppo sociale molto ampio, che spazia dai lavoratori part-time/a orario ridotto ai prepensionati, comprendendo tutti quei disoccupati che vengono coinvolti in società e programmi di riorientamento lavorativo e quindi formalmente non sono in cerca di impiego. Tenendo conto di queste categorie, che spesso beneficiano di sussidi statali o comunque gravano in qualche modo sul bilancio federale, il tasso “reale” di forza lavoro non occupata si mantiene stabilmente sopra il 25% anche ad anni di distanza dalla riunificazione. Grömling sottolinea come pure l’Ovest, seppure in misura minore, debba fare i conti con la problematica dell’occupazione tra gli anni Novanta e i primi anni Duemila. L’economista individua come momento chiave per una parziale soluzione della questione le riforme del mercato del lavoro del 2006/07, che, muovendosi in direzione opposta rispetto alle politiche postunitarie, promuovono la mobilità occupazionale e stimolano la ricerca di nuovi impieghi tagliando sui sussidi (Grömling, 2008: 19-20).

Le difficoltà sociali non devono mettere in ombra l’effettivo miglioramento dei redditi e dei consumi medi dei cittadini dell’Est. I tassi di crescita del PIL e del PIL pro capite riflettono una performance economica positiva per i Länder orientali. Dati alla mano, emergono però alcuni trend da non sottovalutare. Dopo un’iniziale impennata, a metà anni Novanta la crescita si affievolisce. Questo adagiamento coincide con la contrazione degli investimenti federali. Con il pieno inserimento dei territori dell’ex Rdt nel sistema di perequazione finanziaria, il comportamento economico dei Länder orientali si avvicina sempre di più all’andamento occidentale. Diretta conseguenza di ciò è il persistere di una profonda disuguaglianza tra i redditi e i consumi dei cittadini dell’Est e quelli dell’Ovest.

La distanza si traduce anche in termini identitari. La maggioranza della popolazione orientale fatica a riconoscere le istituzioni federali, si sente abbandonata e per nulla integrata. I giovani in cerca di opportunità lavorative si trasferiscono a Ovest, ingrossando le fila degli emigranti e contribuendo allo spopolamento di diverse aree dell’Est. Si tratta di tendenze che, sommandosi le une alle altre, alimentano un sentimento di totale disillusione e di rabbiosa insoddisfazione. Il malcontento dei cittadini orientali è spesso sfociato in scelte elettorali drastiche. Nelle votazioni parlamentari del 1994 e del 1998 il Partei des Demokratischen Sozialismus (Pds), erede diretto del Sed, registra un vero e proprio boom. Il partito di estrema sinistra si mantiene tra il 15% e il 20% dei consensi nei Länder che pochi anni prima avevano acclamato il progetto di riunificazione di Kohl. Un dato tanto più sorprendente, se si considera la sostanziale inconsistenza del movimento a Ovest. Se l’immaginario dell’Ostalgie, con le sue piccole certezze ormai perdute, affascina una quota tutt’altro che irrilevante dell’elettorato orientale negli anni Novanta, più recentemente è l’estrema destra a condensare intorno a sé il malumore dei cittadini dell’Est. Alternative für Deutschland (AfD), che fa irruzione sulla scena politica negli anni Dieci del Duemila, rappresenta il progetto più riuscito in tal senso. AfD fa leva in particolare sull’elemento xenofobico e anti-immigrazionista, particolarmente sensibile in una comunità storicamente omogenea come quella tedesca orientale, rivendicando la priorità di integrare i tedeschi dell’Est e non gli stranieri. AfD rappresenta il futuro della politica dell’ex Rdt? Alcuni sviluppi del 2021 sembrano mitigare questa opzione. Nelle elezioni regionali in Sassonia-Anhalt, roccaforte orientale dell’estrema destra, i centristi hanno registrato una netta vittoria. Secondo un sondaggio riportato da Reuters, gli elettori hanno dato la loro preferenza a chi ha posto al centro del dibattito la ripartenza economica dopo il lockdown dovuto all’emergenza Covid-19, anziché soffermarsi sulle restrizioni all’immigrazione. Sarebbe però sbagliato ritenere la parabola dell’estrema destra tedesca in fase discendente. Nelle elezioni federali di settembre AfD ha riscosso il 24,6% dei voti in Sassonia e il 24% in Turingia, riconfermandosi il partito di riferimento per una fetta consistente della popolazione dei Länder orientali.





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