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Writer's pictureKoinè Journal

All eyes on Rafah


di Luca Simone.


Nei giorni scorsi ha spopolato sui social il post “All eyes on Rafah”, creato con l’intelligenza artificiale e che ha raggiunto in poche ore quasi 50 milioni di ricondivisioni. Al netto però di questa campagna social e delle polemiche che ha suscitato per vari motivi (sulle quali non ci soffermeremo), è importante abbandonare per un attimo il mondo virtuale per cercare di capire cosa sta succedendo in quello reale.


La scorsa settimana, nonostante i ripetuti appelli della comunità internazionale, della Corte Internazionale di Giustizia e persino degli Stati Uniti, Israele ha iniziato le operazioni militari al valico di Rafah. Operazioni che erano state altamente sconsigliate pubblicamente anche dagli stessi alleati di Tel Aviv che temevano una devastante ricaduta mediatica a causa dell’altissima probabilità di morti collaterali civili, dato che Rafah ospita più di 1.5 milioni di profughi in fuga dalle aree devastate della Striscia di Gaza. Una popolazione enorme composta per la maggior parte da donne e bambini che è intrappolata ora in quella che fino a qualche settimana fa lo stesso Israele definiva “area sicura”, e all’interno della quale invitava i palestinesi a spostarsi per evitare di rimanere in zone sottoposte a bombardamenti.


Già domenica, all’inizio dell’attacco, si è verificato il primo “tragico incidente” dell’operazione (l’ultimo di una serie infinita che ha già causato secondo le stime quasi 40 mila morti civili). Le IDF hanno infatti bombardato il campo profughi di Tal As-Sultan nel nord del valico, uccidendo quasi 40 persone. Se in un primo momento il portavoce dell’esercito israeliano aveva dichiarato di aver agito per colpire un compound di Hamas, il premier Netanyahu in persona poche ore dopo è stato costretto a ritrattare scusandosi per l’incidente. L'offensiva ha preso di mira anche due ospedali, quello Indonesiano e quello Kuwaitiano che ha poi cessato le operazioni dopo la morte di due membri del personale. Altri raid aerei sono stati poi registrati nel centro della Striscia di Gaza ad Al-Burej, Deir Al-Balah e Nuseirat, e hanno causato un numero di vittime che non è ancora stato stimato e confermato da fonti ufficiali.


Ad aggravare la situazione disastrosa della popolazione civile vi è anche la parziale distruzione del molo costruito dall'esercito statunitense per portare aiuti. Il molo, da cui sono transitate in una settimana di attività 820 tonnellate di materiale secondo il Pentagono, è stato disancorato dalla costa da forti mareggiate stando a media arabi. Un ulteriore duro colpo all’apparato umanitario è stato portato nella giornata di ieri dalla Knesset, che ha approvato in lettura preliminare un disegno di legge volto a dichiarare ufficialmente l’UNRWA un’organizzazione terroristica. Secondo i portavoce del governo l’obiettivo è quello di rimuovere i privilegi dei funzionari ONU “tutelando la sicurezza di Israele poiché per il Mossad gli uffici dell’agenzia sarebbero stati utilizzati da Hamas”.


L'Unione Europea ha "condannato nel modo più fermo" la strage di Rafah, ha detto l'Alto rappresentate per gli affari esteri Borrell, seguito anche dagli altri più importanti leader europei. Secondo Micheal Martin, il ministro degli Esteri dell'Irlanda che martedì ha riconosciuto ufficialmente la Palestina come Stato assieme a Spagna e Norvegia, l'Ue sta discutendo per la prima volta sanzioni contro Israele se non eseguirà l'ordine della Corte Internazionale di Giustizia di fermare l'offensiva a Rafah.


"Questo orrore deve finire", ha invocato il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres. Martedì si riunirà il Consiglio di Sicurezza dell'Onu per discutere dell'escalation del conflitto, e cercare di tamponare un massacro di civili che sta sconvolgendo il mondo. La dichiarazione più attesa era quella di Washington che, però, nonostante le parole dure espresse nelle scorse settimane dal presidente Biden e dal Consigliere per la Sicurezza Nazionale John Kirby, ha scelto di non condannare l’attacco israeliano. Lo stesso Kirby, infatti, ha dichiarato che le operazioni militari intraprese da Tel-Aviv a Rafah non hanno superato la "linea rossa” imposta dagli americani, limitandosi ad invitare Netanyahu a “prestare più attenzione ai civili”. Le armi, dunque, continueranno ad essere inviate alle forze armate israeliane per aiutarle nello sforzo bellico.


Si tratta di dichiarazioni che sembrerebbero smentire la linea che solo qualche settimana fa pareva aver intrapreso Washington, una linea che mirava a riportare Netanyahu su un terreno più moderato e chiedeva una sospensione delle operazioni per lasciare spazio alla diplomazia. Nelle scorse ore, invece, l’amministrazione americana ha scelto di puntellare la difficile posizione internazionale di Israele che ha visto il suo consenso polverizzarsi dopo l’iniziale solidarietà dovuta all’attacco del 7 ottobre.


In questa guerra sono molte le cose incerte. Non è chiaro quale sia realmente l’obiettivo militare di Israele al netto di quasi 40mila morti civili e della perdita pressochè totale del sostegno internazionale. A riprova di ciò addirittura un governo totalmente filoamericano e filoatlantico come quello italiano ha apertamente accusato Tel-Aviv di essersi attirata le critiche della società civile con le sue azioni. Non è chiara la posizione degli USA che, al netto della storica alleanza e del ruolo fondamentale ricoperto da Israele in Medio Oriente devono ancora una volta ondeggiare tra perdita di credibilità e desiderio mostrare la propria forza. Non è chiara la posizione delle Nazioni Unite che, a dispetto delle dichiarazioni di aperta condanna, si trovano a dover mostrare tutta la propria impotenza giorno dopo giorno. Risoluzioni internazionali e condanne giacciono come carta straccia, inascoltate da chiunque.


L’unica cosa chiara e sulla quale tutti possiamo essere concordi è che ci sono 40mila morti, per lo più donne e bambini, che pesano sulla coscienza di uno Stato che sembra aver perso di vista la linea rossa che avrebbe dovuto individuare da solo a causa della sua storia. All eyes on Rafah è forse lo slogan più popolare (lo dicono i numeri) della storia dei social network e, allo stesso tempo, il più inutile, perché ci ricorda che non bastano tutti gli occhi del mondo per fermare una guerra.

Forse.

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