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  • Writer's pictureKoinè Journal

All'Italia non interessa nulla dei medici del futuro


di Valentina Ricci.


Quando si parla di sanità pubblica i problemi che vengono in mente sono tanti e svariati, a partire dalle lunghe liste d’attesa, o dalla pessima condizione in cui versano molte strutture ospedaliere in Italia. Forse una delle cose a cui non si pensa quasi mai sono le condizioni di lavoro in cui si trovano gli specializzandi, quella categoria che sta tra i laureati e gli strutturati (cioè i dottori specializzati che lavorano a tutti gli effetti nel sistema sanitario nazionale). Anche se regolate a livello legislativo, le circostanze in cui lavorano i laureati che si cimentano nel percorso di specializzazione spesso non rispettano gli standard fissati dalla legge, oppure non sono di una qualità sufficiente a garantire una vita autonoma.


Di solito, riferendosi al percorso formativo dei medici, gli ostacoli più conosciuti e di dominio pubblico sono i due test d’ingresso – quello per accedere al percorso universitario e quello per diventare specializzandi – e, per quanto riguarda il secondo, il famoso “imbuto formativo”. Si tratta di una sproporzione tra domanda e offerta nei posti di specializzazione, per cui i neolaureati sono più numerosi dei posti offerti dai concorsi statali (fino al 2018 si stima che entrasse circa un candidato su sette dei 60.000 che partecipavano al concorso). Il problema è stato risolto quando nel 2019 i rettori delle università si sono impegnati ad aumentare sia i posti degli atenei (a oggi l’aumento è del 50%), sia quelli nei percorsi di specializzazione (le cui borse sono più che raddoppiate), in modo tale da annullare quasi del tutto la sproporzione tra il numero di laureati e quello dei posti di specializzazione. Sulla carta la questione è stata sciolta e i conti tornano, ma i problemi non sono finiti qua.


Il seguente articolo ha lo scopo di mettere in fila e spiegare tutti, o la maggior parte di, questi problemi, e lo fa con l’aiuto di Massimo Minerva, presidente di A.L.S. Fattore 2a - ETS (Associazione liberi specializzandi). Als si occupa di creare una rete tra medici laureandi (quinto e sesto anno della facoltà di medicina), laureati, specializzandi e strutturati, con lo scopo di aiutare la categoria nel dialogo tra studenti, professori, strutture sanitarie e istituzioni, e di dare delle coordinate orientative a chi si trova per la prima volta davanti a test nazionali o a doversi occupare delle procedure burocratiche. La naturale conseguenza di questo ruolo è che l’associazione si occupa anche di indagare e rendere noti i problemi lavorativi degli associati, segnalandoli alle istituzioni.

Fatte le dovute premesse si può entrare nel vivo del discorso: ogni paragrafo si occuperà di un problema tra quelli individuati, che sono la durata dei turni e gli straordinari, le incompatibilità, lo stipendio, le equipollenze e la distribuzione geografica delle reti formative.


La turnazione e gli straordinari

Questo primo problema è molto frequente nell’ambito di lavoro dipendente, ma esiste una legge che regola chiaramente la durata dei turni dei lavoratori dipendenti, nel cui gruppo rientrano anche gli specializzandi. Come ha spiegato il dott. Minerva, la legge 161/2014 afferma che ogni settimana deve prevedere un monte di 38 ore lavorative e che, in caso di straordinari, tale quantità non deve superare le 48 ore settimanali calcolate su una media di 4 mesi. Tale legge poi «mette altri tre paletti: ogni turno non deve superare le 12 ore e 50, ogni turno deve essere seguito da 11 ore di riposo, e infine ci deve essere un giorno di riposo ogni 7». Ulteriore fatto: per controllare che le turnazioni siano regolari esistono dei cartellini da timbrare. Nonostante qualsiasi variazione da questa turnazione sia un atto a tutti gli effetti illegale, sono molti i casi in cui gli specializzandi denunciano di fare turni più lunghi del previsto: da un’inchiesta compiuta dall’associazione Chi si cura di te? risulta infatti che «i medici specializzandi lavorano, in media, da un minimo di 45 ore a un massimo di 60 a settimana. Addirittura, il 30% degli intervistati ha denunciato di lavorare oltre le 70 ore e fino anche a 120 ore settimanali». Ovviamente a queste variazioni di orario non corrisponde un aumento della borsa, e gli straordinari non sono retribuiti.

Il mancato rispetto di questi limiti di orari, oltre ad essere una chiara infrazione della legge, costituisce un vantaggio per gli ospedali, in quanto il pagamento degli stipendi degli specializzandi non è a loro carico, ma dello Stato: come spiega il dott. Minerva, gli ospedali «campano» utilizzando manodopera non pagata, e si servono degli specializzandi per coprire i buchi causati dalla carenza di personale.


Le incompatibilità

Con questo termine vengono indicate tutte quelle attività che non sono consentite durante il percorso di specializzazione. Secondo il contratto degli specializzandi, infatti, durante il percorso formativo è permesso l’esercizio della libera professione intramuraria, prestare servizio come guardia medica o turistica, in sostituzione del medico di medicina generale, e svolgere un Master (principalmente di II livello); a queste attività si devono aggiungere gli impieghi riguardanti il Covid (come effettuare i vaccini o lavorare per le U.S.C.A.). L’esercizio di queste professioni, regolamentato dalla legge 448/2001, deve svolgersi fuori dall’orario di servizio in ospedale e non è coperto dall’assicurazione del percorso di specializzazione.

Per il resto, la legge e il contratto non prevedono che gli specializzandi svolgano «attività libero professionali all'esterno delle strutture assistenziali in cui si effettua la formazione ed ogni rapporto convenzionale o precario con il Servizio Sanitario Nazionale o enti e istituzioni pubbliche e private»: con una perifrasi molto generica e forse facilmente aggirabile, viene impedita qualsiasi attività remunerativa agli studenti specializzandi. Se si pensa alla corretta distribuzione delle ore di turno (ricordiamo, 38 ore settimanali distribuite su cinque giorni, significherebbero meno di 8 ore al giorno), nel caso di necessità ci sarebbe il tempo di svolgere un lavoro saltuario, magari per arrotondare lo stipendio e potersi permettere la vita fuorisede che molti sono costretti a fare.

L’ultima postilla la aggiunge il dott. Minerva, che polemizza sulla possibilità di fare un Master: la legge prevede che si facciano i Master senza la frequenza obbligatoria, ma tutti i Master hanno la frequenza obbligatoria, perciò agli specializzandi non resta che affidarsi «al buon cuore dei direttori, che di regola non c’è».


Lo stipendio

Perché sopra si diceva della necessità di integrare lo stipendio? Non per pura ingordigia, ma perché con la retribuzione lorda prevista dalla legge, sottraendo le spese obbligatorie, spesso diventa difficile concedersi una vita normale senza dover chiedere un aiuto alla famiglia.

Lo stipendio lordo mensile di uno specializzando ammonta a circa 2000 euro (per i primi due anni, dal terzo anno sale a circa 2160 euro). Questa cifra subisce innanzitutto uno scorporo iniziale del 16% pagato dall’Università all’INPS, più un’ulteriore detrazione dell’8% che corrisponde al versamento per fini pensionistici a carico degli specializzandi. Al netto di tutte queste sottrazioni si arriva a un totale di 1652 euro al mese, ovvero circa 10 euro l’ora se si considerano le 38 ore di lavoro settimanali citate sopra. Ma non finisce qui. Sullo stipendio gravano le ore di straordinari non retribuiti e una serie di spese a carico dello specializzando: le tasse annuali da versare all’Università presso cui si esercita la professione (il cui totale può variare tra 1600 e 3500 euro), il versamento della Cassa previdenziale ENPAM (tra i 250 e i 450 euro annui), l’iscrizione all’Albo provinciale o alla Federazione nazionale (tra i 100 e i 200 euro annui) e l’assicurazione per colpa grave (circa 250 all’anno). In totale, in media, resta circa il corrispettivo di dieci mensilità di stipendio, a seconda dell’Università in cui ci si iscrive che costituisce la variabile più imprevedibile.


Quest’ultima spesa in particolare è stata aggiunta da poco tempo con la legge 24/2017, Gelli-Bianco, e si è resa necessaria perché – spiega il dott. Minerva – molto spesso gli specializzandi si trovano, in modo del tutto illegale, ad occuparsi dei pazienti nei reparti in assenza di uno strutturato, a danno dei pazienti in primis e degli specializzandi stessi. Nel caso in cui per diagnosi sbagliate o per qualsiasi altro motivo riconducibile all’inesperienza degli specializzandi, ci dovessero essere conseguenze dannose e irreversibili per uno dei pazienti e si dovesse procedere per vie legali, è necessario che anche gli specializzandi siano coperti da un’assicurazione. Il dott. Minerva porta come esempio di questa dinamica il caso di un bambino di 4 anni morto a Milano in seguito a una mancata diagnosi di peritonite: la notte in cui il bambino si sentì male fu portato dai genitori al Policlinico, ma, in assenza del medico specialista, fu visitato soltanto dalla specializzanda, la quale lo rimandò a casa con una diagnosi di gastroenterite. La mattina dopo, in condizioni disperate, il bambino morì per una peritonite acuta e la specializzanda venne coinvolta nella causa penale: al momento delle dimissioni aveva firmato il referto a nome dello strutturato che l’aveva lasciata in reparto.


Le equipollenze

Dal sito di Als si dice equipollenza «la possibilità di poter partecipare a un concorso pubblico di tutte le scuole equipollenti a quella posseduta». Questo significa che al termine di determinate scuole di specializzazione si è abilitati a sostenere il concorso per un ruolo specialistico diverso ma, appunto, equipollente a quello per cui ci si è preparati con lo stesso numero di punti con cui sostengono il concorso gli specializzandi preparatisi direttamente all’interno di quelle scuole.


Le equipollenze sono necessarie e logiche nella maggior parte dei casi, ma le ultime introdotte sono quantomeno controverse: la scuola di Medicina di Emergenza-Urgenza è stata resa equipollente a quelle di Cardiologia, Gastroenterologia, Medicina interna, Geriatria e Pneumologia. Dando maggiori sbocchi lavorativi agli specializzandi di Medicina d’urgenza, il Ministero sperava di rendere la specializzazione più appetibile, in seguito all’enorme calo di iscrizioni che ha interessato quella scuola negli ultimi anni (nel 2021 Als calcola che il 54,3% delle borse stanziate per Emergenza-Urgenza non sono state assegnate, mentre nel 2022 il dott. Minerva sostiene che la somma arrivi al 40% di posti rimasti liberi). Il risultato però non è stato quello sperato, e, invece di spingere specializzandi in Gastroenterologia, Cardiologia, ecc… a provare il concorso in Medicina d’Urgenza, si è creato un flusso nella direzione opposta che blocca ulteriormente l’accesso a queste specializzazioni.


Le reti formative

Con rete formativa si intende «l’insieme delle strutture sanitarie (ospedaliere, universitarie, territoriali) che afferiscono ad una singola Scuola e che sono accreditate secondo standard assistenziali e formativi», ovvero l’insieme delle strutture ospedaliere che si occupano della formazione degli iscritti a una singola Scuola di specializzazione. Gli standard per la definizione delle reti formative sono definiti nel Decreto interministeriale n.68 del 4 febbraio 2015, mentre dal 2017 l’organismo incaricato del controllo di tali standard è l’Osservatorio nazionale della formazione medica specialistica. L’esistenza della rete formativa prevede che ciascuno specializzando debba, durante il percorso di formazione, trascorrere alcuni mesi in ospedali diversi da quello principale a cui fa riferimento la Scuola di specializzazione, e la cosa si è resa ancor più necessaria nel momento in cui è aumentato il numero delle borse di specializzazione. Il vero problema sorge se si guarda la tabella di reti formative (scaricabile dal sito di Als): alcuni ospedali delle reti non si trovano nelle stesse città delle strutture principali, e talvolta nemmeno in città raggiungibili con spostamenti pendolari. Questa lontananza richiede agli studenti di cambiare casa per alcuni mesi, oppure, date le pessime condizioni del mercato degli affitti, di pagare due affitti contemporaneamente per evitare di perdere quello nella città della sede principale.


Il quadro delineato fin qui non è dei più rassicuranti per chi vuole intraprendere la carriera da medico, ma non lo è nemmeno per tutti gli altri. Chiunque, in qualità di potenziale paziente, vuole essere certo che, in caso di bisogno, può rivolgersi a un sistema sanitario che non gli farà mancare nulla delle cure necessarie. Invece, soltanto analizzando le condizioni in cui avviene la formazione dei futuri dottori, si vedono le prime crepe di un sistema in crisi già da molti anni e che con la pandemia ha portato allo scoperto i suoi punti deboli. Peggio ancora, dopo lo shock subito dal Ssn in periodo pandemico, ci si aspettava una maggiore attenzione e cura nei confronti della categoria, un potenziamento del sistema, o almeno un risarcimento, una “ricostruzione”. Invece, dopo esserci riempiti la bocca con parole come “eroi” o “angeli”, ora i medici stessi e i sindacati sono costretti a scendere in piazza per rivendicare il diritto a una paga più alta, a turni meno opprimenti e per chiedere che il governo si occupi di loro con più attenzione, a partire dai fondi stanziati con la legge di bilancio (addirittura in diminuzione rispetto al periodo prepandemico).


Se ciò che si vuole è il diritto a una cura adeguata e accessibile a tutti, allora quello che si deve pretendere è che le condizioni di chi esercita la professione siano altrettanto dignitose, a partire dalle fasi della formazione. I problemi degli specializzandi (e degli studenti in generale) sono parte integrante della crisi del sistema sanitario nazionale.




Image Copyright: Il Fatto Quotidiano

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