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Writer's pictureKoinè Journal

Anora: la fine del sogno americano


di Stefania Chiappetta.


Al racconto della fiaba classica segue sempre un lieto fine, nonostante le innumerevoli prove che ostacolano il coronamento del sogno romantico. È la fiduciosa chimera da cui parte la rappresentazione delle love stories: da una situazione iniziale di miseria e fatica, fino all’epilogo ricco e speranzoso con cui modificare la propria condizione. Disattendere tradizionali premesse significa abbandonare la rincuorante sensazione del racconto favolistico, forse abbandonare il sogno. Anora, il nuovo film scritto e diretto dal regista Sean Baker, vincitore della Palma d’Oro alla 77ª edizione del Festival di Cannes, come informa il suo poster promozionale è una “made in America love story”. Sennonché la parabola amorosa, che pure si misura con il concetto di sogno e speranza, arriva a schiantarsi con il modello del sogno americano, fino a mostrarne limiti, eccessi ed inconsistenze.


Anora (Mikey Madison), meglio se abbreviato in Ani, è una giovane ballerina che lavora in uno strip club di Brooklyn: ha 23 anni, i suoi capelli sono lunghi e contornati da extension glitterate che si amalgamano alle luci al neon della fotografia. I fili rosa, magenta e viola che brillano nei capelli, mostrano una appartenenza del personaggio al luogo fortemente corporale, un marchio estetico quanto socialmente identitario. Nella sequenza iniziale del film, mentre un carrello laterale presenta una fila di godenti corpi maschili, la danza delle spogliarelliste è catturata dalla macchina al rallentatore, focalizzando l’attenzione sul movimento delle parti del corpo. La regia sottolinea così l’aspetto delle sex worker, unito però alla grazia estatica con cui vengono percepiti i corpi femminili. Rispetto ad una narrazione che vorrebbe le giovani sex worker eroine tragiche, votate alla redenzione e caratterialmente difficili, Sean Baker ne modifica la rappresentazione. Il corpo protagonista infatti emerge non tanto per l’innegabile bellezza, quanto per la particolare gioia speranzosa da cui pare essere contornata. Una luce vitale e dolce, interposta al vuoto affettivo che la circonda.


Una sera Ani conosce Vanja, un 21enne Russo figlio di un potente oligarca che fa sfoggio della sua villa, dei suoi soldi e delle feste che organizza. Si interfaccia la tematica della sfrontatezza con cui il potere, seppur in fase nascente come quello di Vanja, si confronta con la promessa dello stile di vita Americano, offrendo abbagli di libertà e felicità spicciola. Dell’incontro relazionale il film mostra il suo meccanismo da commedia romantica, riprendendo gli aspetti della contemporanea fairy tale alla Pretty Woman (Garry Marshall, 1990). Il mito di Cenerentola accresciuto da alcool, droga e dirompete sessualità, non nasconde il vizio della speranza di una scalata sociale. “Io voglio la favola” diceva Julia Roberts sul finale di Pretty Woman, e sembra quasi poter ricalcare le parole di Ani quando, con un anello al dito, si licenzia dal locale in cui lavora, paragonandosi con la sua amica proprio alla Cenerentola della fiaba.


Esprimendo le subdole dinamiche di potere sotto i tropi della romantic comedy in stile teen, il film si avvia dunque verso uno smascheramento disilluso, supportato dalla scansione in tre atti della scrittura che subisce una continua trasformazione di tono. Se l’innamoramento del primo atto – contornato da una voglia di esclusività da parte di Vanja, la quale ha molto a che fare con il possesso del denaro e meno con l’amore - si chiude con un matrimonio improvviso come simbolo del cambiamento sociale, alla base del secondo atto vi è una presa di coscienza. Fino al raggiungimento dell’epilogo con il terzo atto, in cui resta poco o niente della colorata e ricca vitalità giovanile.


Con l’entrata in scena della famiglia di Vanja e gli scagnozzi da loro mandati per ottenere l’annullamento del matrimonio, la regia cambia in movimenti rocamboleschi, violenza improvvisa e corse in auto per i quartieri di Brighton Beach. Il bisogno della ricerca, scaturito dall’improvviso sottrarsi di Vanja di fronte alle responsabilità, è fautore di uno scarto generazionale sorretto dal complicato rapporto con la figura genitoriale. Seppur lontani dal mondo materno che Baker rappresenta nel film Un sogno chiamato Florida (2017), il mutarsi dell’amore in odio rabbioso è sostenuto proprio dai personaggi adulti: i quali, abbagliati da un falso tenore di vita, puntano il dito verso la dissolutezza giovanile. Ogni ideale, desiderio, sogno, espressioni simboliche di cambiamenti identitari, culturali e politici, confrontati con la mancata aderenza sociale vengono a mancare. L’introduzione dell’aspetto genitoriale, contornato da una profonda privazione affettiva, assume nel film la forma di un’istituzione di potere al cui vertice si trova la famiglia.


Sean Baker, sfruttando gli stilemi della commedia per trasformare con le risate gestualità e situazioni, camuffa uno dei grandi sentimenti che sorregge la sua protagonista, e con lei ogni altro personaggio secondario: l’espropriazione. D’altronde il sogno stesso, che scaturisce da un desiderio di cambiamento positivo, tradisce per primo la mancanza di ciò che non si possiede: una privazione che sottintende una non appartenenza identitaria. Chi è dunque Anora? Cosa dicono di lei i suoi completi intimi, i suoi vestiti attillati, le origini della sua famiglia, il suo nome per intero? Soprattutto, chi è Anora per l’interezza dello sguardo di chi sembra possederla, braccarla, bloccarla?


Una risposta che dovrebbe essere ricercata nelle silenziose occhiate di Igor, il 30enne aiutante degli scagnozzi della famiglia di Vanja. Più che un personaggio secondario, Igor funziona come intercessore dello sguardo spettatoriale su Anora, ricercandone l’essenza nella sua furia, nella sua intelligenza, nella sua positività. Gettata la maschera che ricopre il modello costruttivo del personaggio femminile, ispirato – come dichiarato dal regista - alla Giulietta Masina del film Le notti di Cabiria (Federico Fellini, 1957), non resta che l’intima e asciutta sequenza finale. La regia di Baker, ripulita da neon, locali notturni e ricco arredamento, ricerca la sua specificità nell’abitacolo di una vecchia automobile. Fin quando la commedia non si scioglie in pianto, e le brillanti immagini del film nello schermo nero dei titoli di coda.

 

 

 

 

Riferimenti:

-Alice Cucchetti e Ilaria Feole, Singolare, Femminile #156: Anora e le compagne, Film Tv, Tiche Italia, Milano, novembre 2024.

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