The Voice of Hind Rajab (2025)
- Koinè Journal

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di Stefania Chiappetta.
Hind Rajab ha quasi 6 anni quando il 29 gennaio del 2024 chiama gli operatori del braccio Palestinese della Mezzaluna rossa, pregando di essere salvata. È intrappolata in macchina con tutta la sua famiglia mentre cercano di evacuare dall’area ovest di Gaza, però intorno a lei stanno tutti dormendo, nessuno si muove, dice. Solo in un secondo momento chiarirà con profonda lucidità che i suoi cugini e i suoi zii in realtà sono morti, ammazzati dall’esercito Israeliano che continua a circondare l’auto in cui si trova la bambina, ferita alla schiena e alle gambe, circondata da cadaveri. Non c’è invenzione, non c’è falsità, non c’è ritrattazione: solo la verità spaventosa e la corsa contro il tempo per salvare almeno questa bambina, almeno questa vita umana.
Hind Rajab è solo una dei circa 17.000 mila bambini uccisi nel genocidio di Gaza, e la testimonianza delle loro morti giunge quotidianamente su ogni nostro dispositivo. Lo sappiamo, lo abbiamo visto, lo abbiamo condiviso: eppure non siamo riusciti a fermarlo, non è bastato. Ci troviamo difronte a quella che potremmo definire come impasse visiva. Le immagini di guerra – vere, personali, girate con gli smartphone e postate sui social – pur mostrando l’orrore senza censura sono state depotenziate, ridotte a cornice comunicativa di un mondo sull’orlo del collasso. Un mondo in cui per autorizzare un corridoio umanitario dal tragitto di 8 minuti, passano ore interminabili e cavilli burocratici che cozzano contro il disfacimento di ogni forma sociale.
Non si può quindi parlare di un film come La voce di Hind Rajab, senza legarlo direttamente al nostro rapporto con le immagini del conflitto israelo-palestinese. La trasparenza della documentazione ha paradossalmente prodotto una neutralizzazione del punto di vista sugli eventi, alimentando una lontananza progressiva che si è – forse – interrotta con le mobilitazioni delle ultime settimane. Una corda spezzata ma solo perché tirata con troppa foga. Del nostro periodo storico non c’è finzione cinematografica che possa alleggerirne il peso, né tantomeno cercare di rappresentarla.
Cosa fare allora se anche le immagini reali non bastano più e la conoscenza porta alla cecità? Per la regista Kawthar ibn Haniyya la risposta si esprime attraverso la sottrazione del conflitto dalle immagini del film, mostrando la guerra in un fuoricampo esclusivamente sonoro. Perché se le foto, i video, i resoconti giornalistici si sedimentano nell’accumulo digitale del nostro tempo, il suono può forse interrompere quella impasse sopracitata che ha svuotato l’immagine stessa di sentimento empatico. Il lavoro del film è quello di unire gli eventi reali alla rielaborazione della narrazione cinematografica, lasciando che le registrazioni reali delle lunghe chiamate tra la bambina e gli operatori (Omar e Rana) riempiano quel vuoto che la finzione non può colmare.
Hind Rajab infatti non è un personaggio cinematografico ma una bambina uccisa mentre le veniva finalmente prestato soccorso, che aveva paura del buio e chiedeva disperatamente di tornare dalla sua mamma. Nel film non ha – non può avere - un’attrice che la interpreti: il suo è un corpo mancante che la memoria collettiva deve conservare, rimediando la mancanza fisica con le onde sonore della sua voce. Un doloroso paradosso che ci porta a ragionare direttamente su cosa sia l’infanzia in Palestina, confrontandoci con la feroce privazione di uno specifico tempo umano, rappresentata nel film attraverso l’impotenza del mancato salvataggio.
Per questo ad avere un corpo attoriale, delle battute, una gestualità che bilancia quella corsa contro il tempo, sono solo gli operatori della Mezzaluna rossa. Ad Hind Rajab spetta una foto reale e immobile, appesa sulla bacheca in cui finiscono tutte le altre persone che hanno chiesto aiuto e non hanno potuto ottenerlo. La staticità della sua fotografia serve necessariamente per sottolineare la lacerante perdita di 5 brevissimi anni di vita. Al contrario, il solo movimento che le appartiene nelle immagini cinematografiche è la registrazione della sua voce. La mobilità del suono che conduce alla sua brutale interruzione sovrastata dal rumore degli spari, è un monito che l’audience non deve dimenticare. Perché questo non è il momento di elaborare il trauma nella memoria collettiva e sociale, piuttosto il tempo di prendere coscienza di una guerra in corso attraverso il linguaggio del film.
Per questo la fotografia di Hind Rajab oltrepassa i confini del quadro cinematografico e si inserisce nella produzione filmica, nel suo tour distributivo accrescendo l’urgenza culturale che lo rende il grande Instant Movie del nostro presente storico. Anche la sua cornice festivaliera, la standing ovation più lunga della storia della mostra del cinema di Venezia, è la dimostrazione di una testimonianza cinematografica attiva. Un archivio memoriale a cui poter accedere senza barriere, per supplire a quell’inerzia sociale con cui abbiamo osservato quotidianamente ogni immagine, nascondendole sotto strati di impotente partecipazione.









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