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Writer's pictureKoinè Journal

Breve guida agli Oscar


di Stefania Chiappetta.


I primi mesi dell’anno, soprattutto per quell’ampia fetta di pubblico partecipe e attenta, si aprono sempre con attesa febbrile, commenti a caldo e nuovi film da vedere: sono i mesi che precedono l’Academy Awards, meglio conosciuto come premio Oscar. La famigerata statuetta ricoperta d’oro, raffigurante la sagoma di un cavaliere la cui figura troneggia su una bobina di pellicola cinematografica, la spada che tiene in mano simbolo di prosperità e benessere per l’industria.


Il premio è (forse meglio dire era) uno dei maggiori riconoscimenti che spettano ad un’opera filmica, nonché all’apparato lavorativo che la rende un intero. Entrato nell’immaginario collettivo nel lontano 1929, il 16 di maggio, con il tempo è divenuto ricettacolo di sfarzo, eleganza, lustrini e tappeto rosso; nonché qualche piccolo ed innocuo scandalo, portatore di bisbiglii più o meno ampi, straordinariamente adatti alla comunicazione mediale. Ogni anno la notte degli Oscar, serve per ricordare al mondo (troppo cieco per accorgersi che il cinema è lì, vivo e vegeto) che nella sfera sociale, l’apparato industriale cinematografico detiene ancora un posto. Ecco allora il prodursi di discorsi “critici” che poco servono a fare riflettere sul singolo film, o sulla tecnica attoriale: quanto piuttosto sulla nuova pettinatura sfoggiata, sul tacco mancato o il colore non proprio in palette nella scala armocromatica.


Le colpe sono tante, ben stratificate nel discorso che annualmente si produce sul cinema in toto, e che riguardano passaggi molto complicati e sicuramente noiosi, soprattutto per chi è estraneo al settore: la produzione, il marketing, la votazione da lobby dell’Academy che precede l’assegnazione dei premi, il clima sociale. Allora, volendo tornare alla domanda iniziale, non si può far altro che notare come, anno dopo anno, la cerimonia diventi sempre più stanca, spenta. Non si può davvero parlare di un maggiore riconoscimento artistico, di un film meritevole tra tutti, quanto piuttosto di un compromesso frutto di lunghe vicende.


I film candidati, oggi più che in passato, non hanno vita breve, infatti, reperirli è molto più facile. Non solo è cambiata la visione, sempre più privata e spezzettata nel quotidiano, ma anche la possibilità di riproduzione che, come inevitabile in epoca digitale, può essere infinita. Inoltre, i titoli caldi della stagione, sono già apparsi mesi prima: trionfatori nei maggiori festival -come Venezia o Cannes- o collezionisti di numerose candidature ai premi che precedono l’Oscar. Questo non solo permette all’audience di accrescere le proprie aspettative, avanzando pronostici più o meno azzeccati, ma contribuisce a creare un clima disteso, piatto, privo del reale appeal che la cerimonia promette di avere. Allora, non è solo un azzardo sostenere che, gradualmente, si sia giunti ad una progressiva perdita della centralità artistica, che diventa diseguale e distribuita in modo non univoco. Le cause sono tante, alcune così sedimentate che diventa difficoltoso rinvenirle.


Nelle due cerimonie dell’Academy avvenute in piena crisi pandemica, le braci della stanchezza descritta, non hanno potuto che venire fuori. Cosa siamo in grado, oggi, di ricordare della scorsa edizione? Forse lo schiaffo di Will Smith, o le lacrime versate sul palco al ritiro del suo premio come miglior attore, in una confusa arringa che mischiava artisticità e vita privata. Ma questo non ha fatto altro che allontanare l’attenzione dai film presenti.

Infatti, quale discorso si è prodotto sul film vincitore, CODA – I segni del cuore, remake poco riuscito del francese La famiglia Bélier che, nel 2014, sebbene insufficientemente considerato era risultato originale, fresco, coraggioso? Quasi il nulla, si potrebbe rispondere. Cosa si è detto a proposito dei premi tecnici assegnati in sordina, tra una pausa pubblicitaria e l’altra, in uno stravagante delirio di potere che quasi ammetteva una disugualità tra i vari settori? Sebbene non ci si aspetti che la discussione annualmente prodotta dopo l’assegnazione dei premi, sia capace di far riflettere sullo stato attuale del mondo audiovisivo -che resta completamente sconosciuto al grande pubblico- la sua mancanza risulta spaventosa. Inquietante.


Eppure, se l’Oscar insieme a pochi altri eventi, ha la capacità di far spostare l’attenzione, almeno per un giorno, sul mondo cinematografico, perché così poca mancanza di coraggio? Perché, subito dopo l’assegnazione delle nomination, orde di cinefile e cinefili parlano di grandi esclusi, di tendenze conservatrici, di mancanza artistica? Le nomination al miglior film della prossima cerimonia, che avverrà la notte del 12 marzo al Dolby Theatre, parlano chiaro: nei dieci titoli candidati, trova posto il cult.


L’immediato successo al botteghino a cui si guarda con piacere, con speranza, per allontanare la tanto decantata morte delle sale. È il caso di Avatar – La via dell’acqua, con James Cameron alla regia che riporta il 3D in sala segnando, da subito, l’entrata del film tra i maggiori incassi del cinema. Ma, oltre al prestigio, c’è anche l’attenzione che l’audience riserva alle storie, il piacere di farle rivivere. Così troviamo il biopic di Elvis, firmato da Baz Luhrmann, oppure il tanto chiacchierato Everything Everywhere All at Once che, prodotto dalla coraggiosa A24, vuole essere la risposta del cinema indipendente al successo del multiverso Marvel. In chiusura titoli di nicchia, segnati già da un prestigio diverso, eppure con tematiche calde che riflettono lo stato dell’industria. Un film come Tàr mostra la glacialità del potere dove, specularmente, le ampie scogliere Irlandesi de Gli spiriti dell’isola, ospitano la tragicommedia di un’amicizia infranta. Sembra ci sia spazio per tutti, invece, nel tirare le somme finali, appare evidente come ogni titolo sia ben ponderato, di facile comprensione, privo di sbavature.


Mancano -da molto tempo- numerosi altri generi poco indagati, quasi come se fossero inadatti a ricoprire il ruolo di prestigio che l’Academy richiede. O finge di richiedere. Ironico come, in una cerimonia che decanta l’inclusività assoluta ed il rispetto reciproco, più di un interprete si sia fatto avanti per rompere il silenzio. Prima fra tutte l’attrice Mia Goth che, nel pieno della sua carriera, in un’intervista con Jake Hamilton ha denunciato l’assoluta incapacità dell’Academy di considerare il cinema di genere. L’horror è il suo esempio, che l’ha resa una delle interpreti più amate dal pubblico nel 2022, grazie ai film di Ti West X e Pearl, l’ultimo non ancora uscito in Italia.


È come se, dando ragione ad un sentire popolare stantio che vede il cinema unicamente come mezzo di svago, eleganza e snobismo, l’Academy tenga a guinzaglio i titoli che ammette nelle sue “grazie. Un patto che non prevede sorprese di nessun tipo, se non quelle già prevedibili; che preferisce ammetter il conservatorismo dell’industria hollywoodiana, nascondendolo sotto la facciata di una inclusività fasulla.

Eppure, il maggior esempio di contrasto è proprio nell’atto stesso di guardare, di comprendere: come ci insegna il cinema, soprattutto quello non considerato.

Così, sia in pigiama a seguire la nottata degli Oscar, o da cellulare la mattina seguente per recuperare i vincitori, leggere articoli e pronunciare opinioni, il vero potere sovversivo non può che appartenere a noi.


Di seguito, la lista dei 10 candidati al miglior film, da recuperare!

  • Avatar: La via dell’acqua (James Cameron)

  • Elvis (Baz Luhrmann)

  • Everything everywhere all at once (Daniel Kwan e Daniel Scheinert)

  • Gli spiriti dell’isola (Martin McDonagh)

  • Niente di nuovo sul fronte occidentale (Edward Berger)

  • Tár (Todd Field)

  • The Fabelmans (Steven Spielberg)

  • Top Gun: Maverick (Joseph Kosinski)

  • Triangle of Sadness (Ruben Östlund)

  • Women talking (Sarah Polley)




Image Copyright: Discoradio

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