di Stefania Chiappetta.
Piedi smaltati che si poggiano su di un soffice tappeto rosa, mentre i passi in avanti della protagonista guidano il movimento d’apertura del film. Stacco di montaggio sui titoli di testa, segue un occhio azzurro che si apre, in dettaglio, ricoperto da una precisa linea di Eye-liner nero. Un altro stacco sui titoli, seguono poi in sequenza, ancora in dettaglio, ciglia finte nella loro confezione di plastica, labbra carnose riempite da rossetto, bomboletta spray contenente della lacca per capelli. Ogni cosa che vediamo appartiene alla giovane Priscilla Presley, interpretata da Cailee Spaeny vincitrice della Coppa Volpi alla miglior attrice. La musica che accompagna la sequenza è sognante, le note sono quelle di Going Home di Alice Coltrane. Eppure, man mano che i secondi scorrono, essa si fonde alla cover di Baby I love You dei Ramones, segnando l’utilizzo della colonna sonora; in asincrono con gli anni della narrazione e, soprattutto, confrontandosi con l’assenza di canzoni composte da Elvis Presley: il grande “fantasma” maschile della storia che stiamo per conoscere.
Nei quasi 3 minuti della scena iniziale di Priscilla, il nuovo film scritto e diretto da Sofia Coppola e presentato alla scorsa edizione del Festival del Cinema di Venezia, ogni frame è posto nella chiara condizione di contribuire ad un significato a sé. Quello a cui assistiamo da subito è infatti la frammentazione in immagine del corpo di una ragazza, la sua figura mediale, non certo la sua interezza. Gli oggetti che ci vengono presentati, contribuiranno alla creazione di un’icona femminile indelebile, riconoscibile, eppure ben lontana dal poter essere considerata come corpo concreto, reale. È così che Sofia Coppola mette in scena a partire dal libro di memorie Elvis and Me, scritto proprio da Priscilla Presley nel 1985, un’opera che si discosta dall’etichetta di biopic, attuando un’operazione che potremmo definire come depotenziamento del mito.
La storia si apre nel 1959 nella Germania Ovest, in un caffè della base dell’aeronautica USA. In quegli anni, mentre il giovane Elvis Presley è lontano dalle scene per la leva militare, la 14enne Priscilla lo conosce ad una festa grazie ad amicizie in comune. La ragazzina attira la sua attenzione nonostante la differenza d’età, scontrandosi con la famiglia iperprotettiva che la mette in guardia da lui. I due però non possono che innamorarsi, finendo per restare insieme fino al 1973, l’anno del loro divorzio.
Si crea dunque una sostanziale differenza che, bilanciando la visione romantica che ancora oggi si accompagna alla storia della relazione tra i due, la riduce all’essenziale, mostrandola dal punto di vista di Priscilla. La ragazza, nei suoi abiti da studentessa con cardigan e gonne a pieghe, rappresenta il mondo ordinario, protettivo, che spettava alle adolescenti negli anni 60’, e non solo. Una differenza notevole con il mondo scintillante della fama mondiale, della musica, del cinema, dei tour, che invece toccherà ad Elvis. Due mondi opposti che non potranno mai collidere, nonostante un matrimonio ed una figlia, finendo in una spirale di oppressione il cui centro nevralgico ha la struttura di Graceland: l’imponente dimora di Elvis, in cui Priscilla si trasferisce ancora minorenne nel 1962.
Ha inizio così una reiterazione di eventi tutti simili, che bloccano l’immagine filmica in un reale vacuo, ozioso, in cui il mondo esterno viene completamente negato, compensato invece dalla noia silenziosa di una ragazzina prigioniera. Dimostrando una continuità tematica in rapporto con la filmografia della Coppola, basti pensare a Il giardino delle vergini suicide (1999) o Maria Antonietta (2006), al centro del film non può che stagliarsi una visione quasi grottesca della donna come feticcio, come figurante in una parata sociale che la decostruisce, per poi ricomporla in pezzi, a mera icona di femminilità.
A guidare la creazione è la figura stessa di Elvis Presley (interpretato da Jacob Elordi) che, allontanato dalla dimensione di Re del rock come invece lo aveva raccontato il recente film di Buz Luhrmann (Elvis, 2022), viene cristallizzato nel ruolo privato di fidanzato, marito e padre. Fautore egli stesso di un’idealizzazione che erge Priscilla ad angelo del focolare, che la vuole pura, ingenua, mansueta; che le impone vestiti corti per valorizzare la sua statura, capelli voluminosi e scuri per far risaltare gli occhi. I momenti che li vedono insieme, come coppia, sono in maggioranza nella stanza da letto a Graceland, in cui si passa da giochetti scherzosi a repentini litigi che finiscono per far scivolare le scene nello schermo nero degli stacchi di montaggio. Anche gli accessi d’ira, le violenze psicologiche e gli urti fisici vengono ridimensionati, sfumati. Come se il ricordo delle memorie contenute nel libro si interrompesse bruscamente, inglobando le parole scritte, che ora sono diventate sceneggiatura.
Nella camera da letto non c’è il sesso, non ci sono memorabili momenti romantici, eppure la fotografia dai calori tenui la rende abitabile, grazie agli arredi scenici su cui la regia di Sofia Coppola si focalizza. I vassoi di cibo serviti a letto, le lenzuola, le tende tirate, le sceneggiature dei film che il cantante deve studiare: tutto diventa arredamento, oggetto, materia. Ogni orpello, che nel film si trasforma in estetica cinematografia, in realtà pare voler riempire proprio quello spazio intimo, privato, domestico, che la fama derivante dal mondo esterno sembra reclamare a sé. Priscilla stessa non può che diventare un mobilio di Graceland, forse il più bello di tutti, eppure usato esclusivamente per scongiurare quell’opprimente senso di horror vacui, il timore esistenziale del vuoto.
Ed è proprio con questo timore del vuoto che la visione di Sofia Coppola si misura, costruendo un film che parla direttamente alla sua filmografia, inserendosi nel suo filone estetico, che ha segnato gran parte del cinema hollywoodiano contemporaneo. La sua Priscilla, per la prima volta non solo bambina ma anche bambola truccata e vestita, vezzeggiata e abbandonata, vicina alla fama ma mai abbastanza da poterla toccare, è più umana che mai, più concreta che mai. Certo, quello a cui assistiamo sono solo ricordi, volutamente freddi, distaccati, depotenziati appunto. Ma è anche nel ricordo che la strada verso la libertà può essere raccontata, non solo quella della protagonista, probabilmente anche la nostra. Magari proprio con I Will Always Love You di Dolly Parton in sottofondo.
Image Copyright: IMDB
留言