di Stefania Chiappetta.
Era il 1955 quando, dalla sottile penna della scrittrice statunitense Patricia Highsmith, viene creato il personaggio di Tom Ripley le cui vicende si estenderanno in una serie di 4 romanzi crime. Enigmatico, bugiardo, truffatore, assassino, ogni appellativo volto a spiegare la sua figura pare tramutarsi in fretta, per il mondo mediale, in una massa di potenziale a cui attingere. Nell’immaginario visivo quindi, Tom Ripley ha diverse facce; da Alain Delon nel film Delitto in pieno sole (René Clément, 1960), a Matt Damon nell’ormai cult Il talento di Mr. Ripley diretto da Anthony Minghella (1999). Il suo continuo ritorno interpretativo, dimostra quanto potenziale ci sia nella rappresentazione di personaggi moralmente ambigui, scomodi, in grado di riportare l’audience alla visione di una narrazione già conosciuta.
Sembra esistere dunque, già nell’operazione stessa di riproporre un nuovo adattamento, un senso stretto di serializzazione: non solo nei romanzi scritti dalla Highsmith, ma nel personaggio stesso di Tom Ripley. Definiamo infatti serialità (o serie tv), tutte quelle narrazioni il cui potenziale espressivo continua nel tempo, votando lo spettatore ad una forte fidelizzazione. Per usare le parole di Umberto Eco nel suo Sugli specchi e altri saggi, è quello che accade quando si risponde al “bisogno infantile di riudire sempre la stessa storia”. Il piacere visivo è dato in questo caso dalla ripetizione: dalla sicurezza, rasserenante, di poter incontrare personaggi, ambienti ed eventi conosciuti.
Non stupisce che il recente ritorno di Tom, stavolta interpretato da un magnetico Andrew Scott, avvenga sul piccolo schermo di Netflix. La serie che lo vede protagonista, debutta lo scorso 4 aprile sulla piattaforma, in uno stile che potremmo definire senza sforzi autoriale. Interamente diretta, sceneggiata e pensata per la tv da Steven Zaillian, gli 8 episodi che la compongono si cimentano nel mostrare la storia del primo romanzo: niente di innovativo, almeno in apparenza. Eppure, nel riadattare una storia già raccontata, si stagliano elementi nuovi che fanno della serie Ripley un originale punto di partenza.
Dove il film cult di Minghella iniziava con un fade-in che divideva il volto di Matt Damon\Tom Ripley costruendolo per sezioni di colore, la serie di Zaillan inizia con un flash forward. Il colore ha ceduto il posto ad un bianco e nero chiaroscurale, espressivo, che proietta sinistre ombre negli ambienti scenografici e rende i corpi stessi più duri, inqueti. Non c’è alcuna frammentazione del personaggio di Tom, che vediamo da subito nell’habitus che si è scelto, mentre trascina nelle scale di un condominio a Roma un cadavere. Il nostro protagonista è quindi un assassino, non serve nascondere questa informazione. Eppure, nonostante la certezza delle sue azioni, occorre ritornare al principio, ed uno stacco di montaggio sulla didascalia “sei mesi prima” riavvolge la narrazione seriale.
Il primo episodio della serie, permette alla temporalità degli eventi di fluire nel disteso realismo che Zaillan sceglie di impostare. Quando rincontriamo Tom siamo a New York, negli anni 50’, dove assistiamo alle sue truffe per false compagnie d’assicurazione; “mente, è questo quello che fa” dirà di lui, in seguito, il personaggio femminile di Marge Sherwood (Dakota Fanning), fidanzata con l’uomo che diventerà ben presto il suo doppio. Un incontro fortuito però stravolgerà non solo la vita del personaggio, ma anche i luoghi che abbiamo incontrato: da Roma a New York, per poi giungere nel paesino di Atrani, nel sud Italia. È lì che Tom ha un compito da svolgere, assegnatogli dal ricco padre di un suo “amico” del college: deve convincere suo figlio, Richard (Dickie) Greenleaf (Johnny Flynn), a tornarsene negli stati uniti dove lo attende la famiglia ed il patrimonio da ereditare.
Atrani, che nella serie sostituisce il paesino balneare di Mongibello inventato dalla Highsmith, è l’ambiente di avvio della storia. Uno spazio che finirà per intrappolare tutto il resto degli episodi, nonostante i continui spostamenti - sul finale molto repentini - di Ripley. È così che, nel delineare una strana mescolanza tra Americani ricchi in vacanza e cittadini del posto, l’Italia che Zaillan restituisce è quanto mai singolare.
Nonostante la voglia di Tom di vivere la dolce vita (che darà proprio il nome ad un episodio), di spostarsi nelle città d’arte ed imparare la lingua (spinto soprattutto da Richard e Marge), la lenta discesa nella sua psiche detterà la visione stessa del paese. Persino l’arrivo ad Atrani, nell’autobus di linea che procede su una stradina stretta e piena di curve, rimanda ad un senso di inquietudine: i casolari della parte alta sono stretti, uno vicino all’altro, a strapiombo sul mare. Non vedremo mai il colore dell’acqua, del cielo, della casa di Richard che ospiterà Tom, dei costumi indossati, dei quadri dipinti. Ogni cosa, resa come dicevamo dall’utilizzo fotografico del bianco e nero, servirà a svuotare lo spazio iconografico e renderlo un luogo morto.
Sono lontane le location di Ischia o Procida, che nel film di Minghella riempivano lo schermo con colori saturi ed una coralità vivida, quanto pittoresca, di Italiani. Nella serie di Zaillan, tutto è gonfiato a favore di quel realismo scenico che vede in Tom l’approfittatore bugiardo che è, senza riuscire a provarlo. Persino il montaggio, dividendo le inquadrature fisse che colgono in dettaglio gli oggetti, è reso attraverso quello che sembrerebbe uno scatto fotografico. Sono gli stessi oggetti a pesare nella narrazione seriale, diventando indizi concreti sotto gli occhi dei personaggi, che continueranno a sfuggire; è l’audience che dovrà beneficiare di questo espediente narrativo\visivo, portando ad una consapevolezza maggiore verso gli eventi, senza creare alcun mistero.
In questa persistenza di morte che detta la convivialità italo\americana, portandoci alla comparsa di attori come Maurizio Lombardo o Margherita Buy, persino le scene di omicidio da parte di Ripley, verranno rese in favore di quel realismo disteso ed inquieto sopracitato, pesando sulla durata delle azioni. È la temporalità quindi che serve alla serie per distaccarsi dai film che l’hanno preceduta, prendendosi delle libertà on screen che alla fine renderanno ancora più forte la nostra fidelizzazione verso la storia, o Ripley. Come il continuo salire e scendere gli scalini ripidi di Atrani, l’ascolto del vinile di Mina che inciderà la colonna sonora, e l’ossessione quasi morbosa che Tom instaurerà con le opere di Caravaggio. Infatti, mentre gli episodi si susseguono in maniera lineare, l’uomo non smetterà di cercare nelle chiese delle diverse città italiane le opere del pittore, rimanendo attratto non solo dai soggetti nei quadri, ma dal modo in cui la luce taglia le scene dipinte.
La feticizzazione verso l’arte del Caravaggio (o l’arte in generale, in particolare quella dilettantesca, senza alcun talento o passione), guiderà la costruzione del personaggio ed il suo cambiamento fisico, che ne modificherà lentamente la parlata, la pettinatura, i vestiti, gli accessori. Fino a giungere all’episodio finale, intitolato sottilmente Narcissus, ad indicare non solo il dipinto di Caravaggio (“Narciso” appunto, del 1599), ma anche la perdita completa del senso di identità sociale del nostro protagonista.
“La luce. Sempre la luce”, dirà infatti a Tom un prete della chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma, dove sta osservando il dipinto La Vocazione di San Matteo (1599-1600). E sarà proprio la penombra chiaroscurale del bianco e nero a dividere il viso dell’uomo, in una scena chiave dell’ultimo episodio, dove risponderà nuovamente solo al nome di Tom Ripley.
È così che si conclude - almeno per il momento - la perdita identitaria, irreversibile, di Tom Ripley. Eppure a quello stesso nome, hanno risposto in tanti volti attoriali nelle trasposizioni passate: ed i testimoni che sopravvivono alle morti, alle truffe, ai falsi scambi epistolari, non possiamo che essere noi.
Riferimenti
-Umberto Eco, Sugli specchi e altri saggi, Bompiani, Milano, 1985.
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