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  • Writer's pictureKoinè Journal

C'è vita dopo la morte?


di Valentina Ricci e Luca Simone.


Se ne va una figura ingombrante, nel bene (poco) e nel male (tanto). In queste ore sui giornali si sono fatti diversi ritratti e molte sintesi di quello che è stato Silvio Berlusconi, ma la sua persona è sempre stata talmente discussa che nulla di nuovo sembra aggiungersi a ciò di cui già si discute da anni. Tutte le analisi però sono accomunate dal loro essere incomplete: davanti all’enormità di quest’uomo è giusto ragionare su chi fu, ma occorre farlo con la consapevolezza che gli siamo stati troppo vicini per vederlo nella sua interezza, e che il nostro coinvolgimento (nei fatti della storia, non a livello emotivo) ci impedirà sempre una completezza di giudizio. Forse le generazioni che non lo conosceranno riusciranno a capire di quali vicende storiche fu figlio Silvio Berlusconi, e soprattutto quali e quanti strascichi ha lasciato dietro di sé. Per fare un esempio del deserto dei Tartari che è rimasto dopo il suo passaggio, soltanto dal punto di vista economico, John Micklethwait di “Bloomberg International” ha affermato alla trasmissione “Otto e Mezzo” che durante il periodo di Berlusconi l’Italia ha avuto lo stesso tasso di crescita dello Zimbabwe.

Sicuramente Berlusconi può dirsi poliedrico: imprenditore, politico, comunicatore, massone, diplomatico, goliardico narratore di barzellette con un talento per l’intrattenimento, amico di tutti (ma proprio di tutti, anche dei mafiosi), convinto che il successo, la ricchezza e la fama potessero fargli ottenere qualsiasi cosa, dalle donne alla protezione contro quei magistrati che accusò di perseguitarlo.


Forse la cifra che lo riassume meglio (pur sempre con i limiti elencati in apertura) è quella dell’imprenditore. Sì, perché da imprenditore lungimirante ha guidato le sue aziende, prima nell’edilizia, poi nelle comunicazioni e nella cultura, poi nello sport e in politica. La lungimiranza che gli ha fatto costruire e vendere interi quartieri alla periferia di Milano fu la medesima che usò per introdurre in Italia un modello televisivo e culturale di consumo (detto tv spazzatura) con le soap opera e i programmi di intrattenimento. E fu la stessa che impiegò nella dialettica politica: lui, un imprenditore miliardario, radunò la classe media italiana (e anche gli operai) e si fece portabandiera dei suoi vizi, sdoganandoli fino a farli diventare delle virtù. Si pensi all’evasione fiscale: tollerata e perdonata (se non dai tribunali, almeno dall’opinione pubblica) fino a far diventare il sistema fiscale nazionale nelle parole dell’attuale premier Giorgia Meloni un “pizzo di Stato” (in barba a tutti quelli che contro il pizzo hanno combattuto e combattono tutt’oggi, grandi e piccoli). Abbassò e banalizzò il discorso politico, denigrò le regole e i costumi, impertinente come un piccolo Bart Simpson, ma con la stazza di un personaggio che poté manipolare le istituzioni. Una volta entrato in Parlamento, mancò la promessa di trasformare l’Italia in un Paese liberale, non abbassò le tasse né riformò la giustizia, preferendo promulgare leggi ad personam per la tutela delle proprie aziende e di sé stesso. La difesa dei suoi affari fu lo scopo perseguito anche nel 2011, quado cedette la guida del Parlamento a Mario Monti su consiglio di Ennio Doris prima e del figlio Luigi poi, che lo chiamarono avvisandolo che se l’Italia fosse fallita le sue aziende l’avrebbero seguita a ruota (fonte: “Corriere della Sera”, edizione cartacea del 13/06/2023).


Si potrebbe dire che nella sua carriera sia riuscito in tutto, anche a riportare i fascisti al governo (come lui stesso si vantò di aver fatto): la regola era quella che non ci sono regole, né, aggiungiamo noi, c’era il rispetto per niente e nessuno (né vivo né morto) se non per sé stesso. Vincere sempre, in qualsiasi circostanza e a qualsiasi costo, in barba a De Coubertin. Ci accomiatiamo da lui prendendo atto del fatto che ha lasciato la vita da vincitore. E ricordandoci che le spese delle sue battaglie le abbiamo subite e le subiremo noi, sia i poveri comunisti, sia i poveri borghesi.


Terminato il cordoglio per il cavaliere dei finti liberali, è ora di passare a dare uno sguardo ai suoi possibili eredi. La cosa che risalta maggiormente è che nessuno degli attuali volti di Forza Italia appare minimamente credibile come sostituto di Berlusconi. Non ce ne vogliano Tajani e la Ronzulli, ma prevedo un disastro in caso di scalata al vertice di uno dei due. Se il primo rischierebbe di farsi fare le scarpe anche da Calenda (e non stiamo scherzando, il rischio c'è), la seconda riesce a creare empatia quanto la Santanché, e di Santanché ne abbiamo già una. Vi prego risparmiateci dalla seconda. Pronto come un falco c'è il caro, vecchio, Renzi. Il Berlusconi che non ce l'ha fatta, il cavaliere senza cavallo. Renzi è l'unico candidato seriamente credibile per traghettare Forza Italia dal pantano in cui si è cacciata in questi ultimi anni. È spregiudicato, arrivista, senza scrupoli ed estremamente competente. Inoltre, a differenza degli altri, non fa politica tanto per farla, tanto che appena ha annusato l'imminente dipartita dell'inquilino di Arcore, qualche mese fa, ha immediatamente rotto con Calenda, che è rimasto con il cerino in mano a predicare in uno spazio politico che non c'è mai stato. Renzi è odiato a sinistra, ma lo sarà anche a destra? Ho i miei dubbi. Non so per quanto ancora i liberali si affideranno alla Meloni e ai suoi tirapiedi, molto presto torneranno (forse) a rivolgersi ad una figura veramente politica. C'è però anche un'altra possibilità, ovvero la lenta disintegrazione di Forza Italia, con il passaggio dei suoi parlamentari a Lega e FI. Troppo bello per essere vero. Non converrebbe a nessuno. La Meloni e Salvini si troverebbero invasi da una serie di moderati in disaccordo con le politiche estremiste da loro portate avanti, e non credo che dalle parti di Arcore, la nuova capobranco del clan (Marina), accetterebbe di vedere un partito che fa ancora comodo, sfasciarsi come neve al sole. Staremo a vedere.


Passiamo però in casa PD, da sempre il lato tragicomico dell'arco parlamentare. Lo scorso weekend si è svolto a Roma il Pride, e tutti gli occhi erano puntati sulla segretaria Schlein, date anche le polemiche suscitate dalla decisione della Regione Lazio di revocare il patrocinio. Passerella che sarebbe stata ottima per farsi vedere, per unire i mondi che le appartengono, i giovani e i vecchi, i militanti e gli elettori, gli attivisti e gli idealisti. Cannata pure questa. I poveri ragazzi della giovanile hanno dovuto cercarla coi cani da tartufo per riuscire a farla avvicinare al loro striscione. Hanno inviato i corpi speciali per prelevarla, e al suo arrivo, dopo una breve foto e una pacca sulla spalla, è sgusciata via verso nuove avventure coi vecchi cacicchi che ora le piacciono tanto. Se lo slogan usato alle primarie è stato "non ci hanno visti arrivare", beh direi che è difficile trovarsi in disaccordo. La pazienza sta finendo, di settimana in settimana ci si aspetta che finalmente succeda qualcosa, e puntualmente non succede niente.


La cosa irritante è che la Schlein gode di un appoggio che tanti suoi predecessori avrebbero soltanto sperato. La morte di Berlusconi le permette ora di tenere in ostaggio tutta la pattuglia renziana che avrebbe potuto da un momento all'altro pugnalarla. Vorrei infatti vedere chi mai si toglierebbe ora la casacca del PD per indossare quella di Forza Italia... Se l'unione Renzi-Calenda avrebbe potuto creare dei problemi, ora la Schlein non deve guardarsi più neppure dalle frange interne (almeno non troppo). Come se questo non bastasse, un intero partito, Articolo Uno, pur di farla contenta, si è sciolto per entrare nel PD a puntellare ancora di più la sua segreteria. Ma io a questo punto mi chiedo: cosa altro mai potrebbe volere di più? Le carte, ora, sono veramente tutte in tavola. O si muove, o addio.


Non l'abbiamo vista arrivare? No, non l'abbiamo vista proprio.









Image Copyright: Bloomberg

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