di Tommaso Di Ruzza.
Di qualità, nel primo dibattito presidenziale ufficiale tra i due contendenti per l’ufficio ovale, se ne è vista ben poca. Ad essere d’accordo su questa posizione ci sono non soltanto i media statunitensi, ma anche e soprattutto quelli del resto del mondo, tra cui anche quelli nostrani.
I due sfidanti, ovvero il presidente in carica Joseph Biden e l’ex presidente ed imprenditore newyorkese Donald Trump, hanno dato vita ad uno spettacolo non esattamente degno del paese più potente del pianeta. Anche se uno di loro due, addirittura per propria ammissione negli appuntamenti elettorali successivi allo stesso dibattito, ha dato vita ad una performance davvero disastrosa. Joe Biden infatti, che nel corso del dibattito ha racchiuso in due sole ore il grado di disorientamento che ha mostrato in tre anni e mezzo di presidenza, è risultato infatti molteplici volte in difficoltà ad articolare il discorso, a trovare i termini adatti con i quali esprimersi e a tenere il filo della discussione. Tutto questo è risultato talmente ovvio, che il suo avversario, il tycoon Donald Trump, ha preso la palla al balzo più di una volta, prendendosi la libertà di segnalare al pubblico il totale disorientamento psicofisico del proprio avversario.
Al centro della discussione i tipici temi tipici del dibattito politico americano ormai da anni, ovvero la legge sull’aborto Roe vs Wade, l’immigrazione e la frontiera messicana, l’economia ed il lavoro e la politica estera, con un ovvio riferimento al conflitto in Ucraina ed a quello israelo-palestinese. I sondaggi sui risultati del dibattito presidenziale inoltre parlano chiaro. Nonostante l’ex presidente abbia infatti stabilito un record negativo con riferimento alle affermazioni veritiere da lui pronunciate, il 67 per cento dell’audience statunitense, secondo i sondaggi successivi alla diretta tv del dibattito presidenziale, ritiene che Trump abbia dato prova di forza vincendo il dibattito contro il presidente Biden, che si ferma ad un deludente 33 per cento di consenso. Tutto questo nonostante il tasso di dati ed informazioni errate date da Trump sia stato altissimo, pari addirittura a una falsità ogni 3 minuti secondo il rilevamento della CNN. Ma nonostante la performance del tycoon, il centro della questione post dibattito, si è tutta concentrata sul totale fiasco mediatico messo in atto dal presidente Joe Biden.
Ancora più in caduta libera nei sondaggi infatti, il presidente americano in carica si trova ad oggi non soltanto a dover inseguire l’avversario in tutti e 7 gli Swing States americani, nei quali si trova indietro da un minimo di due punti ad un massimo di sette punti percentuali, ma anche a risultare in ribasso nei sondaggi nazionali aggregati, nei quali viene dato 4 punti più in basso rispetto al candidato ed ex presidente repubblicano. Ma oltre ai sondaggi, già negativi antecedentemente al dibattito presidenziale, per Joe biden la faccenda si fa ancora pià dura adesso. Non soltanto per i consensi al minimo storico, ma anche per gli effetti che la scadente performance nel dibattito inizia ad avere in ambito meramente politico.
Molti esponenti democratici infatti, anche di non poco peso nell’arena partitica, hanno infatti iniziato a chiedere una sostituzione del candidato presidenziale. Dal punto di vista legale tuttavia, questo sarebbe possibile, giunti a questo punto, soltanto con un passo indietro del diretto interessato, che però al momento non sembrerebbe essere all’orizzonte, secondo l’entourage di Biden, oltre che secondo il presidente stesso, che ha ribadito di voler rimanere in corsa.
Eppure le voci critiche si fanno sempre più rumorose, sia all’interno dell’ambiente politico democratico sia di quello degli elettori e dell’informazione in generale. Lo stesso New York Times infatti, avrebbe chiesto ufficialmente al presidente Biden di farsi da parte, nell’ambito di una dinamica dall’unicità indiscussa per gli Stati Uniti, essendosi verificata soltanto due volte nel passato, nel 1913 e nel 1972.
E già sarebbe partito il toto nomi dei possibili papabili per la nomina a candidato presidenziale del partito democratico, che vedrebbe nomi come quello di Kamala Harris, attuale vice presidente degli Stati Uniti, quello di Gavin Newsom, governatore dello stato della California e addirittura quello di Michelle Obama, ex first lady ancora molto amata dal popolo.
In realtà, data la debolezza attuale di Joe Biden è stato anche lo stesso Trump a dichiarare che non ci dovrebbe essere nessun cambio di guardia tra i democratici, dichiarazioni queste che sono senza dubbio figlie di una consapevolezza di avere tra le mani un certo vantaggio, dato principalmente dalla caduta libera del suo contendente.
Bisogna poi tenere conto di quelli che sono gli equilibri europei, storicamente condizionati dagli avvenimenti politici d’oltreoceano. Soprattutto se gli ultimi 4 mesi caldi delle elezioni presidenziali americane coincidono con i giorni di trattative ed accordi per le nomine di vertice dell’Unione Europea. Non è un mistero che la quasi rieletta a capo della commissione europea Ursula Von Der Leyen, sia molto più vicina a Biden che a Donald Trump politicamente.
Ma in realtà si sa, le elezioni americane sono un po' come il calcio. Tutto può succedere, e la storia ce lo insegna. Basti ritornare al 2016, tornata elettorale in cui la vittoria di Hillary Clinton era data per scontata fin dall’inizio, e lo è stata fino a pochi giorni prima delle elezioni, al termine delle quali la sorpresa della vittoria del magnate newyorkese grazie alla maggioranza ottenuta tra i grandi elettori fece il giro del mondo. Le elezioni presidenziali americane sono anche florido terreno di sperimentazione comunicativo-sociologica da sempre potremmo dire. Si pensi agli anni 90, precisamente alle elezioni del 1996, in cui per la prima volta apparvero i siti internet nel contesto politico. I siti in questione, mere vetrine illustrative del programma politico del candidato, sarebbero state negli anni successivi ampliati e arricchiti, arrivando poi nel 2008 a diventare il centro della comunicazione del candidato presidenziale. La svolta rappresentata dalla campagna del 2008 di Barack Obama infatti ci porta ai giorni nostri. Ci porta a Cambridge Analytica del 2016, vicenda al centro della quale ci furono i vertici stessi della campagna di Donald Trump, per passare alle misteriose e-mail di Hillary Clinton.
Insomma, di tutto quello che è accaduto negli ultimi giorni nella grande e selvaggia America, le certezze stentano ad affermarsi, anche se alcuni segnali dal futuro iniziano a farsi giorno dopo giorno sempre più chiari. In primis la debolezza di Joe Biden in una campagna che non sembrerebbe più essere alla portata di un uomo senza dubbio anziano e molto provato, come visto ad esempio in occasione del G7, dai suoi impegni istituzionali. Un uomo che nonostante la sua lunghissima carriera politica, ormai da un numero sempre maggiore di persone, viene dato per tramontato, anche tra i suoi democratici. E poi un Donald Trump che invece, sempre più in testa nei sondaggi, corre incontro ad una vittoria sempre più certa, tra slogan populisti e inesattezze alla texana rivolte chiaramente alla pancia dell’America più profonda di cui sa bene di avere la stima ed il sostegno. Un tycoon che però appare ugualmente provato dalla miriade di processi e di condanne che gli sono piovuti addosso nei mesi recenti, e un ex presidente che soprattutto, proprio nel corso del dibattito della scorsa sera, non ha nascosto di aver fatto un pensierino al ritiro, essendo anche lui non esattamente vigoroso come un ventenne, anche se ogni giorno decanta la sua perfetta forma fisica in opposizione a quella di Biden.
Chissà che non ci siano anche stavolta colpi di scena, chissà che questa matta e sempre meno in testa alla lista delle superpotenze mondiali America, non ci insegni che a volte anche i pronostici più sicuri e certi siano in realtà anch’essi in grado di sbagliarsi di grosso.
Lo sapremo il 5 Novembre.
Image Copyright: AP Photo/Patrick Semansky
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