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Writer's pictureKoinè Journal

Challengers (2024)


di Stefania Chiappetta.


Non possiamo parlare di Challengers, il nuovo film di Luca Guadagnino (ora in sala, dopo lo sciopero che aveva interessato gli attori e sceneggiatori dell’industria cinematografica), senza prima sottolinearne il suo stile autoriale. Sceneggiato da Justin Kuritzkes, il film si inserisce nella filmografia di Guadagnino come produzione dal carattere internazionale (senza dimenticarne l’italianità), che non impedisce ai temi cardine del regista di spiccare in forme narrative pronte all’uso visivo. Desiderio e manipolazione, erotismo e dominio, nell’autorialità del regista emergono all’interno delle relazioni che i personaggi instaurano, legandosi però al linguaggio teorico del cinema. Ne consegue che tutto all’interno del film diventa sguardo, uno sguardo che filma e consegna il realismo circostante ai movimenti della macchina da presa, rendendo lo spazio scenico in primis spazio filmico, piegandolo così al volere stesso della macchina-cinema.


In Challengers, il campo da tennis diventa un campo di forze segnato dal corpo di tre diversi personaggi. Tashi (Zendaya), la giovane promessa del tennis femminile, ed il duo composto da Art (Mike Faist) e Patrick (Josh O’Connor): sfidanti, ma prima di tutto amici, entrambi innamorati della ragazza. In questa triade del rapporto amoroso, il virtuosismo del linguaggio cinematografico è libero di giocare, interrompersi e ripartire, proprio attraverso i momenti nevralgici di un challenger, un torneo maschile per tennisti di seconda fascia. Essa, disputata dai due co-protagonisti maschili, aprirà e chiuderà gli eventi del film, decostruendo (o aumentando?) il grado di partecipazione spettatoriale con il sovrapporsi delle linee temporali. Una pluritemporalità che, mescolando passato e presente, mostrerà l’evolversi del rapporto intimo tra i personaggi, creando un desiderio evanescente di possessione, votato al colpirsi, al divorarsi, senza fuoriuscire dai confini agonistici del tennis. 


La volontà registica è infatti quella di attaccare, con un ritmo sempre più ironico e teso, lo sguardo sul film con l’utilizzo assiduo di scavalcamenti di campo, panoramiche a schiaffo e soggettive inorganiche, il cui punto di vista è legato agli oggetti che permettono lo sport: racchetta, pallina da tennis, rete che divide il campo. Lasciando che gli stessi oggetti, animati solo dall’utilizzo sportivo nel film, pesino nelle dinamiche tra i personaggi per arrivare a sostituirsi al loro corpo. D’altronde, come Patrick non mancherà di sottolineare ad Art in una sequenza del film, “parliamo sempre di tennis”, anche quando ci sembrerà colpevolmente il contrario: da ciò lo spettatore non può fuggire.


La cifra stilistica di Luca Guadagnino in Challengers permette ad ogni cosa di trasformarsi in estetica cinematografica, creando un’armonia visiva nella messa in scena in cui far emergere montaggio, colonna sonora, eventi narrativi. Lo stesso abbigliamento dei personaggi favorisce, nel film, una brandizzazione interna che sfocia nel product placement (l’inserimento di marchi commerciali) più visibile. I brand che segnano i completi sportivi, diventano sponsor pubblicitari per le giovani stelle del tennis, usate però come elemento integrante della storia, che dice molto sul senso del glamour nel cinema di Guadagnino. Quando i tre personaggi si conosceranno per la prima volta, negli spazi di una festa, un fotogramma in dettaglio mostrerà Tashi prestare il proprio volto per una campagna pubblicitaria dell’Adidas. Si sottolinea così il senso del divismo che si crea attorno alcuni corpi, affidato non a caso al personaggio di Zendaya, che per Challengers non solo è la star internazionale del cast, ma è anche produttrice del film.


L’attenzione al mondo tennistico, in cui le vicende dei tre personaggi si intrecciano fino alle estreme conseguenze, restituisce da un lato la dimensione realistica dello sport - accresciuta dalle movenze attoriali - ma lo innalza in contemporanea ad elemento scenografico, in cui si compie il gioco del “triangolo amoroso”. Proprio con l’utilizzo del linguaggio tennistico di cui si mostrano tempi e traiettorie, si arriva - grazie al forte dialogo tra regia e sceneggiatura – ad uno stile ibrido portatore di una dimensione simbolica\astratta in cui tutto diventa possibile.

 

È in questa graduale perdita legata alla concretezza circostante, che Guadagnino sceglie di rendere vivi i suoi protagonisti, in una commistione quanto mai singolare, originalissima, tra film sportivo, melodramma privato ed utilizzo disteso dei codici della commedia. La dimensione del gioco, sia sportivo che cinematografico, permette al film di accrescere i confini del movimento registico, per lasciare libero spazio di espressione - e interpretazione - agli eventi in sceneggiatura. Ne consegue che ogni elemento narrativo, ogni azione dei tre personaggi, sfoci in una forte visione ludica, erotica, sessualizzata.


Il polo di attrazione è incarnato, soprattutto per Patrick ed Art, nel corpo forte, elegante, dominante di Tashi. Sarà lei a voler guidare, in nome di un controllo che nel film la trasformerà in allenatrice, moglie e madre, i due ragazzi alla scoperta del vero significato dello sport: “il tennis è una relazione”, e come tale non può prescindere da dinamiche di potere e controllo. Simbolicamente, come sottolinea una delle scene centrali del film (l’unica che mostrerà i tre personaggi insieme in atteggiamenti intimi), Tashi non è che la rete nel campo (il set, sia cinematografico che tennistico) di forze a tre che regge il rapporto dei personaggi.

 

Una rete che interrompe e oppone, divide e frammenta, e che restituirà alla relazione tra i co-protagonisti, un sentimento omoerotico indissolubilmente affidato al mondo del tennis, in contrasto però alla relazione etero che entrambi vorrebbero con Tashi. Una relazione che, tendendo apparentemente verso un forte female gaze (sguardo femminile) in grado di stagliarsi nell’ambiente tennistico velatamente maschiocentrico, non fa che svelare un queer gaze che impregna ogni elemento scenico. Esso verrà restituito pertanto in ogni goccia di sudore, nei cibi addentati con mordacia, nei completi sportivi o le t-shirt scambiate, fino a diventare un presagio tempestoso in grado di influire sul clima meteorologico.


Guadagnino, riprendendo a piene mani gli elementi del suo approccio al genere horror (il suo Suspiria ne è esempio lampante), il giorno prima del torneo challenger filmerà i suoi personaggi nel mezzo di una forte tempesta di vento, creando una sospensione surreale in una cittadina esistente: New Rochelle. Il vento inteso come presagio che condurrà all’epilogo del film, permette ai tre personaggi di svelare (ma non dominare) le carte del gioco condotto, contribuendo ad accrescere quel senso di astrazione cinematografica già citato. La conseguenza sarà un messaggio (tutto da scoprire) che, affidato agli eventi in sceneggiatura, finirà attraverso il match finale del torneo challenger per essere esplicitato esclusivamente dalle immagini, affidando al cinema stesso il futuro (di cui non saremo partecipi) della relazione triadica, nonché del gioco sportivo che la racchiude.

 

 



Riferimenti

-Roy Menarini, Challengers e il cinema secondo Guadagnino, Roy Menarini Universe, 2024

-Luca Malavasi, Challengers, Cineforum critica e cultura cinematografica, 2024

-Lorenzo Meloni, Challengers speciale II – Epicureo, Vitalistico, Estatico, Cinefilia ritrovata, 2024 https://www.cinefiliaritrovata.it/speciale-challengers-ii-epicureo-vitalistico-estatico/




Image Copyright: The Globalist

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