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Queer (2024)

  • Writer: Koinè Journal
    Koinè Journal
  • May 1
  • 3 min read


di Stefania Chiappetta.


Durante la seconda metà dell'Ottocento, la parola ectoplasma indicava una particolare sostanza che sembrava fuoriuscisse dagli orifizi dei medium durante gli stati di trance. Considerata oggi una truffa per i più creduloni, ciò che lo avvicina alla teoria cinematografica è la sua funzione. In breve, l'ectoplasma altro non era che la materializzazione dei fantasmi: dava vita all'invisibile, all'informe, utilizzando il corpo umano come strumento. È ciò che il cinema fa con il corpo degli attori. Da carne e ossa diventano su schermo immateriali, frammentati, incorporei. Personaggi animati da pulsioni astratte che si cerca di rendere visibili.


Questo inusuale punto di partenza descrivere bene l'essenza teorica del nuovo film di Luca Guadagnino, Queer. Arrivato nelle sale italiane dopo una serie di ritardi distributivi, nonché ad un anno di distanza dal precedente Challengers (2024), il film è una ricerca incessante, irraggiungibile dell'amore. O meglio della forma ectoplasmatica dell'amore, in cui il desiderio è una mancanza incolmabile e i corpi, posseduti da insaziabili appetiti, sono pronti a cibarsi dell'altro dall'interno. Un po' come i fantasmi sopracitati facevano con i medium.


 Lo chiarisce bene il protagonista William Lee (Daniel Craig): "io non sono queer, sono disincarnato", ripeterà in diversi momenti del film. Un mantra che non solo è sintomo dello stigma di una società che rifiuta l'omosessualità, ma della condizione psicologica dell'uomo. Sottraendo a sé stesso la forza del desiderio corporale, nega l'accesso alla sua reale identità per condannarsi ad uno stato perenne di ricerca ed erranza. Ad inizio film lo vediamo vagare per le strade assolate di Città del Messico, in locali desolati, circondato da uomini sempre diversi che non possono alleviare la sua solitudine. Questo fino all'incontro con Gene Allerton (Drew Starkey), più giovane di lui, difficilmente avvicinabile, distaccato.


Seppur impegnato nella negazione di ciò che vuole, Allerton incarna per il protagonista l'oggetto del desiderio. Corpo vivo, che potrebbe colmare la mancanza sociale e identitaria di Lee. L'uomo d'altro canto è un americano espatriato, un'ombra ai margini della collettività. In questo Luca Guadagnino, autore interessato a rappresentare nella sua filmografia il cinema come linguaggio visivo, rende concreto il sentimento intangibile del desiderio, legandolo ai corpi dei due personaggi. L'incontro sessuale è la chiave per raccontarlo ma la vicinanza fisica che i due instaurano, non fa che alimentare una separazione che sopraggiunge proprio con l'erotismo.


La smania di corpi che si desiderano non è vicinanza, ci suggerisce Guadagnino, si esaurisce anzi come le immagini sullo schermo. Una scena in particolare, che ha richiesto in post-produzione un grande impegno, dimostra il modo in cui la forma del desiderio di Lee sia legata allo stato dei corpi nelle immagini cinematografiche. Durante la visione in sala del film di Jean Cocteau L'Orfeo (1950), Lee sente un trasporto così ancestrale per Allerton da volerlo toccare. Quindi la sua figura si sdoppia fino a produrre una sua estensione trasparente, non reale, che abbraccia l'altro senza farlo davvero. Un ectoplasma che, originandosi dalla trance cinematografica, dimostra quel bisogno di contatto fisico, di sentimento tattile che abita anche negli ologrammi dei corpi digitali.


 In realtà l'intero ambiente scenografico, ricreato negli spazi di Cinecittà ed arricchito dalla costruzione di modellini, è sinonimo della condizione alienata del protagonista. Lee è un personaggio caratterizzato da uno stato di torpore, di astrattismo psicologico. Dipendente dall'alcol e dall'eroina, la sua provenienza è di matrice letteraria e per questo mantiene evidente una dualità: sgradevole e sporco quanto ingenuo e bisognoso. Anche la scelta di un attore come Daniel Craig non è casuale: staccandosi dal suo ruolo più iconico - quello di James Bond - incarna un'idea diversa di mascolinità, sempre pronta a nascondersi, difficile da inquadrare.


A differenza dall'universo matriarcale presente nel suo Suspiria (2019), in Queer Luca Guadagnino crea un mondo predominato dall'onnipresenza maschile, in cui la donna è una figura fantasma, enigmatica, sfuggente. Nel farlo lo spazio diegetico risulta illusorio, sorretto da sequenze oniriche che rimandano al fulcro del film. Queer è infatti tratto dall'omonimo romanzo di William S. Burroughs, un racconto semi-autobiografico che ha subito tagli, censure, modifiche, sino ad arrivare alla sua forma attuale. La sceneggiatura di Justin Kuritzkes, divisa in tre capitoli più una conclusione, si fa carico di adattare l'universo narrativo per amalgamarlo al linguaggio cinematografico, rendendo la scrittura fisica, concreta.


Queer, come suggerisce il titolo, è il risultato di un cinema denso, attraversato da descrizioni visive di sentimenti febbrili, viscerali, sporchi. L'amore diventa una ricerca dolorosa, una compenetrazione di pelle, sudore, droga e umori corporali. La narrazione classica del romanticismo si sottrae dal film per abbracciare invece il sentimento puro del termine queer. Questo, slegato dalle sue declinazioni contemporanee, diventa un tratto identitario, una maniera istintiva di abitare il mondo, incurante di un'appartenenza normativa alla struttura sociale. Querness appunto, in cui il corpo è l'unico potere che resta all'essere umano.



Image copyright: Sentieri selvaggi.

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