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Parole che dettano la Storia: il potere del traduttore

  • Writer: Koinè Journal
    Koinè Journal
  • Nov 4
  • 6 min read
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di Anna Gatti.


La sera del 9 novembre 1989, la Guerra Fredda si concluse non con un trattato, ma con un banale errore linguistico.


Al centro della scena c’era Günter Schabowski, un membro del Politbüro, l’organo decisionale supremo del Partito di Unità Socialista (SED). La Repubblica Democratica Tedesca (DDR), in quel momento si trovava sotto una pressione senza precedenti: da est proveniva il vento del cambiamento e dell’apertura: la glasnost e la perestrojka di Gorbačëv stavano spingendo i regimi comunisti satellite, come quello della DDR, a concedere maggiori libertà.

Alle 18:00, presso l’edificio che ospitava il centro stampa del Governo, fu convocata una conferenza stampa per annunciare le nuove normative sui viaggi all’estero. Schabowski fu incaricato di leggere il comunicato ai giornalisti, nonostante non avesse partecipato all’intera riunione decisionale e non conosceva i dettagli operativi, né il momento esatto di entrata in vigore della nuova legge.


Una volta finito il suo discorso, il giornalista italiano Riccardo Ehrman (ANSA), pose proprio la domanda più scomoda in quel momento: quando tali norme sarebbero entrate in vigore. Schabowski cominciò a rovistare tra i fogli che i colleghi gli avevano dato, probabilmente fingendo di cercare una risposta che sapeva non essere presente. Dunque rispose, in diretta mondiale e con visibile incertezza:


"Per quanto ne so... da subito, immediatamente (sofort, unverzüglich)."


Quella risposta improvvisata, che doveva riferirsi ad un decreto che prevedeva ancora lunghe procedure burocratiche, fu invece interpretata dalla stampa internazionale (e soprattutto dalla folla che assisteva in tv) come l’apertura fisica immediata di tutti i confini. In poche ore, migliaia di berlinesi si riversarono ai valichi, costringendo le guardie di frontiera, prese alla sprovvista, a cedere il passaggio. Da lì sono scaturite le commoventi immagini che ognuno di noi ha ben note: abbracci, feste e picconate contro quel muro che inquinava il paesaggio da quasi trent’anni. Era visibile la gioia popolare e dilagante per la fine di un’epoca di oppressione ed isolamento, segnata dalla censura e dai controlli della Stasi. Le vigorose riforme che probabilmente i politici della SED avevano faticosamente formulato per una transizione più graduale, si rivelarono nulle rispetto alla forza irrompente di un errore di comunicazione istantaneo. Questo episodio non è solo un aneddoto storico; è la prova lampante che la precisione linguistica è un fatto politico e culturale, capace di alterare irrimediabilmente il corso della storia.

 

L'errore semantico che accelerò la bomba atomica

Se l’errore di Schabowski fu un inciampo del parlante, nel panorama diplomatico le comunicazioni sono spesso generate da un’ulteriore figura, che si trova in bilico tra lingue e potere: l’interprete.

Anna Aslanyan, nel suo saggio I funamboli della parola. Le traduzioni che hanno cambiato la storia (Bollati Boringhieri, 2021), si concentra proprio su questo “esercito invisibile” che, lavorando nell’ombra, può alterare il corso della storia.

La comunicazione tra il Giappone e gli Alleati alla fine della Seconda Guerra Mondiale offre un esempio drammatico e storicamente rilevante di quanto possa essere sottile il confine tra parola e distruzione. Nel luglio 1945, il Primo Ministro giapponese Kantarō Suzuki rispose all’ultimatum di resa degli Alleati con il termine Mokusatsu: un termine ambiguo, intraducibile in inglese. Suzuki disse in seguito che ciò che intendeva esprimere era un “no comment” o “sospendere il giudizio”. Fu però tradotto dalle agenzie americane come “trattare con silenzioso disprezzo” o “ignorare”. Così, il 30 luglio il New York Times intitolò in prima pagina: “Il Giappone respinge ufficialmente l’ultimatum di resa degli Alleati”. Quella traduzione consolidò, nell’opinione pubblica e nei vertici militari statunitensi, l’idea che Tokyo non intendesse arrendersi. Sebbene la decisione di impiegare l’arma atomica fosse già in fase avanzata, l’equivoco linguistico contribuì ad accelerare la percezione dell’inevitabilità di quell’atto: un errore semantico trasformato in destino geopolitico.

 

Eufemismi di Stato: come la traduzione plasma l’immagine del leader 

Negli incontri internazionali, l’interprete si trova spesso davanti a svariati dilemmi quando deve mediare umorismo, sarcasmo o volgarità. Il linguaggio informale dilaga spesso anche in situazioni ufficiali, dove mantenere un certo registro dovrebbe essere quantomeno un riflesso automatico.

Il funambolo viene spesso chiamato, ad esempio, a gestire l’umorismo disinvolto di politici come il compianto Silvio Berlusconi e le intemperanze verbali di Donald Trump.

La passione del Cavaliere per l’umorismo e per le barzellette è ben nota. Durante i vertici internazionali, il suo interprete si è frequentemente trovato a gestire sue uscite, trovandosi davanti a dilemmi etici e professionali. Spesso, la strategia adottata è stata l’eufemismo e l’omissione, addolcendo la volgarità o il contenuto scabroso per comunicare solo l’intenzione (allentare la tensione), salvando così l’immagine del paese e la fluidità del protocollo diplomatico.


Si pensi ad un episodio del 2003 in cui, al Parlamento Europeo, Berlusconi rivolse al deputato tedesco Martin Schulz le seguenti parole: “Signor Schultz, so che in Italia c’è un produttore che sta montando un film sui campi di concentramento nazisti. La suggerirò per il ruolo di capò: lei è perfetto.”. Dopo essere stato redarguito da Pat Cox (l’allora presidente del Parlamento Europeo) Berlusconi rispose sottolineando l’ironia della sua affermazione, viaggiando sul doppio filo comunicativo che tanto lo caratterizzava.  L’uso di “capò” – un termine gergale italiano per “capo” o “boss” – evoca in Italia un’accezione leggera, ma in Germania e in altri contesti internazionali rimanda immediatamente alla figura del Kapo (il sorvegliante prigioniero-collaboratore nei campi di concentramento nazisti). Naturalmente Berlusconi ne era pienamente consapevole e proprio su questa ambiguità costruì il suo registro comunicativo, oscillando tra scherzo e provocazione. 


Un altro esempio è certamente rappresentato da Donald Trump, le cui intemperanze verbali hanno costantemente messo alla prova i limiti del protocollo e della traduzione. L’esempio più noto è l’uso, nel 2018, dell’espressione shithole countries in riferimento ad alcune nazioni africane e ad Haiti. L’interprete si è trovato di fronte ad un bivio: scegliere se addolcire il termine (dicendo, ad esempio, “paesi poveri” o “paesi sfortunati”) o riportare l’insulto in tutta la sua crudezza. Ebbene, in quasi tutto il mondo, gli interpreti si presero la briga di mitigare il messaggio. La versione più gentile, a Taiwan, recitava: “nazioni dove gli uccelli non depongono le uova”; mentre in Giappone divenne: “nazioni sporche come gabinetti”; in Germania “nazioni-discarica”. Preciso, però, che si trattò di scelte editoriali e giornalistiche, non (solo) di interventi in sede di negoziato. Anche sul piano mediatico, dunque, il margine di manovra resta evidente: chi traduce decide l’immagine del parlante da consegnare al grande pubblico.

 

Il dilemma etico dell'interprete diplomatico

L’interprete si trova dunque di fronte ad una scelta: prevenire collisioni diplomatiche potenzialmente devastanti oppure restare fedele alla parola detta e mantenere il messaggio tale e quale? Gli interpreti più puristi potrebbero argomentare che l’eufemismo e l’omissione costituiscono un tradimento dell’originale e una violazione del principio di fedeltà all’oratore. Il ruolo richiede una certa trasparenza etica, attraverso la quale l’interprete rappresenta uno specchio fedele e non un filtro di cortesia. Dunque per un purista, addolcire pur lievemente il linguaggio berlusconiano o trumpiano non sarebbe solo una scelta linguistica, ma un atto di censura e di manipolazione della realtà politica. 


Tuttavia, il conflitto tra fedeltà alla parola e fedeltà allo scopo comunicativo è antico nella traduttologia. L’approccio funzionalista, incarnato nella teoria dello Skopos di Hans Vermeer, sostiene che la traduzione dovrebbe essere determinata dallo scopo dell’atto comunicativo. Secondo questo principio, l'interprete non è fedele alla parola in sé, bensì al senso ultimo e all’obiettivo della comunicazione. In un contesto come un vertice internazionale, se l’interpretazione letterale rischia di far deragliare l’intero negoziato o innescare una crisi diplomatica, l’interprete avrebbe il dovere etico e professionale di privilegiare il bene superiore del negoziato. Un esempio storico sono i famigerati confronti tra il presidente USA Richard Nixon e il leader sovietico Nikita Krusciov: gli interpreti dovevano costantemente smussare le minacce e i toni provocatori per impedire che l’aggressività retorica si traducesse in un’escalation politica.


Nella prassi diplomatica, è quasi sempre questa fedeltà funzionale a prevalere, rendendo l'interprete un vero e proprio strumento di politica estera. Anche Umberto Eco, pur profondamente sensibile al valore della precisione, riconosce la complessità pratica di queste scelte: tradurre, scrive in Dire quasi la stessa cosa, è sempre anche interpretare. Va sottolineato, infatti, che tradurre o interpretare è sempre e comunque un tradimento all’originale: un tradimento necessario, potremmo dire. Ogni parola, nel passaggio da una lingua all’altra, perde qualcosa e guadagna qualcos’altro: una sfumatura, un tono, una connotazione culturale. E proprio in quel margine sottile si gioca la responsabilità dell’interprete.

 

Dunque, chi sono i veri politici? Chi prende le vere decisioni istituzionali che possono determinare dei cambiamenti nelle vite dei cittadini? Coloro che sono stati democraticamente eletti per farlo, o gli interpreti che siedono al loro fianco gestendo di fatto la comunicazione?

La storia dimostra che ogni parola pronunciata in pubblico è un’arma a doppio taglio: può costruire ponti o farli saltare. L’interprete, in questo scenario, è l’architetto di quel ponte, è colui che decide se un messaggio attraverserà il confine linguistico come un gesto di pace o come una dichiarazione di guerra.


Quando il linguaggio diventa diplomazia, e la diplomazia si riduce a linguaggio, diventa chiaro che la storia non è mai scritta solo dai vincitori, ma anche da chi, in silenzio, ha scelto come tradurli.

 

 


 

Bibliografia

-Aslanyan, Anna, I funamboli della parola. Le traduzioni che hanno cambiato la storia, Bollati Boringhieri, Torino 2021.

Sitografia

-Conferenza stampa del 9. 11. 1989, https://www.youtube.com/watch?v=E60H_aNVZ0k, minuto 1:02:30.





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