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  • Writer's pictureKoinè Journal

Close (2022)


di Stefania Chiappetta.


Il mese di giugno non rappresenta solo la sentinella dell’estate, o l’inizio delle rassegne cinematografiche all’aperto. Ancora più importante, catartico, essenziale è la celebrazione del Pride Month: dedicato alla parità dei diritti di genere, alla trasparenza dei corpi, all’orgoglio di rivendicazione. Nelle rappresentazioni mediali l’impegno nel raccontare storie umane, universali, a lungo dimenticate dal potere transitorio delle produzioni, diventa sempre più urgente. Necessario. La possibilità di avere finalmente una rappresentazione di sé stessi, uno specchio in cui potersi riflettere, non deve più mancare.


È compito che il giovane regista Belga, Lukas Dhont, sembra essersi prefissato con la sua filmografia, utilizzando il mezzo cinematografico per riprodurre l’universalità di cui parlavamo. Inizia nel 2018 con il suo film d’esordio, Girl, dove mette in scena la difficoltà di una giovane ballerina trans, Lara, nella sua quotidianità. Un racconto di formazione, si potrebbe definirlo, in cui soprattutto l’adolescenza e la pressione sociale che accompagna quell’età, diventano una importante valvola di sfogo artistica.


Ed è proprio l’età di passaggio tra infanzia e adolescenza, con i riti transitori e liminari che vi si accompagnano, ad essere approfondita nel suo secondo film, Close. Uscito nelle sale italiane nel 2022, dopo essere stato presentato in concorso al festival di Cannes, viene selezionato nella categoria miglior film internazionale agli Oscar 2023.

La sequenza d’apertura del film coglie la corsa libera, felice, di due ragazzini in un campo di fiori. Sono Léo e Rémi, due 13enni amici d’infanzia, che vivono in una piccola cittadina Belga. Ciò su cui il film indugia maggiormente, come appare chiaro, è proprio la vicinanza affettiva dei due corpi maschili. Giocano insieme, si stendono sull’erba accogliendo i tramonti di fine estate, dormono a casa di Rémi stringendosi nello stesso letto. La regia restituisce un senso di pedante appartenenza, con carrelli laterali per restituire la fluidità dei movimenti infantili, non lasciando alcuna barriera tra la realtà e la finzione. Eppure, tutto ciò avviene con la delicatezza di un tocco.


Infatti, gli stessi personaggi che orbitano intorno alla vita dei due ragazzini, vengono presentati nella cornice ordinaria che ospita le loro vite. La famiglia di Léo, madre, padre e fratello maggiore, si occupa della raccolta dei fiori per la fine della stagione estiva. La naturalezza con cui parlano ai due protagonisti, mentre continuano le loro azioni, viene amplificata dall’utilizzo della macchina a mano. Anche con la famiglia di Rémi viene utilizzato lo stesso espediente, a dimostrazione del fatto che ciò a cui si assiste è naturale, consueto. Vicino. Lukas Dhont permette all’audience di ritagliarsi un quadretto nella felicità di due famiglie, senza forzature o stereotipi vari.


Eppure, nonostante la spensieratezza dei primi minuti, la durezza della socialità circostante comincia a premere sul tessuto delle immagini, permettendo alla sceneggiatura di aprirsi al dramma. Léo e Rémi devono abbandonare la spensieratezza estiva per iniziare la scuola. La situazione liminare che il regista vuole trasmettere viene fuori, portando i due ragazzini ad iniziare il liceo. Non gli si chiede solo di ricominciare con il peso dello studio, ma di conoscere un nuovo ambiente, nuovi professori, nuovi amici. E, complice l’architettura sociale circostante, rispondere a delle nuove norme affinché si riesca ad etichettare anche quello che non richiede una spiegazione.


Come lo stesso regista ha chiarito in diverse interviste, la storia di Léo e Rémi non è necessariamente amorosa, ma è senza alcun dubbio una naturale esperienza umana. La quale, con la stessa naturalezza con cui giocavano a nascondino nella prima scena del film, viene repressa dall’istituzione: la scuola.

La loro eccessiva vicinanza viene notata dagli altri ragazzini, così come i continui tocchi e scherzi innocenti. Ed è così che, sotto la lente di occhi inquisitori, la carica sessuale inesistente, viene inserita nell’iconografia. Durante la ricreazione, alcuni compagni chiedono ai due se hanno una relazione, perché i loro comportamenti non sono quelli di semplici amici. Alla loro risposta negativa, viene insinuato che probabilmente non lo sanno ancora, che sono inconsapevoli dei loro sentimenti. L’infanzia viene spezzata, recisa brutalmente dalla logica della comunicazione tra simili, incrinando irrimediabilmente il rapporto presentato. Léo comincia ad allontanarsi da Rémi, rifiutando la loro amicizia e spronandolo a crescere, senza dipendere da lui.


Appare chiaro che all’influenzabile carattere del biondo Léo, impegnato ad omologarsi ad una norma inesistente, il bruno Rémi oppone una insicurezza che si trasforma in fragilità emotiva. Ha bisogno della vicinanza del suo amico per non andare in pezzi, per difendere la sua essenza dalla durezza circostante. Ma Lukas Dhont, che per la preparazione del film ha raccolto diverse testimonianze di ragazzini di quell’età, il cambiamento che ne consegue è irreversibile, brutale. Doloroso.

Allora il film comincia a lavorare di sottrazione, mostrando la distanza della nuova vita di Léo ed il lento sgretolarsi di Rémi, fino all’estremismo raggelante degli eventi. Sostituendo gradualmente i tocchi delicati iniziali, con gesti e parole di distanza che suddividono i tre atti della sceneggiatura.


Nel film tutto funziona senza una sbavatura, mettendo in scena una diversa gamma di emozioni umane che diventano parte essenziale dell’esperienza del film. Ogni cosa risulta convincente, ingiusta: l’ambiente scolastico, il dominio del mondo adulto, l’imposizione di una identità che si esaurisce nel cambio di una stagione. Come il titolo stesso suggerisce, assistiamo inermi da vicino ad una chiusura vitale, che si trasforma in una frattura adolescenziale che segnerà una intera vita. Il tutto senza perdere mai di vista il corpo mingherlino dei protagonisti che, alla loro prima grande prova attoriale, dimostrano un carisma magnetico dal quale sembra impossibile staccare gli occhi.


Complice il meccanismo di forte immedesimazione costruito sin dalla sequenza d’apertura, tutto ciò che si osserva avviene secondo un meccanismo di colpe inespresse e vittimizzazione. Ma, facendo appello a tutta la delicatezza artistica di cui Lukas Dhont è capace, non si punta mai il dito, preferendo mostrare gli eventi attraverso la loro naturale concatenazione. Ed è probabilmente la grandezza che il film, in soli 104 minuti, riesce a raggiungere, ottenendo con la forza dei sentimenti il più grande insegnamento sull’intimità delle relazioni.


Nello spazio della visione spettatoriale, negando a due 13enni il rapporto armonico e naturale che non ha bisogno di alcuna spiegazione, veniamo indirizzati verso uno spazio di prevenzione, consapevolezza, conoscenza. Espiazione. Attraverso la nostra interpretazione visiva libera, condizione che abbiamo negato a Léo e Rémi, spetta a noi azzerare il meccanismo che prevede etichettature inesistenti, o riconoscerlo. E, come Lukas Dhont sembra aver compreso alla perfezione, lasciare che il mezzo cinematografico possa finalmente mostrare, raccontare, lasciando che le cose esistano nella loro forma primordiale. Lasciandoci ferire, guarire, guidare da film come Close.









Image Copyright: Ensaio Critico

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