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Come la comunicazione pubblica plasma l'immaginario del migrante

  • Writer: Koinè Journal
    Koinè Journal
  • 8 hours ago
  • 6 min read
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di Denise Capriotti.


La comunicazione pubblica sul tema delle migrazioni, in Italia e in Europa, è stata a lungo dominata da narrazioni emergenziali, stereotipi e semplificazioni. Il migrante viene spesso rappresentato come una figura problematica: un individuo disperato, bisognoso d’aiuto, oppure una minaccia per la sicurezza collettiva. Queste rappresentazioni hanno contribuito a diffondere paure e diffidenze, ostacolando una comprensione reale e complessa del fenomeno migratorio.

 

In questo contesto, le campagne di comunicazione – o campagne di sensibilizzazione – rivestono un ruolo cruciale. Si tratta di iniziative volte a informare o influenzare il comportamento di un vasto pubblico in un determinato arco di tempo, utilizzando messaggi coordinati veicolati su diversi media. L’obiettivo non è economico, bensì sociale: produrre benefici per l’intera collettività, stimolando riflessione, empatia e cambiamento.

 

Nel caso specifico delle migrazioni, però, l’intensificazione delle campagne non è sempre proporzionale al numero di arrivi nei Paesi coinvolti. Spesso, esse si attivano in risposta a eventi drammatici o in presenza di un clima politico e sociale carico di tensioni. In questi casi, i media e i partiti politici tendono a utilizzare la comunicazione per costruire narrazioni funzionali ai propri interessi.

 

Il concetto di agenda setting, elaborato dagli studiosi Maxwell McCombs e Donald Shaw, ci mostra come i media non ci dicano necessariamente cosa pensare, ma su cosa pensare. Se la migrazione è presente nei telegiornali solo in momenti di crisi — come sbarchi, tensioni sociali o episodi di cronaca nera — si costruisce una percezione in cui il tema migratorio è automaticamente associato a problemi e minacce.

Questo effetto si rafforza anche nel secondo e terzo livello dell’agenda setting: non solo i media decidono i temi, ma anche come presentarli e quali connessioni attivare tra essi. Ad esempio, migrazione e criminalità, oppure migrazione e povertà, creando una rete di significati difficili da scardinare.

 

Per comprendere la complessità di questo meccanismo è utile riflettere sul concetto di confine non come semplice delimitazione geografica, ma come costruzione sociale e politica. I confini sono prodotti da discorsi, pratiche e infrastrutture che stabiliscono chi può muoversi, chi deve restare fermo, in base a condizioni definite e gerarchiche. 

Michel Foucault, filosofo e sociologo francese, descrive questa dinamica con il concetto di “governamentalità”, ovvero quell’insieme di strumenti e saperi che consentono al potere di esercitarsi sulla popolazione attraverso dispositivi di controllo, come la sicurezza e la regolazione della mobilità.

È così che diverse campagne invitano i migranti a “restare a casa propria, contrapponendo un presunto “posto giusto” occupato da chi ha diritto a muoversi e vivere in sicurezza, a un “fuori luogo” riservato agli altri, ai non legittimati.

 

Ancora più subdolo è l’effetto di interiorizzazione del confine: le campagne, oltre a localizzare geograficamente il limite tra “noi” e “loro, portano questo confine dentro le persone, agendo sulla percezione del possibile e del legittimo. Viene utilizzato un linguaggio culturale familiare per persuadere sull’“indesiderabilità” della migrazione, facendone non solo un problema esterno, ma una questione morale e identitaria.

 

Secondo Walter Lippmann, giornalista statunitense, i media svolgono una funzione di mediazione simbolica, creando uno “pseudo-environment” fatto di stereotipi e rappresentazioni semplificate. Questo è particolarmente rilevante per il tema della migrazione, perché la maggior parte delle persone non ha un'esperienza diretta con i migranti. Di conseguenza, la loro opinione si basa prevalentemente su ciò che viene mostrato nei telegiornali, sui social media e nella stampa.

Se i media insistono nel rappresentare i migranti come “invasori” o “clandestini”, questa narrazione prende il posto della realtà, contribuendo a formare un'opinione pubblica discriminatoria.

 

Con l’avvento dei social media e degli algoritmi, entrano in gioco fenomeni più recenti come le filter bubbles e le echo chambers. 

Le filter bubbles, come le descrive Eli Pariser, sono ambienti informativi personalizzati in cui gli algoritmi selezionano contenuti simili a quelli con cui abbiamo già interagito. Se un utente clicca o condivide contenuti ostili alla migrazione, l’algoritmo tenderà a mostrargliene sempre di più, rafforzando una visione unilaterale e polarizzata.

Le echo chambers, invece, si formano quando gli individui scelgono attivamente di circondarsi solo di persone che la pensano come loro. In questi ambienti si rafforzano le opinioni, si estremizzano le posizioni e si riduce la possibilità di confronto con idee diverse. Questo può portare a una maggiore diffusione di fake news, discorsi d’odio e radicalizzazione del dibattito pubblico sulla migrazione.

 

Un ulteriore elemento chiave per comprendere come le persone recepiscono e reagiscono ai messaggi mediatici sulla migrazione è il concetto di fattori di mediazione o variabili intervenienti, che influenzano la comunicazione tra media e pubblico. Hadley Cantril, attraverso la sua ricerca condotta sugli effetti del radiodramma La guerra dei mondi (1938), ha dimostrato che lo stesso messaggio mediatico può produrre reazioni molto diverse a seconda di fattori individuali come il livello di istruzione, la religione, la personalità e la capacità critica. L’esperimento prevedeva la trasmissione di "La Guerra dei Mondi" come se fosse un notiziario di emergenza, descrivendo un'invasione aliena.

Alcune persone presero il messaggio come pura fantascienza, altre effettuarono controlli esterni prima di credere o meno alla notizia, mentre altre ancora si convinsero senza verifiche, spaventate da un tono realistico e dalla fiducia nella radio come mezzo autorevole. Fu un caso di “panico di massa”.


Questa riflessione è estremamente utile per la comprensione della comunicazione sulle migrazioni. Le narrazioni mediatiche, spesso drammatiche o semplificate, non sono percepite da tutti allo stesso modo. Chi possiede un’abilità critica maggiore e un contesto socio-culturale più favorevole sarà più propenso a interpretare in modo equilibrato il fenomeno migratorio, mentre altri potranno cadere vittima di paure, pregiudizi o false informazioni, alimentando stereotipi e ostilità. Inoltre, il clima sociale e politico, l’incertezza economica e culturale, possono accentuare queste dinamiche, proprio come accadde nel contesto storico dell’esperimento di Cantril.

 

Di fronte a queste derive comunicative, si rende necessario costruire nuove narrazioni, capaci di decostruire i pregiudizi e proporre visioni più complesse e inclusive. Un riferimento teorico fondamentale è il concetto di ospitalità mediatica di Roger Silverstone, professore universitario del Regno Unito, che invita i media a farsi promotori di empatia, dialogo e comprensione. Ospitare mediaticamente l’altro significa riconoscerlo come soggetto dotato di voce, storia e dignità, e non come semplice oggetto da raccontare.

 

Numerose esperienze concrete si stanno muovendo in questa direzione. Iniziative culturali come proiezioni cinematografiche, incontri pubblici, festival e laboratori artistici rappresentano spazi in cui si favorisce il dialogo interculturale, si smontano stereotipi e si sperimentano nuove forme espressive. Un esempio emblematico è il Festival Femminista Migrante di Bologna, che ha unito riflessione politica, arte e socialità, dando visibilità a soggettività spesso marginalizzate.

 

Le campagne di comunicazione sociale svolgono un ruolo fondamentale nella promozione di valori come l’inclusione, i diritti umani e la solidarietà. Tuttavia, esse devono evitare il rischio di cadere in una retorica universale e paternalista. È qui che la comunicazione assume anche un ruolo di advocacy: non solo informare, ma schierarsi, dare voce a prospettive marginalizzate e sostenere attivamente la trasformazione sociale.

 

Un elemento centrale è la necessità di restituire voce e auto-rappresentazione ai migranti. Per troppo tempo, le campagne hanno parlato “al posto” dei rifugiati, rendendoli oggetti passivi della comunicazione. Una narrazione davvero democratica implica invece il riconoscimento dei migranti come soggetti attivi, capaci di raccontare sé stessi e contribuire con il proprio sguardo alla definizione di un nuovo “noi”.

Il risultato dovrebbe essere una narrazione plurale, dove i protagonisti non sono più vittime, ma persone con competenze e sogni, capaci di integrarsi e arricchire la società ospitante.

 

Anche l’arte si è rivelata uno strumento potente per ripensare l’inclusione. In progetti artistici innovativi, i migranti non sono semplicemente rappresentati, ma diventano co-creatori di opere dal forte valore estetico e simbolico. Attraverso teatro, musica, danza o arti visive, esprimono la propria soggettività e contribuiscono alla costruzione di uno spazio condiviso, rompendo con la narrazione pietistica.

Queste pratiche artistiche sfidano le gerarchie culturali che contrappongono razionalità occidentale a emotività “altra”, spesso associata a inferiorità o arretratezza. 

 

La comunicazione sulle migrazioni non è mai neutrale. Essa può rafforzare confini e paure o, al contrario, contribuire a una società più giusta e inclusiva. Comprendere i meccanismi di mediazione simbolica, i fattori individuali e sociali che influenzano la ricezione dei messaggi, e adottare approcci partecipativi e plurali, è la chiave per promuovere narrazioni autentiche, in cui la diversità diventa una ricchezza e non una minaccia.





Bibliografia

  • Cantril, H. (1940/1972). La guerra dei mondi. Psicologia del panico. Torino: Einaudi.

  • Foucault, M. (2005). Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978). Milano: Feltrinelli.

  • Lippmann, W. (1922/1997). L’opinione pubblica. Roma-Bari: Laterza.

  • McCombs, M. E., & Shaw, D. L. (1972/2017). La funzione di agenda-setting dei media. In M. McCombs, Impostare l’agenda. I mass media e l’opinione pubblica (pp. 65-84). Bologna: Il Mulino.

  • Pariser, E. (2012). Il filtro. Quello che Internet non ci dice. Milano: Il Saggiatore.

  • Silverstone, R. (2007/2008). Media e moralità. Sul sorgere della mediapolis. Milano: Vita e Pensiero.





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