di Luca Simone.
Nella giornata di martedì, la candidata del CSX Alessandra Todde ha ufficialmente battuto il candidato di CDX Paolo Truzzu alle regionali in Sardegna con un distacco di poco più dello 0,3%. Si tratta del primo successo tangibile della segreteria Schlein che, gliene va dato atto, ha insistito sulla necessità di trovare un accordo con il M5S, ritenendola (a ragione) l’unica via per una non sconfitta. Per onestà intellettuale, infatti, va detto che la neopresidente Todde sembrava non avere alcuna possibilità di vittoria contro la coalizione di destra che sosteneva Truzzu, anche a causa delle defezioni di Azione e Italia Viva dal campo largo.
La vittoria è arrivata infatti in maniera quasi del tutto inaspettata, a causa della notte dei lunghi coltelli consumatasi in seno alla coalizione FDI-FI-Lega che, a dispetto degli altisonanti proclami, mostra delle evidentissime crepe. Basti pensare che nelle ore immediatamente precedenti al voto Meloni, Salvini e Tajani non se le sono mandate a dire sulla questione del terzo mandato ai governatori, arrivando a promettersi battaglia in Parlamento. La situazione dunque vedeva degli alleati di governo, alla vigilia di un importante voto regionale, promettersi uno scontro parlamentare su un tema assolutamente dirimente. Tema che, peraltro, nelle stesse ore stava spaccando anche il PD, con una linea di faglia interna aperta dalla decisione della segretaria di insistere sulla linea del No in Senato che aveva irritato e non poco i sindaci e gli amministratori Dem. Tutto passato però ora con la vittoria in Sardegna, forse.
Questa sconfitta rappresenta il primo reale ostacolo elettorale incontrato dalla Melonicrazia fin dal suo insediamento a Palazzo Chigi, e getta in pasto all’opinione pubblica (non i media, ma gli elettori, quelli che non si erano ancora accorti del clima da resa dei conti giornaliera presente nella maggioranza) tutti i livori che attraversano l’attuale coalizione alla guida dell’esecutivo. Basti pensare che un personaggio tendenzialmente moderato e misurato come Giorgio Mulè (FI) si è scagliato contro la Lega dichiarando al Corriere che: “Superare a destra è pure vietato dal codice della strada, perché si va a sbattere”. Dalle fila del Carroccio invece è Massimo Bitonci a sparare a zero sugli alleati, parlando di “candidato sbagliato” e lanciando un monito che sa di minaccia invitando a “riflettere bene su Zaia”. Non è un mistero infatti che il sogno nascosto della Premier sia quello di impedire una ricandidatura del Doge per strappare la regione alla Lega piazzando un proprio candidato, una mossa che segnerebbe probabilmente la fine politica del movimento creato da Umberto Bossi. Cogliendo magari la palla al balzo anche per liberare un serio candidato alla successione di Salvini dal suo incarico amministrativo, dato che Zaia da sempre rappresenta uno spettro che disturba i sonni del leader del Carroccio.
La sconfitta di Truzzu, candidato vicinissimo a Meloni e chiamato a sostituire l’uscente leghista Solinas (travolto dagli scandali) secondo alcuni attenti analisti sarebbe da addebitarsi al voto disgiunto imposto dal segretario del Carroccio ai suoi elettori. Salta agli occhi un dato riportato da Il Sole 24 Ore, secondo cui “la somma dei consensi al candidato è di quasi quattro punti percentuali inferiore alla somma delle liste che lo sostenevano. In termini assoluti: 328.494 voti contro 333.873.” In altre parole, mancano all’appello ben 5.000 voti, proprio quelli che hanno consegnato la vittoria al CSX. Un dato che dovrebbe far riflettere e non poco FDI, che si vede sconfitta, gettata in pasto all’opinione pubblica nazionale e internazionale a causa di un tiro incrociato del proprio partner di governo, non siamo ai livelli del Papete, ma poco ci manca.
Dall’altro lato della barricata invece si festeggia, giustamente, ma l’euforia rischia di obnubilare non poco il giudizio dei vertici DEM, che ora gridano al trionfo. Sono pochissime le voci che infatti hanno tentato di fare un’analisi politica del risultato elettorale, per proiettarsi alle imminenti votazioni in Abruzzo e alle più importanti europee di giugno. Tra queste pochissime voci che hanno ritenuto di festeggiare con la giusta moderazione (senza inni alla gioia, te deum o marce di Radeztky) c’è il sindaco di Milano Beppe Sala. In un post pubblicato sui suoi social, Sala ha invitato alla moderazione nei festeggiamenti vista la dinamica della vittoria, arrivata più per merito del voto disgiunto che per una effettiva investitura dell’elettorato sardo, ma punta anche giustamente i riflettori sull’esperienza del campo largo che ha mostrato tutte le sue potenzialità.
Attenzione a cantare vittoria però, dato che l’alleanza PD-5S non ha ottenuto una vittoria sul campo “pulita” e netta (ha infatti fallito nel raggiungere l’obiettivo del 50%) e ha anche mostrato tutti i limiti elettorali dell’alleato pentastellato che ha ottenuto un risultato molto inferiore alle aspettative. Guai dunque a sentirsi già giunti alla fine di un percorso, perché questa vittoria rappresenta solo il primo piccolo passo per la costruzione di un’alternativa credibile all’alleanza di centrodestra. Giusto festeggiare, ma i caroselli in strada francamente andrebbero evitati.
Chi invece è giunto al capolinea del proprio progetto politico è il duo Calenda-Salvini. Entrambi i leader hanno incassato l’ennesima sconfitta elettorale giunta nella maniera più dolorosa possibile, ovvero con percentuali microscopiche e addirittura un Carroccio che passa da 8 a 1 solo consigliere regionale e raccoglie a malapena il 3,5% delle preferenze. Per il Capitano soffiano pesanti venti di guerra interna, con la possibilità di un suo siluramento sempre più tangibile anche in vista di una tornata europea che non sembra affatto garantire risultati sensazionali grazie alle discutibili decisioni di mantenere l’alleanza con i nazifascistoidi di mezza Europa che sono destinati di nuovo all’opposizione (grazie anche all’accordo Meloni-Von der Lyen) e di candidare personaggi a dir poco discutibili come il generale Vannacci.
Per Calenda invece le campane sembrano definitivamente suonare a morto, ed è lui stesso ad alzare bandiera bianca dichiarando che non ha più intenzione di correre da solo, soprattutto alle amministrative (alla quinta sconfitta disastrosa lo ha capito pure lui). Un grande segnale di resa che sembra voler porgere la mano a quel campo largo che fino a ieri guardava con tanto disgusto e spocchia per la presenza di Conte e dei suoi. La situazione sembra essersi invece nettamente capovolta, e vede ora un Calenda presentarsi a bussare alla porta Penta-Dem con il piattino dell’elemosina in mano, pronto ad accettare qualsiasi condizione gli venga posta dai nuovi alleati-padroni. Sarebbe ora che qualcuno spiegasse a Calenda che per fare politica non basta parlare in un dialetto romano simpatico e portare i jeans, occorre anche avere strategie vincenti.
Cosa lasciano dunque in eredità le elezioni in Sardegna? Lasciano tanto certamente, essendo la prima sconfitta elettorale del governo e mettendo in luce la totale vulnerabilità di una maggioranza posticcia e litigiosa, ma non lasciano assolutamente nulla di immutabile. Il neonato campo-largo farebbe bene a smettere da subito di sparare fuochi d’artificio per iniziare a lavorare sul campo in maniera molto più massiccia di quanto ha fatto finora. Cinquemila voti dissociati dei leghisti non sono certo un motivo valido per cantare l’inno alla gioia.
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