di Cosimo Bettoni.
Guardare ad est
Non serve forse aver visto il classico Disney Aladin per comprendere quanto il mito dell’Oriente esotico sia qualcosa di profondamente radicato nella nostra mentalità.
Si pensi a quanto fin da piccoli siamo stati esposti ad un’idea di Oriente che in qualche modo ci attrae e ci affascina con i suoi profumi inebrianti, le storie fuori dal tempo, i mangiatori di serpenti, le porcellane, le stoffe e col mito di città rese immortali dalle canzoni e dalle poesie.
Ma quando l’Occidente ha affacciato per la prima volta la testa alla finestra per guardare alla sua destra? Quando in Europa si è cominciato ad avere un reale interesse intellettuale per esso?
La storia che mi sono proposto di raccontare è in qualche modo straordinaria perché, in effetti, come altrimenti potremmo definire una vicenda in cui le lettere europee arrivarono addirittura a porsi al servizio di quelle degli ‘’infedeli.
Come spesso succede, per fare un passo avanti, siamo costretti a farne molti altri indietro e tornare, in questo caso, alla prima età moderna (XVI e XVII secolo), quando per la prima volta il mondo culturale europeo cominciò ad interessarsi in maniera preponderante alle realtà fuori di esso.
Il Cinquecento e il Seicento sono secoli caratterizzati da un’intensissima attività di interazione (culturale, commerciale e spesso anche militare) globale: nuovi mondi erano appena stati scoperti e gli Europei, poco dopo aver scoperto gli antichi, si trovarono di fronte ad un nuovo ‘’shock’’: quello determinato dalla scoperta degli ‘’Altri’’.
Le lettere orientali e l’Europa
Nonostante sia intellettualmente corretto accusare il mondo europeo di ‘’curiosity deficit’’ (Said 2008), si deve allo stesso tempo ammettere che questa condizione, di mancato interesse nei confronti di culture e civiltà ‘’altre’’, non era propria di tutti gli uomini del continente.
Osservando da vicino la prima Modernità ci si potrà accorgere dell’esistenza di alcuni personaggi, purtroppo rimasti a lungo sotto traccia nelle pagine della grande storiografia, che dimostrarono un vivace interesse nei confronti del mondo orientale.
Voglio precisare che a quest’altezza temporale questo desiderio di conoscere è rivolto alle realtà politicamente più vicine al Vecchio continente, ovvero i tre grandi imperi islamici nati a seguito della morte di Tamerlano (1405) e del crollo del potere timuride (Marcocci 2016: 515).
Si sta dunque parlando dell’Impero Ottomano, dell’Impero Safavide in Persia e dell’Impero Moghal in India, anche se quest’ultimo comincerà a suscitare curiosità soprattutto verso la fine del XVII secolo.
Non ci si esporrebbe troppo nel sostenere che il Cinquecento sia stato il secolo decisivo per il fiorire degli studi orientali.
Questi ultimi furono indirizzati, nel corso di questa prima fase cinque-seicentesca, verso soprattutto studi di tipo filologico, linguistico e bibliografico: in poche parole i primi orientalisti furono soprattutto uomini interessati allo studio delle lingue (l’arabo su tutte) più che alla storia delle civiltà orientali.
Solo nel corso del Settecento, quando si assisterà al consolidamento di quella che Alexander Bevilaqua ha definito una ‘’Republic of arabic letters’’ (Bevilaqua 2019: 3), si sarebbe potuto parlare di un interesse a 360o per le grandi civiltà orientali, comprese quelle più distanti come quella cinese o quella giapponese.
Eugène Delacroiz, "Le donne di Algeri nei loro appartamenti", 1834.
‘’Video longum esse’’
L’innegabile fascino di questa storia risiede in primo luogo nei suoi principali protagonisti, gli eruditi, personaggi realmente voraci di questo sapere nuovissimo e allo stesso tempo difficile da studiare materialmente.
La domanda che però dobbiamo porci è la seguente: come questi uomini studiavano l’arabo, il turco, il persiano o l’ebraico?
Questo interrogativo ci porta a quello che probabilmente è il capitolo più straordinario di questa vicenda, quello legato proprio alle pratiche intellettuali.
Senza dubbio un ruolo importante fu quello di personaggi che avevano contatti materiali con il mondo musulmano, come i dragomanni, termine con il quale indichiamo diplomatici utilizzati dagli Stati europei per interagire con gli Ottomani in virtù delle loro grandi conoscenze linguistiche.
Gli studi orientali devono molto ai dragomanni, sia perché molti di essi una volta rientrati in Europa lavoravano come maestri, sia perché questi spesso si dedicarono in prima persona alla stesura di opere di grammatica e di traduzioni.
Fu un dragomanno, André Du Ryer (1580-1660/1672), che tradusse per primo il Corano in Francese nel 1647 (Rothman 2021: 151).
Ma i dragomanni non erano i soli ad agire come vettori di propagazione della conoscenza delle lingue orientali.
Spesso gli eruditi poterono affinare le loro conoscenze proprio tramite il confronto con uomini provenienti da est, come il cristiano copto Yusuf ibn Abi Daqn, noto in Europa con i soprannomi di Barbatus e Abudacnus (?-fine XVII sec.), oppure il morisco spagnolo Ahmad ibn Qasim Al-Hajari (1570-1640), che ebbero modo di dialogare con il più grande arabista del XVII secolo, l’olandese Erpenius (1584-1624).
Poco noto è probabilmente il ruolo avuto dai prigionieri di guerra, come Leone l’Africano, nome cristiano del diplomatico marocchino catturato dai pirati spagnoli al-Ḥasan ibn Muḥammad al-Wazzan al-Fāṣī (1485-1537).
Suscitano un certo interesse le testimonianze (spesso sotto forma epistolare) in cui gli orientalisti ci raccontano quali fossero le difficoltà relative allo studio di una lingua: mancanza di termini, maestri di basso spessore, difficoltà nel reperire testi originali.
Esemplificativa in questo caso è una lettera che l’ugonotto ginevrino Isaac Casaubon (1559-1614) invia ad un suo collega arabista Joseph Justus Scaliger (1540-1609), in cui il primo lamenta proprio la difficoltà nell’arrivare ad una salda conoscenza della lingua araba: ‘’Video longum esse iter, non dicam, ad cognitionem eius linguae perfectam, sed vel mediocrem notitiam’’ (Casaubon 1709: 143).
Tradotto: ‘’Vedo che è un lungo viaggio, non dico, per una conoscenza perfetta di quella lingua, ma anche per una conoscenza moderata’’.
Un eruditismo fine a se’ stesso
Resta ora da chiarire il tema della motivazione, spiegare perché questi intellettuali si interessassero alle lingue orientali.
Per comprendere questo punto dobbiamo cercare di allargare il nostro campo di indagine, guardando alla prima modernità con una lente decisamente più ampia, capace di includere ragioni politiche, ambizioni personali e l’attività dei bibliofili.
L’Europa cinque-seicentesca è contraddistinta da un’attività intellettuale che spesso ha come fine ultimo la conoscenza del sapere, il desiderio di accumulare il maggior numero di informazioni per inserirle in testi capaci di riassumere tutto il sapere umano; esemplificativa in tal senso è l’opera di Conrad Gessner (1516-1565), la Bibliotheca universalis (1545).
Al di là di questa missione erudito-sapienziale vi è però un’altra prospettiva, ascrivibile in unorizzonte saidiano, all’interno della quale lo studio delle lingue orientali diveniva un mezzo per attuare un determinato tipo di politica che, forse già anacronistica all’epoca, potremmo indicare con il termine di ‘’crociata’’.
Orientalismo e spirito di crociata
Anche se modelli più virtuosi erano possibili, si guardi a quello rappresentato dalle Province Unite, che si servirono di Erpenius e del suo allievo favorito Jacob Golius (1596-1667) nelle trattative con i principi barbareschi del Nord Africa, è innegabile che esistessero delle realtà in cui lo studio delle lingue orientali fosse direttamente connesso all’attività bellica.
Esemplificativo è il caso del Sacro Romano Impero, tributario del signore ottomano dal 1527 e per due secoli costantemente in guerra con esso.
La realtà di confine rappresentata dall’Impero, e in particolar modo dalla città di Vienna, facevano sì che gli scambi materiali con il mondo ottomano fossero frequenti, cosa che generò la necessità di possedere il maggior numero di informazioni possibili sul nemico turco (Molino 2016: 303)
La biblioteca imperiale di Vienna divenne così il luogo privilegiato dove studiare il mondo ottomano, un archivio dotato di una così grande quantità di materiale tale ancora nel XVIII secolo da lasciare stupito il diplomatico britannico Henry Wotton (Wotton 1685: 596 e 626-627).
Inutile dunque illudersi che sia esistita un’età fatta solo di pacifica convivenza culturale e politica tra il blocco euro-cristiano e quello islamico-orientale, la guerra e l’espansione sarebbero state sempre le principali occasioni di interazione.
Per buona parte degli orientalisti tedeschi il fine erudito avrebbe sempre fatto alla causa più grande: la costituzione di un ‘’arsenale intellettuale’’ (Molino 2016: 299) grazie al quale sconfiggere il nemico e, se possibile, annichilirlo.
Bibliografia
- Bevilacqua Alexander. (2019). La Biblioteca Orientale. Illuminismo e Islam. Milano. Hoepli.
- Casaubon Isaac. (1709). Epistolae. Rotterdam. Edizione di Theodor Jansz van Almeloveen.
- Davies Zemon Nathalie. (2014). ‘’Leo Africanus’’ and His Worlds of Translation contenuto in Translators, Interpreters, and Cultural Negotiators Mediating and Communicating Power from the Middle Ages to the Modern Era. Londra. Palgrave Macmillan.
- Hamilton Alastair. (2009). Isaac Casaubon the Arabist. ‘’Video longum esse iter’’ contenuto in Journal of the Warburg and Courtauld Institutes V.72. Warburg Institute and Courtauld Institute.
- Leeuwen van Richard e Vrolijk Arnoud. (2013), The founders contenuto in Arabic studies in the Netherlands. Brill.
- Marcocci Giuseppe. (2016). Too Much to Rule: States and Empires across the Early Modern World contenuto in Journal of Early Modern History Vol. 20. Brill.
- Molino Paola. (2016) World bibliographies: Libraries and the reorganization of knowledge in Late Renaissance Europe contenuto in Canonical Texts and Scholarly Practices, a Global Comparative Approach. Cambridge University Press.
- Rothman Natalie. (2021). The Dragoman Renaissance, Diplomatic Interpreters and the Routes of Orientalism. Ithaca (NY). Cornell University Press.
- Said Edward. (2008). Orientalismo. Milano. Feltrinelli.
- Wotton Henry. (1685). Reliquiae Wottonianae. Londra. Edizione di B. Tooke.
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