di Stefania Chiappetta.
Vaste dune desertiche dai caldi toni aranciati ricoprono il campo visivo, mentre l’esercito del barone Vladmir Harkonnen (Stellan Skarsgård), responsabile della distruzione di casa Atreides e tornato ad imporre il suo dominio su Arrakis, bracca i Fremen a cui Paul Atreides e sua madre Jessica si sono appena uniti. Il motore che dà vita all’azione si trasforma repentinamente in battaglia, dal movimento maturo e fluido, a cui partecipiamo attenti. Nella sequenza di apertura, una breve sintesi narrativa introdotta dalla figlia dell’imperatore, la principessa Irulan (Florence Pugh), lega il corpo filmico alla prima parte del dittico dell’universo di Dune (Denis Villeneuve, 2021).
Produttivamente parlando, sono passati ben 2 anni dall’uscita in sala del primo film, la scommessa vinta di Denis Villeneuve, che era riuscito a spezzare la maledizione che pareva aleggiare attorno ai tentativi di una trasposizione mediale per la saga scritta da Frank Herbert. Eppure, nella scioltezza del tempo cinematografico, tra le due opere non sono trascorse che poche ore: tutto è esattamente come lo abbiamo lasciato, nel posto che speravamo fosse. Attraverso un maturo ricongiungimento con l’opera prima, che svela da subito la compattezza stilistica della regia di Villeneuve, la spezia che ricopre le sabbie di Arrakis - divenendo pretesto per il dominio e la guerra – riflette quella stessa agilità di movimento che appartiene ai personaggi e che diventa, sotto l’occhio meccanico delle telecamere IMAX, credibile, partecipe, umano.
Denis Villeneuve, in quello che sembra essere a tutti gli effetti il suo genere d’appartenenza, avvicina così lo sci-fi all’etichetta di kolossal d’autore che rincorreva già nel primo film, senza tuttavia riuscirci pienamente, bloccandosi nell’aria più frequentata del blockbuster autoriale. La sua firma nella costruzione del world-building di Dune, che ricopre anche la sceneggiatura, si accresce ora di una visione personale e ponderata, dimostrando quanto il tono maturo del primo film – a tratti fortemente trattenuto – fosse una scelta coerente del suo stile registico, legato a doppio filo con l’ascesa di Paul Atreides (Timothée Chalamet).
Nella seconda parte di Dune, mentre la vendetta verso gli Harkonnen, le prove per diventare un Fremen, e la pressione dei credenti che vedono in lui il prescelto rinchiudono Paul in un vortice che è restio ad accettare, l’universo del film si accresce di due dimensioni in rapporto paritetico. La prima, la più importante secondo lo stesso regista nonché quella facilmente intuibile, è la stessa dimensione cinematografica che vive e respira grazie alla sinergia del comparto tecnico, elevando perciò l’esperienza di visone e lo spessore dell’immagine.
Ne fa parte la colonna sonora di Hans Zimmer che, unendosi al sound design per catturare dialoghi umani e rumori meccanici di armi e navicelle, diventa per noi contemplativa, a tratti liturgica. O ancora la fotografia di Greig Fraiser che, con l’esposizione bassa dei colori caldi nel deserto, si fonde ad inserti in bianco e nero per opporre la casata degli Harkonnen. In particolare il giovane nipote del barone, l’antagonista Feid-Autha (Austin Butler), la cui fredda spietatezza resta impigliata nelle ombre chiaro-scurali per distanziarlo, con il colore, dall’aranciato del corpo di Paul che invece appartiene alle dune. Due ragazzi, due casate, due colori diversi, per sottolineare in modo netto lo scontro inevitabile tra eroe e villain. Nello stesso campo lavorano le scenografie di Patrice Vermette che, incorniciando la regia con linee geometriche e vaste aree, espandono l’universo iconografico per colmare la monotonia figurativa del deserto. Lo dimostra la scena iniziale nella casa in cui l’imperatore vive con sua figlia, dove le ponderate scelte politiche e strategiche per il ripristino del potere, sono decise tra arcate e spazi semi-aperti.
La seconda dimensione che convive inglobata nella prima, è quella del romanzesco, la cui forma adattata dai libri, svela una serie di tematiche chiave che si legano alla potenza delle immagini. Infatti, ripulendo il film dalla sua patina spettacolare, quello che resta è una gonfia componente introspettiva, privata, che accompagna la trasformazione di Paul nel Messia che le vecchie profezie indicano: ma soprattutto il suo cammino per diventare l’eroe classico della narrazione cinematografica. I temi moderni affrontati da Herbert, quale il problema dell’ecologia, dello sfruttamento delle risorse del pianeta e l’imperialismo, diventano nella visione di Villeneuve assolutamente contemporanei, richiamando alla mente spettatoriale conflitti molto più vicini, nel qui ed ora del nostro tempo, nonostante lo sguardo al futuro della storia.
Ma senza dubbio è il tema da romanzo di formazione a risultare più forte, anche se sottosviluppato. Dimenticando il Paul Atreides della parte prima, insicuro, fragile, bloccato nelle sue visioni oniriche che non riesce a controllare, il nuovo Paul trova nella compagnia dei Fremen e nell’amore per Chani (Zendaya), la giusta spinta ad accettare ciò che è: o ciò che gli altri vorrebbero fosse, perdendo sé stesso in nome della fede.
La stessa sorte tocca a sua madre Jessica (Rebecca Ferguson) che, incinta di una nuova erede per la casata degli Atreides, scala la sua posizione nelle Bene Gesserit per ricoprire il ruolo di nuova Reverenda Madre. In questo modo accetta le sorti del Messia per suo figlio, accompagnando con il suo ruolo il culto iniziatico che porta al sorgere del Lisan al-Gaib, sfruttando la fede cieca delle credenze popolari.
Quindi le trasformazioni che ricoprono i personaggi e che avvengono parallelamente, permettono al film di snodarsi in diverse linee narrative, le quali non riescono ad avere lo stesso impatto, non permettendo alla potenza della dimensione cinematografica di penetrare pienamente al suo interno, bloccandosi volutamente a causa dell’impianto autoriale di Villeneuve. Solo sul finale quando esse confluiranno insieme, consentendo ai nuovi e vecchi sé di venire alla luce, le due dimensioni si amalgameranno fluentemente, lasciando parlare unicamente la potenza visiva, diventando perciò esperienza immersiva. A ciò si accompagna la forza della recitazione degli attori, che risultano maturi e credibili nei ruoli ricoperti, colmando spesso con cambi nei movimenti e nelle espressioni gli scarti con le allegorie simboliche, sottolineando così i passaggi trasformativi in modo visivo.
Eppure, ripulendo il film da ogni discorso critico possibile, uno dei maggiori pregi è la sua assoluta, innegabile, appartenenza all’abitazione della sala cinematografica, fornendo all’opera fantascientifica tematiche universali, nonché caratteristiche estetiche di grande pregio. La ricercatezza artistica, l’assoluta presenza del suono che fa vibrare le poltroncine in sala, il formato iconografico che rende abitabile lo spazio poco ospitale del deserto, restituisce all’audience una partecipazione senza filtri, trasparente. Essa diventa perciò una world experience, che adatta il tempo del cinema a quello della nostra quotidianità, lasciando addosso i granelli di sabbia e spezia che si muovono al vento.
Qualunque sia la sorte della terza parte di Dune, o le sue peripezie produttive, l’unica certezza che rimane è quella pregnante attesa, vogliosa, di vedere di più. Di lasciare che Villeneuve ci riconduca su Arrakis, per assistere ad una possibile chiusura triadica di questa nostra esperienza fluida, iniziatica del viaggio dell’eroe, che ha però il sapore contemporaneo del nostro tempo.
Image Copyright: Wired
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