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Writer's pictureKoinè Journal

I giornali non sanno parlare di femminicidio


di Cecilia Isidori.


Il femminicidio è un fenomeno sociale che si inserisce al vertice della piramide della violenza di genere. È l’atto estremo, il gesto con cui l’uomo riesce massimamente e senza possibilità di ritorno a dominare e controllare la donna: si impossessa della sua vita.

L’impatto sulla coscienza sociale di questo fenomeno è così forte che, non appena i racconti di femminicidi riempiono le prime pagine dei quotidiani, l’opinione pubblica è il primo tribunale in cui si discutono colpe, moventi e aggravanti, la prima corte a processare i coinvolti.


Proprio per il grande spazio che i femminicidi occupano nella cronaca, è necessario che questa si ponga non solo come luogo di informazione ma come mezzo di educazione e sensibilizzazione. Spesso non è così.

“Roma, uccide la moglie con una coltellata durante una lite in casa”, un titolo tra tanti, esempio di pratiche giornalistiche lontane dalla necessaria decostruzione di schemi sociali stereotipati, che danno voce ai valori della cultura patriarcale, risultando devianti e non contribuendo al progresso socio-culturale.

Nel leggere un articolo di femminicidio è necessario prestare attenzione a diversi dettagli.

Innanzitutto in molti casi, il termine “femminicidio” viene omesso, come fosse superfluo e si narra la vicenda con vacuità e imprecisione: “Donna uccisa dal marito, l’uomo spinto da gelosia ha agito lucidamente”, leggiamo e neppure nel titolo, parte di maggiore impatto, il problema sociale viene reso manifesto.

Non è una banale minuziosità. È atto essenziale e politico concretizzare tramite il linguaggio i problemi, chiamarli con il proprio nome, e dare alle vittime il riconoscimento meritato: non stiamo parlando di vittime di generico omicidio e questo deve essere ben chiaro.


Quali sono i termini corretti da utilizzare?

Esistono due termini per indicare lo stesso fenomeno, con significati diversi.

Cronologicamente anteriore è il termine criminologico “femmicidio”, utilizzato nel 1992 dalla criminologa femminista Diana H. Russel con un’accezione ben precisa: secondo Russell, infatti, “il concetto di femmicidio si estende al di là della definizione giuridica di assassinio e include quelle situazioni in cui la morte della donna rappresenta l'esito/la conseguenza di atteggiamenti o pratiche sociali misogine”.

Il termine “femminicidio”, invece, ufficialmente utilizzato per la prima volta nel 2004 dall’antropologa messicana Marcela Lagarde, abbraccia con il proprio significato gli aspetti sociologici e le implicazioni politico-sociali del fenomeno.

È, dunque, quello più corretto da utilizzare per analizzare l’episodio non solo come crimine ma come momento massimo di una violenza sistemica, sociale.


Parlare di “delitti passionali” è errato?

L’espressione “delitti passionali” è quella più frequentemente utilizzata, nonostante non sia propriamente adatta.

Questa ha origine dall’articolo 90 del Codice Penale, concernente lo stato emotivo e quello passionale: il primo è una reazione momentanea ad uno stimolo esterno che porta ad un gesto omicida non premeditato, frutto di un’improvvisa alterazione dello stato mentale; il secondo nasce da un’emozione cristallizzata, latentemente covata nel tempo che esplode, improvvisamente, in un omicidio, preceduto da diversi “fattori spia”.

Chiamarli “delitti passionali” a livello penale è, in realtà, corretto. Questo perché la mancanza di una fattispecie penale di femminicidio nel nostro codice deriva dal bisogno garantire il principio di tassatività. Il legislatore penale deve formulare le norme in modo tale da garantire che il reato sia precisamente determinato, per rendere chiaro oltre ogni ragionevole dubbio ciò che è penalmente lecito o illecito.


In quest’ottica definire il “femminicidio” risulta difficile. Il concetto di “uccisione di donna a causa della sua posizione di donnaè vago e impreciso: descrivere e accertare nei singoli casi concreti con minuziosa tassatività la condotta di chi uccide una donna con l’unica intenzione di privarla della vita in quanto tale è, a livello penale, quasi impossibile. Il “movente di genere” non è sufficientemente univoco e categorico per la definizione di una fattispecie penale, nonché risulterebbe necessario stabilire in che termini dovrebbe essere rilevante il rapporto tra vittima e aggressore e si finirebbe comunque per escludere alcuni casi.

La sociologia e la criminologia, però, sono state ben in grado di definire il fenomeno e la cronaca, non essendo né giudice né legislatore, dovrebbe prendere posizione e trattare le cose per quello che sono, facendosi portatrice di una responsabilità collettiva di fronte ad un problema comunitariamente riconosciuto.


E le vittime un nome ce l’hanno?

Il nome completo della vittima, come il termine “femminicidio”, spesso viene tralasciato.

È concesso, in una pratica dal retrogusto paternalistico, il nome di battesimo e la relazione con il carnefice: tutto ciò è assolutamente superfluo e denota una spiccata mancanza di sensibilità politica al fenomeno.

L’abitudine è quella di isolare ogni caso e queste scelte vi sono funzionali: non si sottolinea mai la gravità del fatto in relazione alle cause estese nel sottostrato sociale e culturale, ma si isola ogni vittima nel suo ruolo in relazione ad un uomo, nella sua sfera di vita privata. Finché non verrà evidenziato che tutti questi casi, fatti passare come isolati, sono in realtà una grandissima rete, si rimarrà sempre lontani da una sensibilizzazione ed educazione al tema propria e necessaria.


Romanticismo e vite private: perché ce ne parlano?

Altro punto estremamente critico è la romanticizzazione delle narrazioni. Si è soliti allegare agli articoli foto della coppia felice, abbracciata e sorridente con ciò contribuendo alla creazione di una narrazione deviante rispetto alla vicenda che si sta narrando e tendenzialmente non fedele alla realtà dei fatti. Si manca di rispetto alla vittima che neanche in questo caso ha il proprio spazio, inevitabilmente legata alla figura dell’uomo che le ha tolto la vita, che neanche da morta smette di tormentarla, posto di fianco a lei come una sorta di lieto epitaffio.


Questa pratica giornalistica si esprime anche attraverso un frequente utilizzo del lessico sentimentale, che concentra tutta l’attenzione sulla specifica relazione in esame, di nuovo privando l’articolo di contenuto culturalmente utile. Tutto ciò vale anche per i dettagli forniti in relazione alla piega che la relazione tra vittima e carnefice stava prendendo nel momento in cui il femminicidio è stato commesso: ci vengono forniti particolari sullo stato della separazione, si sottolineano i continui rifiuti della vittima e la si mette alla gogna mediatica inserendo dettagli della sua vita privata, che non dovrebbe essere oggetto di pubblico dibattito. Omicidio Vanessa Ballan, il figlio che aspettava non era di Bujar Fandaj, leggiamo nel titolo e subito si concretizza nella nostra mente l’ipotesi che forse è anche colpa della vittima se le cose sono finite così.


Ciò alimenta la prassi, già troppo in uso, del “victim blaming, facendo supporre che possa esserci una spartizione di colpe tra colpevole e vittima, complice di ciò che ha subito. Quando leggiamo qualcosa come “Latina, rifiuta di sposarlo e lo lascia. Lui la uccide con due colpi di pistola” ci sta vedendo dato un messaggio chiaro: è morta perché se lo meritava, è stata causa del male che ha subito.

Il lettore è portato così ad avere un senso di pietà e compassione nei confronti del colpevole, non rabbia costruttiva al cambiamento. Questa compassione è il primo passo verso la “deresponsabilizzazione” del colpevole ma anche di tutti i lettori, uomini e donne indistintamente, che non saranno portati a riflettere sull’universalità del problema, sui propri valori, sulle proprie azioni.


La dettagliata narrazione del “modus operandi”: perché ne veniamo resi partecipi?

I quotidiani sono disattenti alla scelta del lessico anche quando si lanciano nella descrizione nuda e cruda del fatto. Amanti del sensazionalismo, in questi casi i giornalisti si lasciano andare a descrizioni piene di dettagli cruenti e morbosi del sangue e dei corpi, la violenza è spettacolarizzata tanto da non sembrare, a tratti, neanche reale. Il lettore è catapultato in una dimensione quasi fiabesca per cui quel “bravo ragazzo che le faceva i biscotti” si trasforma in un mostro, perde la testa e in cinque minuti di raptus si sporca le mani di sangue, incapace di prendere controllo di sé. Quando in un titolo leggiamo “Roma: donna fatta a pezzi, strangolata e poi tagliata con una sega” stiamo venendo inseriti nella dinamica della “pornografia del dolore”, consistente nella pubblicazione di contenuti – articoli, foto, video… – che sfruttano traumi per generare scalpore o attenzione.


Il giornalismo prosegue sulla strada delle narrazioni deumanizzanti: non ci sono mai uomini nati ed educati in una cultura sessista, fondata su possesso e prevaricazione, ma mostri, bestie incontrollabili. Questo pericoloso e reiterato approccio giornalistico di descrizioni romanzate, impressionanti e suggestive allontana il lettore dalla possibilità di prendere coscienza dei problemi, di sentirsi egli stesso parte di questo sistema di violenze e abusi. 

È fondamentale riscrivere il linguaggio mediatico, in modo tale da renderlo coerente con la problematica di cui si vuole impegnare a parlare: ad oggi questa viene solo sfiorata, appena accennata, invece, ne dovrebbero essere chiaramente descritte tutte le sfaccettature. Le parole cambiano la cultura, è necessario utilizzarle. 

Inoltre, tramite la divulgazione si devono suscitare le giuste reazioni. Ad oggi, quando leggiamo le descrizioni atroci e violente dei femminicidi, non siamo quasi mai esortati alla rabbia, al massimo proviamo pena per il terribile epilogo. È solo dalla rabbia, dall’indignazione che nascono i cambiamenti sociali e le prese di responsabilità si hanno solo se ci si sente toccati e coinvolti in qualcosa di ingiusto. 


La violenza di genere riguarda tutti come membri di una comunità sociale: non è un “problema delle donne”, è un problema di tutti.

Citando Michela Murgia, “nessuno è innocente se crede di dover rispondere solo per sé”. L’auto assoluzione non è sufficiente per non essere colpevoli. Si è colpevoli anche quando non ci si indigna leggendo un articolo di giornale, quando ci si sente esonerati da qualsiasi tipo di responsabilità perché non si è personalmente parte della vicenda, dello specifico episodio.


Non tutti i femminicidi fanno rumore, non per tutte scendiamo a riempire le strade e urlare piene di rabbia, ma le donne continuano, silenziosamente, a morire. La colpa, in fondo, è di tutti noi che non prestiamo abbastanza attenzione a questa violenza sistemica, così aggrappata alla nostra società che si nasconde anche dove non la riconosciamo neanche,

ma è pur sempre violenza e pur sempre ci uccide.

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