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Il processo Eichmann: Israele riscopre la Shoah

Updated: Oct 6, 2021


di Davide Cocetti.


Il 31 maggio 1962, nel carcere israeliano di Ramla, Adolf Eichmann viene giustiziato mediante impiccagione. Si chiude così una delle vicende giudiziarie internazionali più discusse ed emblematiche del secondo Novecento. La cattura in territorio argentino e il processo del gerarca nazista, responsabile della ghettizzazione e della deportazione di milioni di ebrei, hanno convogliato l’attenzione di tutto il mondo su Israele. L’interesse nei confronti della vicenda non è mai cessato, come dimostrano i numerosi libri, documentari e film che sono stati realizzati e continuano a essere realizzati sull’argomento. Già ampiamente discussa è la cosiddetta questione della “banalità del male”, aperta dalle riflessioni di Hannah Arendt. Molto meno approfondito, soprattutto al di fuori del contesto accademico, è l’impatto che il processo Eichmann ha avuto sulle istituzioni di Israele e sul dibattito pubblico interno. Un passaggio in realtà imprescindibile, soprattutto per comprendere gli sviluppi più recenti e attuali della politica, della diplomazia e della società israeliana.


La Shoah prima del processo Eichmann


Ciò che realmente cambia in seguito alla cattura e al processo di Eichmann è l’approccio di Israele nei confronti della Shoah. Oltre un decennio dopo la sua fondazione, lo Stato israeliano introietta la tragicità dell’Olocausto e compie un ulteriore passo verso la sua sovrapposizione con l’identità ebraica. Per capire la profondità di questo mutamento, però, è necessario fare un passo indietro e tratteggiare lo scenario che precede l’apertura del caso Eichmann. Sarebbe sbagliato sostenere che la Shoah sia assente dal discorso pubblico nei primi anni di esistenza di Israele. Ha una sua rappresentazione “demografica”: nel 1960, almeno un abitante su quattro del Paese è sopravvissuto allo sterminio. Neppure le istituzioni sono incuranti di fronte al tema: lo Stato inaugura monumenti e istituisce ricorrenze per tenere viva la Memoria.

Diversi storici hanno però notato come il discorso pubblico israeliano di questa prima fase tenda sì a ricordare l’accaduto, ma dall’altro lo inserisca in una dinamica di orgogliosa etica sionista. L’Olocausto in questa narrazione rappresenta la distruzione che precede la rinascita, chiaramente identificata con la fondazione dello Stato di Israele. In questo quadro, chi è veramente degno di essere ricordato? Chi è morto opponendosi e resistendo al massacro. Figure come gli ebrei ribelli nel Ghetto di Varsavia possono essere accostate ai martiri per la fondazione di Israele, arricchendo il pantheon degli eroi combattivi. Da questo tipo di rappresentazioni narrative rimangono inevitabilmente esclusi i morti nei ghetti e nei campi di sterminio. Il sensazionalismo che accompagna le storie di resistenza antinazista non tiene minimamente conto di quanti sono caduti “come pecore al macello” (questa è la percezione che ricorre più frequentemente tra i media e nel dibattito pubblico – cfr. Ravenna 2014: 103). E i sopravvissuti? A loro viene posta la domanda più dura: «perché non vi siete ribellati?». Un quesito a cui devono rispondere anche a nome di chi non ce l’ha fatta e che, inevitabilmente, finisce per aggravare quello che gli psicologi definiscono oggi come sindrome del sopravvissuto. Per tutti, chi più direttamente coinvolto e chi meno, la Shoah diviene una pagina vergognosa della storia della comunità, l’emblema della debolezza degli ebrei della diaspora, cui contrapporre l’immagine di rinnovata solidità del nuovo Stato israeliano.


La ricomposizione con il passato tragico


Cosa permette al caso Eichmann di cambiare la percezione generale dell’Olocausto a Israele? Sostanzialmente, si tratta della prima occasione in cui lo sterminio irrompe capillarmente nel discorso pubblico. Il processo al funzionario nazista si apre proprio sulla base di questi capi di imputazione. Chi viene chiamato a testimoniare nella maggior parte dei casi non ha mai avuto rapporti diretti con Eichmann, ma è stato vittima della ghettizzazione e della deportazione nazista. I verbali del processo si riempiono così di morte, violenza e dettagli raccapriccianti. La copertura mediatica integrale sulla vicenda non fa altro che portare questi dettagli anche sulla carta stampata e, più in generale, nel discorso pubblico. I media insistono molto sui particolari più macabri, capaci di suscitare maggior coinvolgimento ed emotività nel pubblico. I “vecchi” eroi, gli ebrei che hanno resistito, vengono soppiantati da una curiosità a tratti morbosa e a tratti raccapricciata sulla brutalità dello sterminio. La totale perdita di lucidità dell’opinione pubblica trova la sua testimonianza più marcata nelle proposte su “cosa fare di Eichmann”. Alcuni giornali arrivano a proporne l’esposizione in uno zoo, come prova vivente della bestialità che può prendere il controllo dell’uomo, oppure la sottoposizione a pubblico ludibrio nelle piazze di Gerusalemme (Ofer 2013: 76).


La svolta istituzionale


Istituzioni e autorità processuali israeliane, però, non si lasciano trasportare dall’animosità della società civile. Il processo si svolge in maniera più che regolare e la condanna all’impiccagione arriva solamente dopo aver smantellato punto per punto l’impianto difensivo allestito da Servatius, legale di Eichmann. Se eccezionale è la sanzione (si tratta dell’unica pena capitale comminata a un civile nella storia di Israele), altrettanto non si può dire per l’iter processuale. Le risoluzioni del processo, però, non producono un effetto retorico neutrale. Il fatto che istituzioni israeliane giudichino e condannino un cittadino non israeliano per crimini commessi su territorio non israeliano, dal punto di vista prettamente legale, è possibile grazie alla nozione di “crimine di interesse internazionale” (Scigliano 2013: 16). Categoria in cui, senza ombra di dubbio, ricadono anche i crimini contro l’umanità. Chiaramente, però, dal punto di vista discorsivo un simile sviluppo produce un’associazione immediata tra ebrei e Israele. Il fatto che lo Stato israeliano si occupi di crimini contro gli ebrei, anche a causa del retroterra culturale, produce un’identificazione tra due entità che in realtà, come abbiamo visto, non sono perfettamente sovrapponibili. Paradossalmente, a questa associazione contribuisce anche la linea difensiva di Servatius. Il legale sostiene pretestuosamente che la Corte distrettuale non possa giudicare il suo assistito, poiché rappresentante sia della parte lesa che di quella giudicante. Persino nelle sue parole, Israele e la comunità ebraica finiscono per combaciare. L’uso del diritto come strumento di assimilazione del dramma dell’Olocausto europeo ed ebraico nella storia fondante di Israele viene sancito dalla sentenza di primo grado. Questa la risoluzione di Moshe Landau, presidente della Corte distrettuale: «[...] non si può dissociare lo Stato, nel suo stesso fondamento, da questo genocidio[...]» (Scigliano 2013: 13). Un’affermazione che non lascia spazio a fraintendimenti.


Come la “nuova” Shoah ha influenzato l’opinione pubblica


L’introiezione della Shoah e di tutti i suoi aspetti più crudi nell’identità collettiva israeliana si traduce in vari modi. Le celebrazioni commemorative post 1962 tengono maggiormente in considerazione i milioni di morti e di deportati nel sistema concentrazionario sovietico. La rievocazione continua dei passaggi più drammatici della storia del popolo ebreo sposta anche la percezione della popolazione di Israele, da un nazionalismo più selettivo e orgoglioso a uno più inclusivo, ma anche molto più paranoico. La Guerra dei sei giorni, nel 1967, è l’occasione perfetta in cui far deflagrare questo clima di ansia e di tensione. La propaganda araba e in particolare egizia fa ampio uso di una terminologia forte per coagulare il consenso delle masse contro Israele. La stampa israeliana risponde dispiegando tutto il suo arsenale ricorsivo all’Olocausto, invocando la necessità di una pronta azione per stroncare una nuova possibile tragedia. Due in particolare sono i paragoni ricorrenti nei servizi e negli articoli dei media: quello tra la Cecoslovacchia nel 1938, paralizzata e infine fagocitata dalla determinazione nazista, e Israele nel presente; ma soprattutto quello tra Hitler e il leader egiziano Nasser (Gil 2012: 84. Questo tipo di rappresentazione non funziona però a senso unico. Se il clima generale dopo la vittoria nella Guerra dei sei giorni è festante, alcune voci di dissenso si levano per denunciare le contraddizioni di un’occupazione militare israeliana nei territori sottratti ai nemici. Il conflitto etico e morale soggiacente emerge alla perfezione nella testimonianza di Menahem Shelah, superstite dell’Olocausto e arruolato durante la guerra del ’67: «Mi sento a disagio nel far parte di un esercito forte e vittorioso […] Quando vedo i genitori trascinare i figli per mano, rivedo me stesso trascinato da mio padre» (Ofer 2013: 79).

L’eredità contrastante dell’Olocausto, ormai pienamente assorbita dal popolo e dallo Stato di Israele, continua ancora oggi a dare esiti contraddittori. L’opinione pubblica israeliana si barcamena tra l’esigenza di sopravvivere a tutti i costi, il perenne senso di accerchiamento dall’esterno e il timore di agire in maniera contraria ai principi fondativi della storia del popolo ebraico. Ciò può produrre veri e propri cortocircuiti culturali. Basti pensare alle dichiarazioni del 2015 del premier israeliano Benjamin Netanyahu, secondo cui Hitler non avrebbe voluto sterminare gli ebrei, ma fu infine convinto dal Muftì palestinese ad attuare la Soluzione finale. Più recentemente, pur senza affacciarsi alla soglia del revisionismo storico, lo stesso Netanyahu si è servito del palcoscenico del Museo della Shoah per attaccare la mancata presa di posizione internazionale contro l’Iran. Il resto del mondo ancora una volta tergiversa, mentre agli ebrei non rimane che difendersi da soli; questo il contenuto del messaggio del Primo Ministro. Sull’opportunità di certi accostamenti si potrebbe discutere a lungo. Il dato certo è che la Shoah rimane un argomento discorsivo capace di coinvolgere emotivamente le masse; politici e media israeliani (e non solo) ne sono tuttora pienamente consapevoli.


Bibliografia


- Gil, I. (2012). The Shoah In Israeli Collective Memory: Changes In Meanings And Protagonists. Modern Judaism, 32:1.

- Ofer, D. (2013). We Israelis Remember, But How? The Memory of the Holocaust and the Israeli Experience. Israel Studies, 18:2.

- Ravenna, M. (2014). Come pecore al macello? Ebrei nella Shoah e reazioni alla persecuzione. Rivista Internazionale di filosofia e psicologia, 5:1.

- Scigliano, A. (2013). Il processo Eichmann. Il ruolo del diritto nella ridefinizione della memoria e dell’identità nazionale israeliana. Diacronie. Studi di Storia Contemporanea, 14:2.

- Yablonka, H. e Tlamin, M. (2003). The Development of Holocaust Consciousness in Israel: The Nuremberg, Kapos, Kastner, and Eichmann Trials. Israel Studies, 8:3.

- Weitz, Y (1996). The Holocaust on Trial: The Impact of the Kasztner and Eichmann Trials on Israeli Society. Israel Studies, 1:2.

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