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Writer's pictureKoinè Journal

Il sangue dei vincitori

Updated: Jan 21


di Luca Simone.


Parafrasando il titolo di un famoso libro di Giampaolo Pansa, ovvero “Il sangue dei vinti”, mi sono voluto chiedere oggi, 25 aprile 2021, che cosa significhi parlare di Resistenza in Italia. Il suo valore è adeguatamente riconosciuto? Secondo un articolo di Lucia Esposito di Libero, ci troviamo di fronte a “tanta retorica”, e che «la vittoria e la libertà ci vennero donate dalle migliaia di ragazzi americani, inglesi, francesi, canadesi, australiani, brasiliani, neozelandesi, persino indiani, caduti sul fronte italiano». Un intellettuale istrionico e contraddittorio come Curzio Malaparte invece dichiarò a proposito della resistenza a Roma: «Ma i romani, fuorchè quei tre o quattro disgraziati, che avevano fatto esplodere una bomba in via Rasella, non avevan mai fatto nulla che potesse attirar su di loro la furia bestiale dei tedeschi» (Pardini 1998: 354). Come non citare poi l’opera di Giampaolo Pansa, a cui ho quasi rubato il titolo, che vuole dipingere l’intero movimento resistenziale come formato da criminali e assassini. Ma su cosa si poggiano queste idee? C’è qualcosa di vero nello stereotipo del partigiano “combattente inutile”? Hanno fatto tutto gli americani?


Innanzitutto è bene fare chiarezza su cosa sia la Resistenza italiana. Non è mai esistito un movimento partigiano unico. La Resistenza, inquadrabile nel più ampio scenario della lotta partigiana europea al nazifascismo, si è caratterizzata per la presenza la suo interno di varie anime; tutte ispirate dall’idea di abbattere il fascismo e cacciare l’invasore tedesco, ma divise da vari orientamenti politici. Nel Comitato di Liberazione Nazionale, organo supremo che coordinava la maggior parte delle brigate combattenti, convivevano azionisti, monarchici, socialisti, comunisti, liberali, repubblicani, anarchici e cattolici. Combatterono e morirono per lo stesso ideale tutte le anime antifasciste dell’Italia del tempo. Non solo dunque comunisti agli ordini di Togliatti, ma anche inossidabili monarchici, come Felice Cordero di Pamparato, impiccato alle finestre di quel palazzo che a Torino avrebbe poi preso il suo nome di battaglia, Campana. O come Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, responsabile dei primi gruppi partigiani a Roma fin dal ’43, e fucilato alle Fosse Ardeatine il 24 marzo del 1944. Fin dall’8 settembre 1943, vale a dire dopo il proclama Badoglio, iniziò a svilupparsi un primo embrione di resistenza armata alla Wehrmacht, stanziata stabilmente in Italia fin dalla caduta di Mussolini il 25 luglio, poiché diventata sospettosa dell’alleato italiano. Questi primi gruppi si unirono ai combattenti del Regio esercito italiano che tentarono la difesa di Roma e cercarono di resistere, dove possibile, alle soverchianti forze tedesche. In seguito, grazie anche al decisivo supporto degli Alleati, si formarono gruppi via via sempre più consistenti e organizzati, che raccoglievano adesioni da tutti i partiti antifascisti. La consistenza del movimento partigiano è tutt’ora dibattuta: le stime più attendibili vanno da un minimo di 80000 ad un massimo di 200-230000 partigiani combattenti, impegnati in un periodo che va dall’autunno-inverno del 1943, quando i numeri erano certamente più bassi, fino alla primavera del 1945, quando le fila si ingrossarono anche grazie alla caduta ormai imminente delle forze nazifasciste. Morirono più di 45000 combattenti, sia sul campo di battaglia, sia fucilati al termine di processi, il più delle volte sommari, dagli aguzzini nazifascisti.


Questi uomini e donne sono tuttavia accusati da una retorica negazionista e destrorsa, di non aver comunque dato un contributo rilevante alla liberazione dell’Italia. Fa ormai parte della vulgata l’idea che gli americani avrebbero comunque battuto i tedeschi, e addirittura che, se la Resistenza non fosse esistita, ci saremmo risparmiati le stragi nazifasciste. La realtà storica però dice totalmente l’opposto. Paul Ginsborg, nel suo libro “Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi”, citando puntualmente le parole della commissione Hewitt che si espresse sull’argomento, riporta che: «senza le vittorie partigiane non ci sarebbe stata una vittoria alleata così rapida, così schiacciante, così poco dispendiosa» (Ginsborg 1989: 90). Un rapporto dell’OSS loda apertamente il contributo di sangue dato dai partigiani alla liberazione della penisola. Alcuni episodi materiali sembrano poi contraddire ulteriormente questa idea, un esempio è la vicenda della battaglia del Monte Grappa. Alla fine di settembre del 1944 poco più di mille partigiani, impegnarono migliaia di soldati tedeschi e repubblichini, dotati di armamento pesante, distogliendoli dal teatro bellico meridionale, dove sicuramente avrebbero fatto comodo a Kesselring per tamponare l’avanzata Alleata (Collotti 2000: 220). O quando il 15 agosto del 1944, dopo lo sbarco alleato nel Sud della Francia, la brigata di Giustizia e Libertà al comando di Nuto Revelli, tenne impegnata per ben otto giorni la 90° Divisione Panzergranadier, inviata a tamponare con la massima urgenza l’avanzata anglo-americana. Un ritardo che si dimostrerà fatale secondo gli stessi bollettini dell’OKW. Le evidenze storiche dimostrano che il movimento partigiano italiano fu secondo per numeri ed efficacia soltanto a quello jugoslavo; stime al ribasso ritengono che vennero impegnate ben cinque o sei divisioni della Wehrmacht, su un totale di 17-19 schierate nella penisola, assieme alla totalità delle unità dell’RSI, per la repressione della lotta partigiana. Si tratta di circa 80-100000 soldati tedeschi e quasi il doppio di soldati repubblichini. Alcune unità di élite come la Divisione Hermann Goring, o la Divisione di Cosacchi della Carnia, nonché la Divisione Azul formata da franchisti spagnoli vennero impegnate per tener testa alla Resistenza (Collotti 2000: 225). Lo stesso Feldmaresciallo Kesselring, comandante supremo della Wehrmacht sul fronte italiano, nelle sue memorie conferma quanto i partigiani italiani fossero stati una spina nel fianco per l’esercito tedesco. «La guerra partigiana fu una seria minaccia per le nostre operazioni militari. Era fondamentale eliminarla al più presto. (…) Tra il giugno e l’agosto del ’44, le stime ufficiali dei miei sottoposti parlavano di 5-7000 soldati tedeschi morti e almeno 25000 feriti per mano dei partigiani» (Kesselring 1954: 272). Furono adottate tutte le misure necessarie per liberarsi di un nemico temibile a quanto pare. Lo stesso comandante tedesco non esita a ricordare di aver ordinato che venissero utilizzate tutte le armi normalmente adoperate al fronte, come lanciafiamme, artiglieria e unità corazzate. Era necessario aver ragione dei partigiani, viste le spaventose perdite che a detta sua stavano subendo i soldati tedeschi.


Non è pensabile poi addebitare alla Resistenza le stragi nazifasciste ai danni della popolazione civile. Bisogna infatti ricordare che era prassi consolidata della Wehrmacht procedere con la massima durezza, come era già stato fatto sul Fronte Orientale e in Francia. La paura avrebbe dovuto tenere in riga la popolazione. Si parla a tutti gli effetti di “guerra ai civili” (Collotti 2000: 256), studiata per privare gli eventuali movimenti resistenziali del supporto, ancora prima che questi fossero effettivamente formati. Lo stesso mito delle Fosse Ardeatine, secondo cui la strage si sarebbe potuta evitare se i responsabili avessero seguito le direttive dei comandi tedeschi di consegnarsi, è in realtà un falso. L’eccidio venne commesso in totale segretezza il 24 marzo 1944, un giorno dopo l’attentato, e soltanto il 25 venne pubblicato il comunicato che recitava: «Il Comando tedesco è deciso a stroncare l'attività di questi banditi scellerati [il riferimento è all'attacco partigiano in via Rasella, n.d.e.]. Nessuno dovrà sabotare impunemente la cooperazione italo-tedesca nuovamente affermata. Il Comando tedesco, perciò, ha ordinato che per ogni tedesco assassinato, dieci criminali comunisti-badogliani saranno fucilati. Quest'ordine è già stato eseguito». Non venne mai proposto dunque ai partigiani di consegnarsi. Il 17 giugno del 1944 Kesselring, ormai evidentemente preoccupato dall’andamento delle operazioni militari, emise un ordine che recitava testualmente: «La lotta contro le bande deve essere condotta perciò con tutti i mezzi a disposizione con la massima asprezza. Io coprirò ogni comandante che nella scelta ed asprezza del mezzo vada oltre la misura a noi di solito riservata» (Bocca 1966: 283). Venne data in sostanza carta bianca dall’OKW per l’utilizzo sistematico della rappresaglia come arma per contrastare la lotta partigiana.


Questo articolo non vuole tessere faziosamente le lodi della Resistenza, né tantomeno bistrattare i morti tedeschi, repubblichini o addirittura quelli dello stesso Corpo di Liberazione, formato dai militari del Regio Esercito. Ma vuole contrastare storicamente un mito, falso, ormai profondamente radicato, che tende a svalutare un episodio di grande valore a cui ha partecipato una larga fetta della popolazione civile. Un episodio, che non dimentichiamoci, è il fondamento della nostra Repubblica. De Gasperi, uno dei più grandi statisti della storia del Novecento, ebbe a ricordare alla Conferenza di Parigi del 1946, che l’Italia aveva pagato un tributo di sangue altissimo per la sua liberazione, a cui aveva attivamente partecipato, e che questo doveva essere ricordato e celebrato con orgoglio. Si era salvato l’onore di una nazione. Una nazione che aveva conosciuto il fascismo, la dittatura, la guerra e lo sterminio, ma che ora poteva camminare a testa alta grazie ai suoi morti. La Costituzione è stata firmata dai dirigenti dei partiti antifascisti, gli stessi partiti che avevano come braccio armato le brigate partigiane che hanno versato il loro sangue sul campo di battaglia, dalla Sicilia fino al Carso. Il valore non solo politico, ma storico e soprattutto militare di un tale fenomeno, sembra essere stato riconosciuto ormai da tutti fuorché da noi. Noi che ne abbiamo beneficiato. Noi che siamo i figli e i nipoti di quei partigiani. La storiografia ha tentato più volte di modellare tali avvenimenti a favore dell’una o dell’altra parte politica, favorendo l’idea che forse una verità fosse impossibile da trovare, e che la memoria individuale fosse più forte dei fatti. Così non è e non deve essere. La Storia è composta di avvenimenti, fatti e dati. Ed esistono anche su questo argomento. Questi ne erano alcuni.




Bibliografia

-Pardini, G. (1998) Curzio Malaparte, biografia politica. Milano, Luni.

-Pansa, G. (2003) Il sangue dei vinti. Milano, Sperling & Kupfer.

-Collotti, E. (2000) Dizionario della Resistenza. Torino, Einaudi.

-Bocca, G (1966) Storia dell’Italia partigiana. Milano, Mondadori

-Battaglia, R (1964) Storia della Resistenza italiana. Torino, Einaudi.

-Longo, L (1964) Un popolo alla macchia. Roma, Editori Riuniti.

-Pavone, C (1991) Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza. Torino, Bollati Borlinghieri.

-Ginsborg, P (1989) Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi.Torino, Einaudi.

-Kesselring, A (1954) Kesselring, a soldier’s record. New York, William Morrow & Company.

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9 Comments


Rossana Mazzi
Rossana Mazzi
May 14, 2021

Articolo molto interessante e scritto in modo completament

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Anna Tolli
Anna Tolli
Apr 28, 2021

Sono sorpresa (ma non molto, purtroppo) che ancora oggi a quasi ottanta anni dalla fine del conflitto si debba ancora spiegare il ruolo determinante avuto dalla Resistenza nel processo di liberazione. Ringrazio Luca Luca Simone che, utilizzando alcuni dei molti documenti storici, riesce a confutare le sterili (ma pericolose) argomentazioni (farneticazioni) di revisionisti nostrani sempre in agguato.

La verità non è opinabile...

Grazie

Anna Tolli


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Florinda Gidiuli
Florinda Gidiuli
Apr 27, 2021

Complimenti!!!!!!!!


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Francesco Div
Francesco Div
Apr 27, 2021

Complimenti. Molto interessante. Ben scritto.

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Tommaso Colelli
Tommaso Colelli
Apr 26, 2021

Lavoro ben fatto e ben documentato. Complimenti agli autori.

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