di Enrico Martinelli.
Negli anni 2000 il regista originario di Hong Kong, Wong Kar-wai ha scelto di regalare l’ennesimo tributo alla sua amata città natale, descrivendola nel periodo di transizione degli anni ‘60, quando tradizione e modernità si sono incontrate – o forse scontrate.
In questo tempo di cambiamento, la trasformazione della città farà da sfondo ad una storia d’amore che vorrebbe essere la più semplice di questo genere; ma il razionalismo della vita moderna farà mutare i sentimenti dei protagonisti regalandoci un finale tanto inaspettato quanto iconico.
Fra le claustrofobiche stanze di un affollato palazzo nel cuore della città conosciamo i due protagonisti, che si incontrano per la prima volta fra il caos dei traslochi nei loro nuovi appartamenti.
Il signor Chow (Tony Leung) e la signora Chan (Maggie Cheung) si sono trasferiti entrambi da Shangai con i loro rispettivi coniugi, in cerca di lavoro nella fiorente città di Hong Kong. Le loro vite si intersecano spesso nelle situazioni quotidiane in particolare nello stretto corridoio che ospita le porte dei rispettivi appartamenti.
Il loro rapporto rimane formale fin quando scoprono che i rispettivi coniugi hanno una relazione clandestina. Rassegnati alla notizia, i due iniziano a frequentarsi instaurando un amore platonico, bloccato in parte dalle convenzioni sociali dell’epoca, ed in parte dalla loro morale che non vuole metterli al pari dei propri coniugi fedifraghi. Si scambiano solo brevi sguardi e parole piene di significato, esprimendo la profonda connessione che provano l'uno per l'altra, rassegnati a vivere intensamente quei brevi momenti di effimera felicità.
Questo viaggio di novantotto minuti potrebbe basarsi su un singolo concetto: il minimalismo.
Lo era sicuramente il copione dato agli attori, che spesso descriveva soltanto come doveva svolgersi la scena ma non includeva alcuna battuta, stava poi agli interpreti comprendere le emozioni dei personaggi ed esporle con le parole che più ritenevano adatte.
Anche la presenza – o meglio l’assenza – di alcuni precisi personaggi rispecchia questo mantra: per l’intero film, infatti, non vengono mostrati i volti dei coniugi dei protagonisti. Forse perché la loro presenza nella sceneggiatura avrebbe soltanto distratto gli spettatori dal concentrarsi sul mutamento delle emozioni che la signora Chan o il signor Chow esprimevano parlando con loro prima e dopo la scoperta del tradimento.
La regia è appositamente lenta ed elegante, le riprese dilatate e le sequenze silenziose allungano il tempo sullo schermo, creando un senso di sospensione e malinconia. Ciò contribuisce a trasmettere la sensazione di attesa e desiderio che i personaggi provano nel corso degli anni.
Il tratto indistinguibile del regista si nota anche nell’eleganza con cui descrive i personaggi creati: la signora Chan si muove fra le caotiche vie della città mantenendo una signorilità ereditata forse dalle geishe giapponesi, complici anche gli elegantissimi vestiti indossati, e le inquadrature cariche di erotismo ai pochi lembi di pelle scoperti.
Le emozioni trasmesse dalla trama non sono dovute soltanto alla bravura degli attori, ma anche ai vari simbolismi ricorrenti scelti dal regista: il colore rosso, ad esempio, è un elemento chiave che rimane sullo schermo per quasi l’intera durata del film. Lo vediamo nei vestiti, nei tendaggi e nelle luci delle tipiche lampade, e la scelta non è stata casuale: sicuramente è il colore che meglio si associa al sentimento dell’amore e della passione, creando un’atmosfera sensuale. Tuttavia, potrebbe suggerire anche il suo opposto: ovvero la passione che i protagonisti non proveranno mai a causa della loro frustrazione e dei sensi di colpa, rimanendo così impresso in ogni dettaglio scenografico, ma mai nelle loro menti.
L’intero racconto ha uno stretto rapporto con il tema del tempo, da ritrovarsi innanzitutto nel titolo originario, “Fa yeung nin wa", tradotto come "Il tempo dell'amore", per sottolineare quanto questi sentimenti possano sbocciare in qualsiasi momento o circostanza della vita, portando trasformazioni importanti ed inattese, come quelle che vediamo nel film.
A subire queste trasformazioni non è soltanto il rapporto fra i protagonisti, bensì l’intera città, sussurrando fin dall’inizio che, come lei, la storia che seguiremo non sarà statica o scontata. Il regista ha scelto di raccontare come la rivoluzione tecnologica abbia impattato la vita degli abitanti inserendo osservazioni e battute dette da personaggi secondari, come l’incredulità verso una pentola per il riso capace di cuocerlo in pochissimi minuti, oppure lo stupore per le prime televisioni in casa.
Tuttavia, ad opporsi alla rapidità con cui la globalizzazione sta conquistando Hong Kong, ci sono le antiche tradizioni su cui il paese era fondato, come il mito della famiglia patriarcale, che permette agli inquilini del palazzo di giudicare negativamente la Signora Chan solo perché si mostra in pubblico con un uomo che non sia suo marito, piuttosto che il marito stesso, anche se questo rivelasse a tutti la sua relazione segreta.
“La signora Chan è in piedi guardando una combattuta partita di mahjong ma in realtà è da qualche altra parte. Si gira e va verso una finestra. La telecamera si alza lentamente, esaminandola mentre fissa lo sguardo in lontananza. L'iconico valzer di Shigeru Umebayashi suona per l’ennesima volta. Sorseggia un bicchiere d'acqua, poi fa una pausa, lascia il bicchiere tra le labbra. La telecamera smette di muoversi. I suoi occhi si spostano leggermente, la sua espressione si addolcisce. Poi si acciglia, abbassa il bicchiere e si gira dall'altra parte.”
Questa è un’altra scena di silenzio in un film che ne è stracolmo, eppure quando la si nota rimane impressa più di altre. Ragionando sul perché sono arrivato alla mia personale conclusione: lo sguardo della protagonista fuori dalla finestra non è diretto a qualcosa nello spazio, ma nel tempo. Possiamo quasi vedere riflessi nei suoi occhi i vari epiloghi che sta immaginando per la propria storia, dalla relazione con il signor Chow fino al possibile ritorno del marito.
Ma d’altronde non possiamo sapere quale di questi si avvererà senza vedere i minuti restanti alla fine del film, proprio come lei è costretta a vivere nell’angoscia finché uno di questi finali si avvererà.
Dopo essere stati intrappolati anche noi nel vortice emotivo di Chow e Su, ci confrontiamo con un finale che lascia più domande che risposte: dai destini dei protagonisti lasciati in sospeso possiamo trarne solo un senso di malinconia e il desiderio di saperne di più. Ma forse, proprio in questa mancanza di risposte definitive, risiede la forza del film: ci costringe a riflettere sul potere dell'amore incondizionato, sulla fragilità delle relazioni umane e sull'imprevedibilità del destino. Ci invita a immaginare i possibili scenari e ad esplorare le emozioni che si celano dietro quel finale aperto.
"In the Mood for Love" è un film che rimane con noi, che ci insegue anche dopo averlo visto. È un'opera d'arte che ci sfida a riempire gli spazi vuoti con la nostra immaginazione e a riflettere sulle infinite possibilità che la vita ci riserva.
Nel complesso, è un film che merita di essere visto e discusso, poiché ci ricorda che anche nei momenti di incertezza e di ambiguità, l’amore e le connessioni umane rimangono fonti di speranza e di bellezza.
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