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  • Writer's pictureKoinè Journal

Koinè Reportage: Gli affitti costano troppo, ca**o. (pt. 3)


di Luca Simone.


La scorsa settimana ho avuto la possibilità di assistere all’inizio della seconda ondata della protesta delle tende, lanciata in tutta Italia da migliaia di studenti che invocano un trattamento giusto, una dignità adeguata e la possibilità di poter studiare e vivere senza dover essere gettati in un’arena sociale ingiusta e predatoria. Perché questo è diventata l’università italiana, un sadico esperimento in vitro di darwinismo sociale, dove sopravvivono solo quelli forti, o quelli che lo diventano grazie ai soldi dei padri. Ho scelto di raccontarli attraverso un reportage che non esce fuori né dalla testa né dal cuore, ma dalle budella, e allo stesso modo ho scelto di utilizzare in ogni puntata le foto più rappresentative. Spero mi si perdonerà il fatto che siano state scattate non nell’arco dell’intero soggiorno ma in un periodo di tempo più ristretto. Ricordatevi però che ogni foto ha dietro di sé una storia, indipendentemente da quando essa è stata scattata.


PARTE TERZA

FINE


Il pomeriggio si avvicina di soppiatto nelle lunghe giornate passate sul cemento di Piazzale Moro. Non c’è alcun modo per rendersi conto dell’orario quando hai il sole che ti sbatte in faccia e ti schiaffeggia violentemente in un fine settembre che di autunnale non ha nulla. Tutti compiono in maniera ostinata e contraria un destino da animale a sangue freddo, spostandosi alla ricerca disperata di un cono d’ombra, di un riparo, di un alito di oscurità, purtroppo senza successo. Decidono quindi di fare la loro riunione in mezzo al piazzale, dopo aver spostato le “case” che hanno scelto, ma non quelle che volevano, né tantomeno meritavano. Io non voglio disturbare, e me ne sto ai margini di questo circolo umano, seduto sotto ad un albero vecchio e stanco che mi getta addosso un po’ di sollievo. Sono tutti e tutte molto carichi, la prima parte del loro incontro se ne va tra racconti, aneddoti e qualche battuta idiota, di quelle che ti strappano un sorriso a mezza bocca di cui bisogna vergognarsi subito dopo. Ma hanno vent’anni, e non gli si può chiedere di non essere anche un po’ idioti, di quell’idiozia che serve a ricordarci che siamo vivi, di quell’idiozia che serve a ricordarci che siamo umani. Mentre osservo questa scena, e li sento oscillare con un’eleganza retorica che ammiro da discorsi seri a discorsi meno seri, l’unica cosa a cui riesco a pensare è una frase dell’anarchico russo Alekseevic Kropotkin, che diceva: “se riuscissimo a metterci nei panni degli altri, tanto da sentire gli altri come se fossimo noi, non avremmo più bisogno di regole, di leggi.” Se chi li odia, chi li deride, riuscisse a mettersi anche solo per un momento in quei panni colorati e sudati, se provasse per un attimo solo a pensare come loro, se si ricordasse di essere stato così, di aver avuto gli stessi pensieri, di aver detto le stesse cazzate, forse il problema potrebbe risolversi. Forse.


All’assemblea si è discusso di vari temi, ma quello che li ha preoccupati di più è stato quello che riguardava il come aumentare la propria risonanza mediatica coinvolgendo più studenti e studentesse possibile. Parlare di questa cosa li ha innervositi, almeno la maggior parte di loro. I più “vecchi” e duri, quelli più materialisti, sapevano bene di doversi confrontare con questi problemi, ma quelli più acerbi si chiedono solo come mai per il popolo della Sapienza non sia un riflesso condizionato quello di recarsi alle tende. Parlandone in molti e molte di loro si dipinge in faccia una smorfia preoccupazione, quasi di fastidio, e li capisco, li comprendo. Ma coinvolgere non è facile. Riuscire a trasmettere un messaggio, per di più senza mezzi, con la sola forza di volontà di mettersi in gioco piantando una tenda in mezzo ad una strada, in un mondo come quello di oggi non basta. E forse non è mai bastato in nessun mondo. Le persone si coinvolgono con l’ascolto, con la creazione di un legame umano empatico, con la prospettiva di farle sentire coinvolte in qualcosa di più grande di loro, di un’idea. Hanno la possibilità di fare tutto ciò, io lo so, loro lo sanno. E mentre mi appunto queste cose sul taccuino rosso, e il sole picchia indistintamente sulle loro facce e sulla mia, so che ce la faranno. So che ci riusciranno. È un presentimento, uno di quei brividi neuronali che ti colpiscono in un momento di riflessione, di quelli che hanno il sapore di una madeleine di Proust, come se già sapessi, come se fosse ovvio.


Decidono di organizzare un aperitivo improvvisato per la fine delle lezioni. Qualche birra calda scadente, qualche tavolino da campeggio per giocare a carte o a qualche altro gioco da tavolo. Mentre mi aggiro sul set di quello che sarà un piccolo banco di prova mi imbatto in un ragazzone alto coi capelli neri, che sta riordinando i suoi appunti appoggiato sul parapetto di quella dannata fontana che ho imparato ad odiare. Così costante nel suo rumore da sembrarmi imperitura. Così irrispettosa e glaciale nel sembrare immortale. Mi avvicino a lui e gli chiedo il suo nome, iniziamo a parlare un po’. Gli chiedo perché lui sia qui, non lo avevo mai visto nei giorni precedenti. Mi racconta di venire da Marino, uno dei Castelli Romani che abbracciano l’immensità della Capitale e vegliano sulle sue mille incongruenze dall’alto di qualche montagna troppo bassa per essere chiamata tale. Mi racconta di essersi unito alla protesta perché vive la dura situazione del pendolare, dato che non è riuscito a trovare un buco che riuscisse ad essere alla portata economica della sua famiglia. Ma nonostante questo non ha voluto rinunciare agli studi, ed è per questo che non potendosi permettere di dormire in tenda, decide di portare il suo contributo giornaliero mettendosi in un angolo dell’accampamento a studiare. Mentre mi dice questo io cerco di memorizzare ogni particolare di un discorso che mi sta mettendo emotivamente alle corde. Proprio nel momento in cui faccio per congedarmi, lui conclude dicendo: “Io però sono fortunato. Devo viaggiare tanto, ed è molto difficile conciliare lo studio con questo tipo di vita, però posso permettermi di fare ciò che sogno, pur dovendo fare una fatica che non penso di meritare”. Gianluca, questo è il suo nome, si sente fortunato. Io rimango basito. Non so cosa rispondere. So solo che mi rimbombano nella testa una serie di frasi che purtroppo ho dovuto ascoltare a maggio, e mi sale la nausea.


Sul grande tavolo sotto al gazebo che funge da “reception” per tutti coloro che vogliono fermarsi a bere qualcosa o anche solo a fare quattro chiacchiere c’è un grande scatolone rosso scuro con un buco sul coperchio. È la “cassa” che viene utilizzata per le donazioni. Quella fessura rappresenta per me e per loro una sorta di finestra sul mondo, perché dal riempimento o meno di quel vecchio scatolone dipende la sopravvivenza della protesta. Una sopravvivenza non economica, perché non è sui soldi che si fonda una protesta, ma una sopravvivenza ideale. Non conta quanto sia cospicua la donazione, conta che venga fatta. È il gesto di inserire anche la più piccola delle monete che è simbolico. Rappresenta la volontà di supportare, la volontà di comunicare una propria vicinanza. Mentre rifletto su questo nella calca di persone che hanno assediato l’iniziativa, il mio sguardo si posa su una vecchietta. È vestita in modo elegante, di quell’eleganza fatta di vestiti tenuti conservati negli armadi in appositi sacchetti di plastica per tenerli sempiternamente eleganti e di gioielli di un’epoca passata riposti in scompartimenti segreti della propria stanza da letto. Come solo le nonne sanno fare, compresa la mia. La signora si avvicina con fare schivo illuminata da una luce rosata e violacea tipica dei tramonti, anche quello romano, probabilmente si sta recando alla laurea di una qualche nipote o di un qualche nipote che ha cresciuto come, e forse meglio, della propria progenie, e che ama come solo chi sa di avere poco tempo rimasto sa amare. Mentre cerca di leggere i vari cartelli attaccati ai sostegni del gazebo con il fare incerto di chi non ha più gli occhi buoni per maneggiare un libro si accorge della scatola. Non serve leggerne l’indicazione alla donazione per capire che in quel grande involucro di cartone pressato sta il futuro della protesta e, forse, di una generazione. Ci guardiamo fissamente per qualche secondo, entrambi per cercare di carpire i pensieri dell’altro, in un bonario duello di sguardi da cui non deve uscire nessun vincitore. Non saprò mai il nome di quella signora e lei non saprà il mio, ma mi ricorderò sempre del suo vestito verde, dei suoi orecchini degli anni Sessanta e della frase che ha detto mettendo qualche moneta pesante nella scatola: “Regazzì, io la notte vojo anna a dormì co la coscienza pulita. Daje tutta”. Daje tutta.


Per me quella sarebbe stata l’ultima sera, poi sarei tornato alla mia vita normale, e mi sarei lasciato alle spalle tutta questa esperienza. Questo è almeno quello che ho pensato finchè non sono entrato a far parte di un microcosmo che dovevo capire per poter raccontare, dal quale dovevo farmi coinvolgere per poter sentire. Quello che questa esperienza mi ha lasciato, e la cui condivisione mi auguro possa essere d’aiuto a qualcuno, è che non serve nulla per provare a cambiare le cose oltre ad un pizzico di incoscienza. Bastano una decina di tende e qualche decina di ragazzi e ragazze con un sorriso stampato in faccia per mettere in crisi la più grande università d’Europa. Questo è tutto. Non servono grandi proclami o grandi conclusioni. Questo reportage era un racconto di ciò che ho visto e vissuto, e il racconto è finito. Ma la battaglia no. E non dovrà finire finchè non si otterrà un risultato tangibile. Potranno cambiare i modi con cui verrà portata avanti, si potrà passare dal cemento di Piazzale Moro ai marmi del Parlamento, ma la richiesta di dignità per milioni di ragazze e ragazze che chiedono un tetto sopra la propria testa non si esaurirà. E sta a me, a noi, a voi non farla esaurire. Perché hanno ragione. E chi ha ragione prima o poi ha sempre l’ultima parola.





GALLERIA FOTOGRAFICA

Il punto della situazione.


Preparativi.


Un risultato mediatico.


Riflessione.


Daje tutta.



Le foto migliori non sono state scattate da me, mentre mi prendo la responsabilità di quelle più sgangherate e peggio illuminate. Spero di essere più bravo a tenere in mano una penna di una macchinetta fotografica. Per tutte le altre immagini venute bene, ringrazio di cuore Ginevra.

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