di Stefania Chiappetta.
Lo scorso settembre L’esorcista (William Friedkin, 1973) è riapprodato, in alcune sale selezionate, nella nuova versione Director’s Cut 4K, a ben 50 anni dalla sua uscita. Il film più spaventoso di sempre, recitava la frase del poster promozionale per l’uscita evento di soli tre giorni, volta a ricalcare la fama della pellicola. Il film di Friedkin non solo segnò una intera generazione di spettatori, ma cambiò anche il modo di percepire l’intero genere d’appartenenza.
L’horror infatti, che al suo interno raccoglie diverse varianti come quella più conosciuta dello slasher movie, dimostrò quanto l’occhio meccanico della macchina da presa fosse in grado di spingersi oltre. Il 26 dicembre del 1973, nelle sale cinematografiche, non c’era più solo la classica battaglia tra bene e male, tra sacro e profano, ma si sceglieva consapevolmente di attaccare il corpo di una ragazzina di 13 anni: Regan. Sotto una quantità di bile verde, ferite infette ed urina, la minaccia arcaica riportata alla luce nel prologo del film, si univa alla vita quotidiana dei personaggi protagonisti. Questo elemento narrativo, sebbene sia il motore ricorrente di ogni storia dell’orrore conosciuta, compiva però un ulteriore passo in avanti. Unendo la possessione demoniaca ad un corpo in fase di crescita, come quello di Regan, si segnava l’entrata del male nell’età adolescenziale, in particolare nelle donne, creando così uno dei sottotesti teorici più discussi dell’intero genere: quello di una mostruosità insita nel femmineo.
Da lì in poi sempre più attrici cominceranno a diventare il volto stesso dei film horror, le così dette scream queens, usate sia come capro espiatorio per la comparsa del male, sia come eroine prescelte per combatterlo. Non a caso, sebbene il demone Pazuzu venga indebolito dalla presenza di due uomini di chiesa, non sarà certo la loro figura a restare impressa nel tempo. Lo saranno invece Linda Blaire ed Ellen Burstyn, rispettivamente Regan e sua madre, ritagliandosi un posto nella storia cinematografica. La presenza di un prete esorcista, nel corso degli anni, è divenuta portatrice di diverse imitazioni relegandola ad idea generica, a discapito dell’intenzione originaria. La ragazzina legata al letto, con i capelli scompigliati e la camicia da notte, resta invece un feticcio facilmente riconoscibile, come il suo stesso nome. Stessa sorte che tocca a sua madre, l’attrice Cris MacNeil che con la sua fama ed il suo carattere forte ed indipendente, nella diegesi filmica diventa pilastro del microcosmo familiare.
Il film sebbene, tratto dall’omonimo romanzo di William Peter Blatty -che ne curò anche la sceneggiatura- si adattò senza troppi sforzi alla versione cinematografica, rendendo il mezzo mediale fautore di una visione complessiva più profonda per l’opera. L’attenzione al mondo cinematografico, infatti, viene ben evidenziata all’interno della narrazione, proposto sotto il suo duplice aspetto: lo ritroviamo come lavoro per la famiglia MacNeil, poi come puro piacere cinefilo, ricalcato dal corpo di padre Damien e dall’agente di polizia. Ed è proprio con la parabola cinematografica che l’orrore sconfinato della messa in scena prende forma, diventando un monito per lo spettatore.
La blasfemia, il peccato, la carnalità sono elementi che la possessione porta con sé, con la differenza che ora non sono più parole stampate, ma diventano immagini su cellulosa. Esse, unendosi alla regia, alla recitazione, alla colonna sonora, diventano visibili, credibili, fuoriuscendo dall’immaginifico letterario. È come se il cinema stesso, attraverso la regia di Friedkin, ci avesse fornito un biglietto per prendere parte ad orrori indicibili, verso cui il nostro occhio si ritrae spaventato, eppure con la voglia di continuare a guardare. Da ciò deriva il cambio di prospettiva del genere horror, avvicinandosi sempre più al cinema moderno della nuova Hollywood.
Non stupisce che, una pellicola di questa portata, abbia avuto numerosi tentativi di espansione narrativa, come il sequel L’esorcista II – L’eretico (John Boorman, 1977), o le versioni parodistiche che offrivano uno spunto comico alla vicenda originale. D’altronde, buona parte delle pellicole del genere, nascono con l’intendo di diventare fortunate saghe cinematografiche, volte non solo ad espandere l’ecosistema narrativo, ma a generare un sicuro successo alla casa di produzione. Per la pellicola in questione, nonostante gli sforzi produttivi, la sua personale maledizione sembra essere quella di restare isolata, inarrivabile.
I numerosi tentativi di espansione non solo hanno prodotto film considerati flop al botteghino, ma hanno riscosso numerose critiche negative che, con il tempo, hanno segnato in negativo ogni tentativo di produzione di un franchise mediale consistente. Si provò quindi con l’espansione su piccolo schermo nel 2016, creando la serie tv The Exorcist prodotta dalla Fox Television. L’idea, che nasceva in un periodo di profondo mutamento della serialità contemporanea, non riuscì ad imporsi al grande pubblico, finendo per essere cancellata dopo due sole stagioni a causa della fusione della Fox con la Disney.
Eppure nell’anno del 50esimo anniversario, posizionato sapientemente nel mese di ottobre, ecco arrivare il nuovo film L’esorcista – Il Credente, diretto da David Gordon Green, famoso per aver ripreso in mano con una nuova trilogia il film Halloween (John Carpenter, 1978). Il film, si pone come sequel diretto dell’originale di Friedkin, vantando nel cast il ritorno di Ellen Burstyn nei panni di Cris MacNeil. L’intento registico tuttavia, sembra adattarsi a cliché narrativi che non appartengono alla forma originale della pellicola.
L’elemento sovrannaturale non sembra trovare, in questa nuova visione contemporanea, una sua iconografia caratteristica, come pure Friedkin era sapientemente riuscito a creare, sfociando in una minaccia che perde di visibilità. Il male arcaico a cui si fa riferimento, che nel 73’ occupava il corpo di Regan dando l’impressione di insediarsi nella vita reale, appare privo di radici proprie nonostante il richiamo diretto all’originale. Il ritorno del personaggio iconico di Cris MacNeil, sfruttato quasi come una final girl prescelta per liberare dal demone -elemento ricorrente nel citato slasher movie- genera uno scollamento nell’ecosistema filmico, posizionandosi al di fuori del genere d’appartenenza: l’horror sovrannaturale.
Nella versione di Gordon Green, come in tutte le altre che l’hanno preceduta, quello che sembra mancare è la comprensione in forma cinematografica dell’opera d’appartenenza, creando un vuoto che è prettamente visivo. In cui si produce una messa in scena che non si conforma, ma si sovrappone alla capacità della pellicola originale di sfidare i limiti della trasparenza dell’immagine -e dell’immaginario- nonché dell’orrore generato dalla stessa.
Tornando alla maledizione che, alla pari di una leggenda metropolitana, sembra essere legata a L’esorcista di Friedkin, essa non può che rispondere alla capacità del prodotto filmico di essere esso stesso blasfemo, peccaminoso, fantasmatico. Capacità che, inglobata nella produttività affannosa del franchise mediale, incapace d’apparire nella forma iconografica prescelta, torna all’originale di partenza, al 1973. Respinti da un’immagine che manca del concetto stesso di orrorifico, torniamo alla vista di Regan, alla bile verde, alla sozzura del corpo. Torniamo alla scritta che appare sulla sua carne dall’interno, testimoni di una doppia esistenza che solo il cinema, nella sua forma, è capace di svelare.
Image Copyright: Cineblog
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