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La 194 non è garanzia di alcun diritto

Updated: May 17, 2022


di Luca Simone


Una nuova intervista di Koinè Journal curata dal direttore Luca Simone che discute con Vittoria Loffi, di “Libera di Abortire”, da mesi in prima linea per garantire alle donne l’accesso ad un sacrosanto diritto, quello di abortire. Da qualche settimana è disponibile un documentario realizzato dall'emittente Al Jazeera che racconta l’agghiacciante vicenda del cimitero dei feti che ha visto coinvolta in prima persona Francesca Tolino, ora volto di questa campagna. Trovate qui il link.

L’Italia è paralizzata dalla legge 194, vecchia ormai di decenni, vista come l’espressione ormai consolidata di un diritto garantito, ma così non è. In Italia l’aborto non è ancora un diritto. Scopriamo perché.


Inizierei chiedendoti di raccontare la vicenda della sepoltura dei feti che ha coinvolto il Cimitero Flaminio di Roma. Una storia che avete deciso di riassumere nel vostro bellissimo documentario, in collaborazione con l’emittente internazionale Al Jazeera. Spiegheresti la situazione che si è venuta a creare?

Il ‘cimitero dei feti’ al Flaminio di Prima Porta è stato scoperto per la prima volta da Marta Loi, che è subito intervenuta denunciando il fatto con un post Facebook. Lei, come altre duecento donne, non era stata informata dalla struttura romana presso la quale aveva abortito su quale sarebbe stata la destinazione del materiale biologico. Semplicemente, nel cimitero, ha trovato il proprio nome e cognome su di una targa, una croce. Un ritrovamento che evocava un po’ l’idea che la donna stessa fosse stata sepolta lì. Sulle varie croci erano riportate o la data dell’aborto, presa dalla scheda sanitaria della donna, o la data della sepoltura del feto. Questo modus operandi riguardava tutti i feti abortiti tra le 20 e le 24 settimane. Sebbene il Regolamento di polizia cimiteriale e mortuaria (stabilito con decreto presidenziale negli anni ’90) predisponga che a seguito della richiesta dei genitori la stessa procedura possa essere portata avanti anche prima delle 20 settimane, in realtà la comunicazione della famiglia non è mai avvenuta per i ritrovamenti del Flaminio. Né richieste di sepoltura sono state fatte delle singole donne. Potenzialmente, quindi, tutti gli aborti, in qualsiasi momento d’interruzione della gravidanza, avrebbero subito questa sorte.

Chi si occupa di queste sepolture? E soprattutto, a quale titolo? Il percorso parte dall’azienda ospedaliera. Ad esempio, nel caso di Francesca Tolino (testimonial della campagna ‘Libera di Abortire’ e principale soggetto con cui è stata portata avanti la campagna civile contro il comune di Roma), l’aborto era avvenuto presso l’azienda ospedaliera di San Giovanni Addolorata a Roma. Senza il suo consenso, e soprattutto senza neanche informarla, la struttura aveva predisposto la sepoltura del feto passando per l’ASL di competenza Roma1, la quale aveva poi autorizzato il seppellimento da parte di AMA, l’organo che si occupa dei rifiuti e della manutenzione cimiteriale.

Il giorno dopo l’uscita del nostro documentario su Al Jazeera, i giornalisti di Open si sono recati sul posto, facendo foto ed intervistando gli operatori AMA, i quali stavano cancellando i nomi impressi sulle croci con una spugnetta. Tra l’altro, una cancellazione mal fatta. Siamo infatti tornati lo scorso dicembre per nuove riprese, e le scritte erano ancora visibili. Di mezzo c’era stata una delibera del Consiglio comunale di Roma, che aveva imposto la rimozione di nome e cognome dai luoghi di sepoltura per la tutela della privacy della donna. La delibera, seppur non chiaramente, imponeva la sostituzione della targhetta; AMA ha invece agito un po’ di propria iniziativa, sostituendo le vecchie croci in legno, se marce, con una nuova in ferro, sulla quale non era riportato alcun riferimento alla persona. Per quanto fosse stato apparentemente tutto risolto, la cosa gravosa è che la vecchia targhetta non era stata buttata una volta rimossa, ma lasciata a terra, vicino alla croce su cui era esposta. In altri casi, invece, dove era stato usato un semplice pennarello si era fatto ricorso ad una spugnetta per cancellare qualsiasi riferimento. Ma sotto, un po’ sbiaditi, si vedono ancora nome, cognome e numero associato alla singola pratica d’aborto. Il problema nasce dal Regolamento di polizia cimiteriale e mortuaria. Esso stabilisce che «la donna, o chi per essi, autorizzi il seppellimento». Ma il «chi per essi», anziché essere direttamente riferito ai parenti della donna, è stato ritenuto indicasse chiunque, anche l’azienda ospedaliera, rendendo così possibile quanto accaduto al Flaminio.

Questa pratica lede in maniera vergognosa la privacy di chi decide di abortire. L’aborto, oltre che una scelta, è in primis un diritto. Quale pensi sia la situazione in Italia, da un punto di vista culturale, sul tema?

Il problema è certamente culturale, ma nasce ancor prima da una questione legislativa. Mentre le nuove generazioni hanno introiettato l’idea che l’aborto sia a tutti gli effetti un diritto, la legge 194 purtroppo questo diritto non lo crea. Prima del 1978 l’aborto era una pratica criminale. La 194 ha solo decriminalizzato la procedura, ma fondamentalmente non ha eliminato il divieto, finendo così per autorizzare tutte le violazioni degli ultimi 44 anni. Spesso abbiamo anche ironicamente avanzato l’idea che, per nostra fortuna, la 194 non venga seguita lettera per lettera, altrimenti una donna, in quanto tale, non avrebbe affatto diritto ad abortire. Sono state poi stilate delle eccezioni che consentano di accedere alla procedura: eccezioni tempistiche (se si è al di sotto di un certo numero di settimane) o di motivazione (problemi economici, ragioni sociali). Quindi la donna non ha diritto di scelta sul proprio corpo: la decisione è legata a specifiche cause determinanti. È poi fondamentale sottolineare come, molto spesso, le donne finiscano in un circolo vizioso che tenti di convincerle a superare tutte quelle motivazioni che le abbiano spinte a ricorrere alla pratica dell’aborto. In sintesi, il vero problema, è che al centro della legge resta il divieto di abortire. L’aborto è un diritto sancito, ma non garantito. In altre parti del mondo la situazione è anni luce avanti. Mentre da noi si è ancora fermi alla morale, negli Stati Uniti, nel 1973, si garantiva questo diritto riferendosi ad esso quale vera e propria pratica medica. A tutto questo si aggiunge lo scoglio dei medici obiettori di coscienza, che in Italia raggiungono circa il 70%. La legislazione tutela questi medici, garantendo loro il diritto ad obiettare. Per tentare di limitare le obiezioni si è attuata una politica di mobilità interregionale: in regioni in cui è alta la percentuale di obiettori, medici e ginecologi di altre parti d’Italia dovrebbero spostarsi al fine di garantire l’accesso all’aborto. Nella realtà dei fatti, però, si finisce per costringere le donne a spostarsi di regione in regione. Se la percentuale di medici obiettori è così alta, è già di per sé difficile trovare specialisti che riescano a muoversi anche fuori regione. Non a caso, da anni l’Italia è condannata dal Comitato europeo per i diritti sociali proprio perché viola i diritti dei medici non obiettori. In cosa consiste questa violazione di diritti? Agli inizi del 2000, la CGIL ha portato avanti un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, per riconoscere che l’abuso che si fa dell’obiezione di coscienza manda in burnout i medici non obiettori, costringendoli a praticare il solo aborto pur essendo specializzati in ginecologia. Essendo infatti ipoteticamente gli unici medici non obiettori di un’intera struttura, finiranno per svolgere solo quella mansione, senza poter adempiere alla pratica ginecologica. Inoltre, si è venuto a creare un sistema in cui, anche se non si è obiettore, finisci per diventarlo: se sei un medico ginecologo abortista, ti viene infatti impedito qualsiasi avanzamento di carriera. Questo chiaramente va a scapito di chi, pur essendo favorevole alla pratica, si vede bloccato qualsiasi carrieristico balzo in avanti. Quali sono a tuo avviso le colpe della politica? Tu e la tua associazione, vi sentite supportati dalle istituzioni nelle vostre battaglie? Purtroppo c’è poca consapevolezza. Da quasi un anno cerchiamo di muovere le cose attorno alla 194, ma il clima di scontro, sin dal primo giorno della legge, ha reso impossibile qualsiasi efficace battaglia. Se c’è un diritto, è giusto combattere per difenderlo. La vera domanda da porsi è però un’altra: a che prezzo? Riceviamo continuamente segnalazioni di donne che si recano in una struttura per iniziare le pratiche d’aborto. La situazione del Covid ha inoltre peggiorato la situazione. Nonostante il Ministero della Salute abbia dichiarato che l’aborto sia inderogabile, le strutture comunicano alle donne che non possono procedere sino a quando non si siano negativizzate. La legge, quindi, è scritta e pensata male, ma ancor di più non mette al centro i diritti delle donne. In tutti questi anni c’è stato un clima, non solo in Italia, di movimenti per la vita lautamente finanziati. I movimenti femministi sono invece tra loro molto distanti. In un clima di lotta, com’è quello della questione sull’aborto, sarebbe invece utile comprendere la necessità di unirsi per raggiungere un obiettivo comune. A questo si aggiunge che neanche l’ala progressista della politica conosca bene il contenuto della 194. Sì, la difende, ma il vero atto rivoluzionario sarebbe iniziare a parlare di come modificarla. Da un lato la 194 va quindi in parte tutelata, ma dall’altro è davvero necessario garantire alle donne il diritto ad abortire. Purtroppo, la politica lo considera un diritto tra tanti. Roberta Metsola, nota per le sue posizioni antiabortiste, è stata eletta presidente del Parlamento europeo poco dopo l’approvazione della risoluzione Matić, con la quale si contesta il diritto dell’obiezione di coscienza. La nomina, anche dalla politica progressista, non è stata osteggiata, quando l’aborto dovrebbe invece rimanere al centro delle politiche europee. Sembra essersene accorto solo Macron, che ha chiesto di inserire il diritto all’aborto nella Carta europea dei diritti fondamentali. Questa coscienza di popolo così timorosa nei confronti di questo diritto, quali risvolti sociali e psicologici ha sulle donne? La situazione pesa moltissimo. Tante donne hanno subito una vera e propria violenza psicologica, causata in primis dall’obiezione di coscienza. Queste donne sono finite per chiedersi se avessero davvero ragione ‘gli altri’, e se quindi fossero loro in torto, finendo per non valutare più l’aborto. Nella psicologia della donna, si è venuta creando anche una classifica di ragioni per cui sia ragionevole abortire. Ad esempio, se la gravidanza è causa del fallimento della pratica anticoncezionale (preservativo, pillola), sei giustificata, poiché già c’era l’intento di evitare la gravidanza. Al contrario, se non utilizzavi anticoncezionali e resti incinta, l’aborto diventa ‘di serie B’, e vieni malvista dalla società poiché non ti sei protetta. Al problema generale legherei anche una visione guidata dalla politica. Recentemente, in diversi articoli, vari parlamentari hanno dichiarato che la prevenzione sia fondamentale per evitare l’aborto. Questa cosa non è assolutamente vera. La prevenzione è fondamentale per le malattie sessualmente trasmissibili, per non rimanere incinta, per un benessere proprio. Se la prevenzione non c’è, risponde ad una scelta del tutto personale ed autonoma del soggetto. Se si pone la necessità dell’aborto, la persona farà ricorso a questa pratica indipendentemente dall’utilizzo di anticoncezionali. Quindi sì, questa mentalità ha creato risvolti negativi per le donne.

In questo quadro, quanta responsabilità può avere la morale cristiana? Può essere una causa di un così basso livello di tutela del diritto all’aborto? Sicuramente la responsabilità, nel costruire questo clima, è tanta. Ad oggi, direi però leggermente meno: i medici non obiettano perché credenti, ma per loro ragioni personali, come quelle carrieristiche; così come le donne non si sentono stigmatizzate perché hanno introiettato una morale vicina a quella cristiana. Non credo quindi che questo abbia una grossissima influenza. Ce l’ha, al contrario, sulla politica. Poi è possibile valutarne le influenze più o meno dirette. Una donna che accende il televisore ed ascolta un telegiornale, si sente dire dal Papa che l’aborto sia omicidio, con un linguaggio molto violento. Potrebbe quindi finire per desistere dall’accedere al servizio. E questo si somma alle procedure antecedenti: lo psicologo obbligatorio, il medico… gente che ha già instillato tutti i dubbi del caso, colpevolizzandola. Così, anche chi decidesse di accedere comunque all’aborto, finisce per sentirsi sbagliata per il resto della vita. Nei Paesi normali si accede all’aborto e finisce lì, in Italia si hanno invece ricadute sulla psiche per il resto della vita. Emblematica è la vicenda di Alice Merlo, volto della campagna dell’UAAR sull’aborto farmacologico, che deciso di dare un messaggio fortissimo. Lei ha avuto accesso alla pratica utilizzando RU486, ed ha chiuso lì la propria vicenda. È questa la narrazione che lei giustamente dà. Poi ogni donna vivrà il percorso in maniera del tutto personale: l’aborto può essere stato un peso per alcune, una decisione liberatoria per altre. Recentemente si sono fatti passi avanti verso l’accettazione di temi spinosi come l’eutanasia legale, o la legalizzazione della cannabis. Per l’eutanasia sono state depositate in Cassazione un milione e 200 mila firme per richiedere un referendum; il Paese sembra aver risposto in maniera attiva anche ad un tema profondamente divisivo. L’Italia, secondo te, è pronta ad un qualcosa di simile anche riguardo l’aborto? Sì e no. Credo che, come testimonia ad esempio il numero di firme raccolte, una parte del Paese, soprattutto quella più giovane, sia molto pronta. Oltre ad informarsi, si confrontano con un forte attivismo, finalizzato a sensibilizzare correttamente. Quindi i giovani, senza influenze di sovrastrutture precedenti, sono più propensi a pensarla in un certo modo, aperti ad un discorso di rinnovamento e di reale affermazione di un diritto. La parte più adulta, invece, è quella che probabilmente è più favorevole all’eutanasia legale. I dati delle firme lo evidenziano: sono pervenute da fasce di popolazione più anziane rispetto a quelle del referendum per la cannabis. Nonostante questo, però, non credo che quest’ultimo pezzo d’Italia sia ancora del tutto pronto. Sono generazioni che hanno in parte vissuto gli anni della 194, che quindi si sentono già soddisfatte dell’esistenza di quella stessa legge, che non deve essere però modificata in senso più ampio. La vostra campagna è finalizzata a comprendere anzitutto la legge 194. Come possono però cambiare materialmente le cose?

Le parole di Macron hanno avuto grandissima ricaduta in Europa. Ad esempio, la Germania ha iniziato a tentare di eliminare le vecchie normative, che vietano, tra le altre cose, anche la pubblicità dei metodi anticoncezionali. Si è anche iniziato a parlare di aborto a casa: i ginecologi spediscono la pillola, che si può tranquillamente assumere in privato. In Italia la gente sta ancora cercando di digerire l’utilizzo della RU486, possiamo quindi immaginare quanto siamo lontani dall’idea che si possa assumere una pillola senza dover andare in ospedale. La visione più auspicabile sarebbe quella di un referendum per la liberalizzazione dell’aborto. Adele Faccio ci aveva provato già negli anni ’80, ma il risultato fu tristemente negativo. Si era tentato di mettere al centro della questione la donna, quindi niente più obiezioni di coscienza, niente più inchieste sul perché si volesse abortire. Ad esempio, nei paesi nordici, viene chiesto al test di medicina se si avrà intenzione di obiettare; nel caso in cui si indichi l’obiezione, il candidato non viene ammesso a prescindere alla specializzazione di ginecologia. È questo il futuro a cui dovremmo aspirare tutti quanti, non rimanendo più indietro rispetto al resto del mondo. Come si possono supportare ed appoggiare le vostre battaglie? Per il momento stiamo organizzando diverse proiezioni del nostro documentario. Questo ci dà occasione di girare nelle città e di incontrare chi si è avvicinato al nostro attivismo. Inoltre, potete seguirci sui canali social Instragam e Facebook, dove annunciamo tutte le nostre iniziative; abbiamo anche creato dei gruppi Telegram regionali per meglio coordinare la presenza sul territorio. Questo è un aspetto di rilevante importanza: sappiamo infatti che la maggior parte degli attacchi alla 194 avviene dalle politiche territoriali, soprattutto dei centri più piccoli, e non tanto a livello nazionale. La nostra campagna è totalmente gestita ed auto-promossa. Abbiamo quindi avviato una raccolta fondi su Produzioni dal Basso, al nome di ‘Libera di Abortire’, in cui raccogliamo donazioni per produrre il materiale, come il vademecum ‘Libera di sapere’. In questo opuscolo sono contenute tutte le informazioni necessarie riguardo la pratica dell’aborto, cosa che dovrebbe esser fatta dal Ministero della Salute, ma che in mancanza di adempimenti abbiamo deciso di fare noi.


Grazie mille Vittoria, io e tutta Koinè siamo onorati di essere al vostro fianco in questa battaglia. I lettori troveranno qui sotto tutti i link per potere vedere come opera Libera di Abortire e per partecipare alla raccolta fondi. Grazie davvero, e in bocca al lupo per questa battaglia.

Grazie a te Luca, e a tutta Koinè per questa intervista e per il vostro supporto.





Per sostenere “Libera di Abortire”:




Vademecum campagna:




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