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  • Writer's pictureKoinè Journal

La "Giungla" di Calais: una crisi umanitaria dimenticata


di Giulia Monticelli.


Calais, luogo simbolo della dilagante crisi dei rifugiati, ha messo alla prova un’Europa incapace di tutelare i pilastri su cui si basa: unione, libertà di circolazione e solidarietà.

La storia di questa cittadina francese che si affaccia sulla Manica al confine con il Regno Unito -raggiungibile via mare, con i traghetti ma anche attraverso l’eurotunnel- è lunga e travagliata.


E’ una storia di abusi da parte della polizia locale, di violazioni di diritti umani, di violenze di genere, di soprusi da parte di governi focalizzati meramente sui propri interessi e necessita di essere raccontata al fine di restituire un briciolo di umanità ad una realtà agghiacciante dove si protraggono da oltre vent’ anni continue sofferenze.

Nel 1999, sotto la pressione dei flussi migratori di origine balcanica, veniva aperto il campo di Sangatte in cui trovarono rifugio circa 2000 profughi provenienti nella maggior parte dal Kosovo ma anche dall’Afghanistan e dall’Iraq.

Il campo di Sangatte fu oggetto di tensioni politiche tra il governo francese e britannico, di conseguenza fu sgomberato nel 2002.


Il Trattato di Touquet, siglato nell'anno successivo, fu il tentativo - oltremodo fallimentare - con cui i due governi decisero di regolamentare la gestione dei flussi migratori.

Francia e Gran Bretagna hanno concordato di spostare reciprocamente i controlli per l'immigrazione sul versante opposto, obbigando quindi i viaggiatori a espletare le formalità doganali e di documenti prima dell'attraversamento della Manica. In questo modo la polizia francese ha il compito di accertarsi che chi non ha le carte in regole venga fermato prima e non quando si trova già sul suolo britannico. Tale accordo non ha di certo ridotto la presenza di rifugiati nella zona in quanto fondato sulla “tattica della deterrenza” che consisteva in controlli congiunti, respingimenti e negazione dell’accoglienza.


Le leggi sull'immigrazione del Regno Unito rendono quasi impossibile l'ingresso legale nel Paese in quanto ottenere un visto è costoso ed è indispensabile che si soddisfino criteri molto rigorosi. Se non ci si trova nel Paese, non si può richiedere asilo politico. Di qui la corsa dei migranti, alcuni già vittime di abusi e violenze nel proprio Paese, a rischiare la vita pur di varcare la Manica. In questo senso Calais diventa il porto più grande e più trafficato tra il nord Europa e la Gran Bretagna: da lì partono i traghetti ma passa anche l'Eurotunnel.


Il risultato di questo trattato e delle tensioni politiche tra i due governi fu che i flussi continuarono a crescere e gli accampamenti si consolidarono– nella tacita tolleranza delle autorità – dando vita a quella che è stata chiamata dagli stessi rifugiati la “giungla di Calais”.

La definitiva chiusura della Giungla non avvenne prima dell’annuncio del presidente francese, Francois Hollande, il 26 settembre dopo che per un anno c'erano state decine di sgomberi.

All'operazione partecipano 2.000 agenti che sorvegliano il trasferimento dei migranti in pullman verso i 450 centri di accoglienza pronti a riceverli sparsi su tutto il territorio francese.

Il 2016 è stato l’anno in cui sono emerse le conseguenze della poca lungimiranza con cui è stata gestita una situazione estremamente complessa.

Sarebbe stato efficace un accordo costruttivo con la Gran Bretagna e una politica repressiva fatta di avvisi di sfratto e sgomberi da parte delle autorità locali non ha altro che aggravato una situazione ormai fuori controllo nella baraccopoli.

 

L’eterogeneità etnica

Provenienti da più di quindici paesi diversi, le persone nel campo tendono ad essere divise e raggruppate per paese di provenienza. Nel momento della ricerca del Refugee Right Data Project, la comunità afgana rappresentava più del 30% della popolazione, seguita da sudanesi (20%), siriani (10%) e iraniani (10%). L’8% dei residenti erano Kuwaitiani Bedoun (una tribù senza cittadinanza), mentre il 7% provenivano dall’Eritrea. Erano inoltre presenti gruppi minori originari del Pakistan, dell’Iraq e dell’Etiopia. Questo dato è estremamente significativo sia a Calais ma soprattutto nella vicina Dunkirk in quanto l’eterogeneità dei gruppi etnici ha portato a scontri tra le varie comunità cariche di attriti etnici, storici e religiosi ed ha reso la gestione dei conflitti risulta ancora più complessa.

Partendo dal presupposto che la presenza di donne è inferiore rispetto agli uomini, è fondamentale dire che la minoranza femminile rappresenta una parte particolarmente vulnerabile della popolazione del campo – della quale si parla troppo poco.

La mancanza di supporto medico durante la maternità, così come episodi di violenza di genere, sono solo alcuni dei fattori che aggravano la loro condizione – già estremamente precaria.

 

Violenza di genere al confine

Guardando più da vicino il problema del “gender gap nella crisi dei rifugiati: perché delle donne profughe si parla così poco, nonostante rappresentino una parte importante della popolazione in movimento? Soprattutto, come si può intervenire sul problema dell’estrema penuria di dati disaggregati per genere e perché questo è tanto importante per formulare risposte realmente incisive alla crisi umanitaria?


Oggi in Europa c’è una grave mancanza di dati relativi alla violenza sulle donne e le bambine in contesti di sfollamento, nei quali si necessita protezione internazionale. Tale assenza di dati affidabili non solo contribuisce a sottovalutare il fenomeno di violenza di genere tra le donne e le bambine sfollate – ma allo stesso tempo impedisce lo sviluppo di risposte effettive e coordinate che affrontino le necessità delle vittime. È chiaro che le donne risultano essere gli elementi più vulnerabili di un sistema reso complesso dalla presenza di varie etnie, dalla repressione delle autorità, dal razzismo cittadino e dalla drammatica condizione psicologica dei rifugiati. Il 42% delle donne dichiara di essere stata vittima di violenza rispetto a solo il 27% degli uomini e secondo un’intervista del Refugee Data Project un’intervistata ha dichiarato di aver avuto un aborto a causa dell’esposizione ai gas lacrimogeni.

L’emergenza di una tutela verso donne e bambini risulta dunque uno degli obbiettivi cardine al fine di limitare gli episodi di violenza.

 

Scontri con le autorità locali

Molti residenti temono la polizia francese, la quale per molti risulta essere estremamente violenta nei confronti delle persone nel campo. Il 75,9% ha subito violenza da parte della polizia durante la sua permanenza a Calais, e il 69,9% e’ stata vittima di attacchi con i gas lacrimogeni quotidianamente o più volte a settimana. Allo stesso modo, i rifugiati hanno paura della violenza da parte dei cittadini (il 50,8% ha subito violenza da parte loro) e delle persone all’interno del campo, come trafficanti o a volte altri rifugiati.


La violenza da parte dei cittadini è un serio problema, specialmente nel momento in cui i rifugiati lasciano il campo e vanno verso il centro città. Secondo alcuni intervistati, un gran numero di persone ha parlato di attacchi fatti con coltelli, pistole e cani particolarmente aggressivi. Altri hanno riferito d’essere stati colpiti da pugni, calci, bastoni o di essere stati investiti da macchine e buttati nel fiume. Da svariate interviste è inoltre emerso che è abbastanza frequente per i rifugiati essere colpiti da spazzatura buttata dalle macchine in corsa, o essere insultati.

Molti intervistati hanno riportato ossa rotte, ferite di vario genere e mutilazioni. Molti sono inoltre venuti a conoscenza di morti causate da cittadini non identificati. La città è diventata un luogo poco accogliente per i rifugiati che sono costantemente vittime di episodi di razzismo, di esclusione e di violenze da parte degli stessi cittadini.

 

L’emergenza della salute psicofisica

Va rilevato che i problemi di salute mentale sono altrettanto diffusi: molti hanno dichiarato che la vita nel campo è “mentalmente e fisicamente estenuante”.  Sono state registrate diverse dichiarazioni di rifugiati preoccupati per il loro “stato di salute” a causa delle squallide condizioni di vita in cui versano. Un numero cospicuo di intervistati ha risposto di soffrire di depressione e disturbi di ansia, compresi disturbi da stress post-traumatico (PTSD).

Oltre alla barriera linguistica, i medici e i volontari di Calais devono fare i conti con risorse limitate che non permettono una distribuzione e prescrizione di medicinali consona alle esigenze. Tuttavia, gli abitanti del campo hanno espresso gratitudine per l’operato dei volontari e si sono dimostrati molto soddisfatti dell’operato di queste organizzazioni.

Nonostante ciò la paura di rientrare al Paese d’origine è tale da fare escludere un potenziale ritorno: molti temono d’essere uccisi – principalmente per mano di gruppi armati come talebani o dei miliziani dell’ISIS. Altri temono di venir imprigionati dal governo corrotto del proprio paese, o di diventare vittime della polizia. Un bimbo ha confessato: “Non so se ritornerò vivo o morto dalla mia famiglia”.

Per la maggior parte di loro il sogno rimane comunque il Regno Unito dove contano di riunirsi con i membri della propria famiglia: molte ONG stanno offrendo loro supporto legale per favorire il loro riconoscimento come rifugiati politici in virtù del regolamento di Dublino III.

 

Riconversione delle modalità di gestione della crisi

La dura realtà può essere descritta come una lunga e sofferente battaglia tra la polizia e non solo i rifugiati ma anche le ONG che tentano di offrire aiuto umanitario. Numerosi sono stati e continuano ad essere i sequestri di viveri e acqua da parte della polizia locale, le minacce e le intimidazioni ed è anche questo che rende il lavoro dei volontari così prezioso e fondamentale.

Le risorse spese per la militarizzazione dovrebbero essere riconvertite per cercare di fornire opportunità lavorative, condizioni sanitarie adeguate a queste persone e per aiutare coloro che hanno intenzione di percorrere l’Eurotunnel, ad affrontare un viaggio che sia il più sicuro possibile.

Fondamentale sarebbe non intralciare il lavoro dei volontari che sono ingiustamente sottoposti a rischi e tutelare il loro operato al livello legale.

Una più efficace collaborazione tra il governo francese e britannico per la formulazione di una legislazione che tuteli il rispetto dei diritti umani e che vada oltre i singoli interessi nazionali rappresenterebbe il superamento di un ostacolo che complica oltremodo il controllo della situazione al confine.

 

 

 

 

 

 

Image Copyright: Calais Migrant Solidarity

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