di Lorenzo Ruffi.
Durante la sera del 26 luglio un gruppo di militari dell’Aeronautica nigerina appare in TV per annunciare l’arresto del presidente Mohamed Bazoum, il primo leader democraticamente eletto nel 2021 dopo decenni di autoritarismo, e per ufficializzare la nascita del Consiglio nazionale per la salvaguardia della patria, organismo di transizione pensato per ovviare ai problemi di sicurezza e governance che interessano il Niger. La guida dei golpisti è il generale Abdourahamane Tchiani, a capo della guardia presidenziale già sotto Issoufou a partire dal 2011, ma che sarebbe stato licenziato a fine luglio proprio per volontà di Bazoum, desideroso di riorganizzare dall’alto l’architettura del proprio apparato di sicurezza. Il golpe di Tchiani, l’ennesimo di una lunga serie di rovesciamenti manu militari nella regione del Sahel, ha innescato una crisi diplomatica di portata internazionale, facendo diventare il Niger l’epicentro di una crisi regionale, coinvolgendo in maniera diretta e non i principali attori locali e stranieri. La dichiarata minaccia di un intervento militare da parte dell’ECOWAS (Economic Community of West African States) per ristabilire l’ordine costituzionale in Niger dimostra come quella in corso a Niamey non sia una crisi come le altre.
Settimo paese al mondo per produzione di uranio e principale fornitore dei mercati europei dopo la guerra in Ucraina, il Niger è fondamentale soprattutto per la sua posizione geografica, incastonato fra il Nord Africa (e quindi il Mediterraneo) e l’Africa Subsahariana, punto di partenza della maggior parte dei flussi migratori diretti verso nord. Mentre lo strappo diplomatico fra la giunta golpista all’ex madrepatria francese diviene sempre più incolmabile, il mondo trattiene il fiato, nella speranza che la crisi a Niamey non si trasformi da innesco per una rivolta su scala continentale, in grado di sgretolare i fragili equilibri dell’Africa.
Da Serval a Barkhane
La crisi di sicurezza che interessa l’area di influenza francese in Africa, la cosiddetta françafrique, affonda le sue radici nella guerra civile in Mali del 2012: sull’onda d’urto delle Primavere Arabe, il nord del paese venne scosso da una ripresa delle attività insurrezionali dei ribelli tuareg uniti sotto l’insegna del MNLA (Mouvement national de libèration de l’Azawad). Quello che inizialmente era nato come movimento laico ed indipendentista ben presto iniziò a mutare la propria composizione, alleandosi e stringendo accordi con la galassia di movimenti salafiti e jihadisti nella regione per contrastare più efficacemente le truppe regolari maliane. In poco tempo l’insurrezione tuareg-salafita arrivò a conquistare quasi metà del paese, sottomettendo città storiche come Gao e Timbuctù. Incapace di contrastare l’offensiva nemica, il governo di Bamako chiese aiuto a Parigi per respingere i miliziani ormai prossimi a puntare verso la capitale. Il 10 gennaio 2013 Hollande decise di intervenire dando inizio all’operazione Serval: grazie al supporto dell’aviazione francese, il governo di Dioncounda Traore riuscì rapidamente a riconquistare buona parte dei territori perduti, ma non a sradicare la minaccia jihadista. Per preservare i propri interessi nel Sahel da nuove insurrezioni come quella maliana, Parigi decise di lanciare una nuova operazione militare su scala regionale: nell’agosto del 2014 venne annunciata la missione Barkhane, volta a dar seguito ai successi di Serval per combattere la piaga del jihad transnazionale che minacciava gli interessi dell’Eliseo nei paesi del G5 Sahel (Burkina Faso, Niger, Mauritania, Ciad e Mali). Approfittando della porosità dei confini di questi stati e delle pratiche di corruzione, cooptazione e terrore praticate a livello locale e tribale in maniera capillare, i gruppi jihadisti crebbero ad una velocità impressionante, accumulando sempre più armi e soldi grazie al saccheggio di villaggi e al traffico transnazionale di droghe. Sigle spesso in concorrenza fra loro, come l’AQIM (al-Qa’ida nel Maghreb Islamico) e l’ISWAP (Islamic State of West Africa Province), sono riuscite ad ottenere notevoli successi sul campo, governando su piccole territorialità da cui lo stato centrale è stato completamente esautorato. L’incapacità dell’operazione Barkhane di distruggere il network jihadista nel Sahel, insieme ad un crescente malcontento delle popolazioni locali per le continue intromissioni della ex colonia nei paesi interessati convinsero Macron a ritirare le truppe dal Mali e dal Ciad per spostarle in Niger, ritenuto un saldo alleato di Parigi, nel quadro di una missione comune europea, la Takuba Task Force, per continuare a preservare i propri interessi nella regione.
La cintura del golpe nel Sahel.
L’Africa in golpe
Quello in Niger è solo l’ultimo di una lunga serie di colpi di stato che hanno scosso la françafrique, dal 2020 ad oggi. Già nell’agosto di quell’anno un primo golpe in Mali rovesciava il presidente Keita, insediando al suo posto Bah Ndaw; nove mesi dopo il suo vice, il generale Assimi Goita, lo fece arrestare, denunciando il perdurare della crisi di sicurezza nel paese e dell’influenza francese. Il secondo golpe in Mali costrinse infatti Parigi a ritirare le proprie truppe, spostandole a Niamey, ponendo ufficialmente fine alla missione Barkhane. Nel gennaio del 2022 fu la volta del Burkina Faso: il presidente eletto Kaborè venne rimosso da un gruppo di ufficiali che lamentavano il deteriorarsi della condizione securitaria del paese; nel settembre dello stesso anno un giovane gruppo di generali di vaga ispirazione sankarista rovesciarono a loro volta la giunta golpista di gennaio, insediando come presidente il colonnello Ibrahim Traorè. Questa confusa serie di eventi deve essere inquadrata a partire dal deteriorarsi della situazione securitaria nella regione causata dall’insurrezione jihadista e dalla fallita missione francese di stabilizzare un’area divenuta particolarmente turbolenta. Anche il golpe in Niger va ricondotto entro questi binari: l’incapacità del governo Bazoum, alleato chiave di Parigi e dell’UE, di risolvere la crisi di sicurezza all’interno del paese ha permesso ai golpisti di presentarsi come un’alternativa valida, in grado di risolverne i problemi. Il diffuso sentimento antifrancese è un altro denominatore comune: l’intromissione economica e militare di Parigi nelle ex colonie africane ha generato un malcontento diffuso nella popolazione, disillusa ormai dai processi democratici e convinta sostenitrice di giunte militari dichiaratamente ostili all’ex-madrepatria. Le manifestazioni di sostegno ai golpisti in Niger, scandite da slogan antifrancesi e bandiere russe al vento, rappresentano uno spaccato interessante sui sentimenti della popolazione locale, convinta che l’era della françafrique sia giunta ormai al termine. L’avvicinamento di queste giunte alla Russia e alla Cina avviene per motivi sia storici che strategici: l’influenza e il sostegno di Mosca, sotto forma di Unione Sovietica, e di Pechino ai movimenti anticoloniali dell’Africa restano visibili ancora oggi, mantenendo un rapporto, percepito dai paesi africani come autenticamente paritario, rispetto a quello con i paesi europei macchiati dallo stigma coloniale. Nella realtà dei fatti, le partnership fra le giunte golpiste africane e i loro nuovi alleati asiatici non si discostano molto dalle pratiche di sfruttamento portate avanti dalle ex colonie: la Russia ha infatti sostituito tramite il Gruppo Wagner la presenza militare francese in Mali e Burkina Faso, ma la lotta al jihadismo non sembra fare progressi, mentre si registrano sempre di più episodi di espropriazioni delle risorse in loco.
Nonostante questo, il sentimento antioccidentale resta determinante nello spalancare le porte dell’Africa a nuovi attori globali intenzionati a ridefinire gli equilibri nel continente. In Niger questa transizione rischia tuttavia di trascinare Manifestazione a sostegno del golpe a Niamey l’intera regione nel caos.
Braccio di ferro a Niamey
La reazione al golpe da parte della Francia e dei paesi africani ad essa alleati è stata durissima: Parigi ha immediatamente chiesto il ripristino dell’ordine costituzionale e il ritorno al potere di Bazoum, posto nel frattempo agli arresti domiciliari, mentre l’Unione Africana e l’ECOWAS hanno espulso dai loro organi le rappresentanze nigerine stessa sorte toccata alle giunte militari di Mali e Burkina Faso. Gli interessi dell’Eliseo nella ex colonia sono molteplici e non tutti riconducibili al solo uranio: se è vero che circa il 20% della materia prima importata dalla Francia proveniva dal Niger prima del golpe, Parigi (e l’UE) hanno saputo diversificare le proprie entrate, rivolgendosi a Kazakistan e Canada. Il paese africano resta un avamposto militare fondamentale per la Francia, ma anche per gli americani, i quali gestiscono la più importante base aerea di droni del continente, la Niger Air Base 201, e persino per l’Italia, che vi dispiega trecentocinquanta uomini; inoltre, il Niger rappresenta uno snodo cruciale nella tratta dei migranti: i governi europei facevano pieno affidamento su quello di Bazoum per gestire e controllare il traffico di esseri umani diretto verso le sponde meridionali del Mediterraneo, stringendo con esso diversi accordi per regolamentare le partenze verso la Libia e la Tunisia, ma con la nuova giunta al potere mantenere tali partenariati in vigore non sarà scontato. Lo stallo venutosi a creare all’indomani del golpe non è di semplice soluzione: i golpisti sembrano infatti godere di un largo supporto popolare come dimostrato dalle recenti manifestazioni, culminate nell’assalto all’ambasciata francese nella capitale, e ciò permette loro di avere un ampio margine di manovra, anche grazie al supporto offerto dagli altri regimi antifrancesi nel Sahel. Dopo aver provato a cacciare l’ambasciatore francese, privandolo delle credenziali diplomatiche, la giunta di Tchiani tenta ora di costringere il contingente militare transalpino a lasciare il paese. Stati Uniti ed Unione Europea, incalzati dall’Eliseo, chiedono di risolvere la situazione attraverso canali diplomatici, minacciando ritorsioni e sanzioni in grado di tramortire la già disastrata economia nigerina. La minaccia dell’intervento militare per ripristinare Bazoum, paventata come extrema ratio dai vertici dell’ECOWAS, l’alleanza economica e militare dei paesi dell’Africa occidentale, pare essersi smorzata, visto il rischio di un’escalation che avrebbe coinvolto anche altri paesi, come Mali e Burkina Faso, pronti a difendere il Niger in caso d’aggressione; inoltre, una guerra su scala regionale rischierebbe di accrescere ulteriormente i problemi che già affliggono questa parte del mondo, come crisi di governance, insurrezioni armate di gruppi criminali e jihadisti e traffico irregolare di migranti, mandando in frantumi il già fragile equilibrio geopolitico del Sahel. La crisi rischia di assumere i contorni di un gioco a somma zero per entrambi gli schieramenti: la Francia, così come i suoi alleati, non è disposta a veder cadere l’ultimo tassello della propria sfera d’influenza in una regione storicamente dominata da Parigi, mentre i golpisti non vogliono scendere a compromessi con l’ex padrone. Sarà interessante notare come in questa crisi si inseriranno attori apparentemente esterni, come la Russia, la Cina o la Turchia, a parole sostenitrici di un ritorno all’ordine costituito, ma in pratica avvantaggiati dallo sgretolamento dellafrançafrique a guida parigina. La decapitazione del Gruppo Wagner a seguito della morte di Prigozhin, che poco prima di tornare in Russia si trovava probabilmente fra Mali e Niger, lascia momentaneamente Mosca priva di un asset strategico fondamentale nella regione, rischiando di avvantaggiare nettamente Pechino e Ankara nella corsa verso l’Africa. La crescente sfiducia verso i governi africani figli dell’ondata di democratizzazione degli anni Novanta, considerati corrotti e incapaci di garantire benessere e stabilità, spalanca le porte ad una nuova stagione dei golpe su scala continentale. L’incapacità della diplomazia europea di trovare una soluzione al braccio di ferro fra Parigi e Niamey avvantaggia i competitors del Vecchio Continente, i quali hanno gioco facile a presentarsi come partner più equi, privi dell’ingombrante passato coloniale. Una svolta potrebbe giungere grazie alla mediazione dell’Algeria, potenza regionale in ascesa decisa a spazzare via gli ultimi residui di influenza francese nel Sahel, o dalla Turchia, la cui presenza nel continente è cresciuta esponenzialmente negli ultimi anni grazie ad un connubio fra soft power e presenza fisica. Mentre Parigi si vede ormai costretta a ritirare i propri uomini dal Niger, la crisi di Niamey resta ancora aperta a qualsiasi scenario. L’impressione è di non trovarsi di fronte ad un incidente isolato, ma ad un caso che potrebbe similmente infiammare altri contesti in Africa, in un futuro neanche troppo lontano.
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