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  • Writer's pictureKoinè Journal

La Stranezza (2022)


di Stefania Chiappetta


Nel 1920 Luigi Pirandello fa ritorno nella nativa Sicilia per partecipare a due eventi che si rincorrono, unendosi nella messa in scena cinematografica: i celebrativi per gli ottanta anni di Giovanni Verga e la morte dell’amata balia, ormai anziana. I primi a Catania dove il “maestro”, come viene definito più volte, è investito dai più alti riconoscimenti; la morte, invece, fa la sua comparsa in un anonimo paesello di provincia, Girgenti, fagocitando con essa tutta la narrazione. In questa cornice seminascosta, priva dello sfarzo che caratterizzò la sua vita, Pirandello farà la conoscenza di due becchini, Sebastiano Vella e Onofrio Principato, la cui preoccupazione maggiore è quella di allestire un nuovo spettacolo teatrale, che coinvolga tutti i paesani.


Roberto Andò, nella sua nuova pellicola La stranezza, compie un lavoro ben noto alla cinematografia italiana ma, solo forse, accantonato nel panorama contemporaneo: plasmare il corpo comico del noto duo Ficarra e Picone, per adattarlo ad una narrazione diversa, probabilmente più matura, senza dimenticare le loro radici popolari. Non è un caso che il film sia diventato, a poche settimane dalla sua uscita, il secondo incasso maggiore per una produzione italiana del 2022.

Le premesse della narrazione sono semplici, lo spettacolo teatrale che i due becchini stanno mettendo in scena è una commedia certo, ma in esso convive mascherato il dramma. Dramma popolare, dramma comune, visto che il teatro -allo stesso modo del cinema- attinge linfa vitale dal tessuto della quotidianità circostante. Dunque, l’audience attenta che fruirà del film, capirà da subito che le premesse dello spettacolo in allestimento valgono anche per la sua, di visione.


Allora, l’atmosfera a tratti grottesca di cui si fa esperienza all’inizio, dove si ride spontaneamente per le azioni basilari -e forse un po' ingenue e forzate- della coralità di personaggi che Andò insegue, vira fino a lasciare il posto alla fantasia. Al sogno allucinatorio che nutre il Pirandello interpretato da Toni Servillo, in crisi creativa ed in costante ricerca di una verità teatrale che gli sfugge e che forse, sembra suggerirci il regista, possiamo ricostruire nella messa in scena cinematografica.


Gli ambienti, quasi sempre rappresentati in interni in particolare tra la sala teatrale e le stanze private dei personaggi, si riempiono a poco a poco di fantasmi del passato, di personaggi non ancora esistiti o, per meglio dire, non ancora scritti che chiedono al poeta, così come allo spettatore, di farsi conoscere. Di imporre anche la loro visione per giungere ad un potente cortocircuito figurativo: la realtà e la finzione che conflagrano tra di loro, mescolando gli orizzonti percettivi e la nostra stessa identificazione. I personaggi sullo schermo recitano nel loro dramma/commedia teatrale, che prende il nome di “Trincea del rimorso”, ma stanno recitando anche per noi spettatori, per dare vita a ciò che vediamo rappresentato.


Quello che Roberto Andò riesce sapientemente a restituire, è la genesi che precede una delle opere che segnerà il teatro Pirandelliano, nonché tutta la teoria teatrale stessa; facendoci provare così esperienza di che cosa significhi il metateatro, lui che ha diretto numerosi spettacoli teatrali, ma anche di come esso possa unirsi al metacinema. In fondo è lo stesso Servillo/Pirandello che ci mette in guardia, quando giunto nello studio di un Verga anziano, pieno di rabbia per un mondo che “l’ha dimenticato”, esordisce con: “Ho in mente una stranezza.” Poi, lo vediamo tornare come un fantasma a Girgenti, occupando un posto solitario per osservare, sbirciare, la prima dello spettacolo che Sebastiano e Onofrio hanno portato in scena, non senza qualche difficoltà che, tuttavia, rallenta un po' il ritmo della scrittura narrativa. Un voyeur, ci suggerisce la narrazione, morbosamente attratto dalla vita, dalla recitazione del duo comico che azzera le distanze tra il corpo vivo dell’attore/spettatore ed il corpo olografico del cinema.


L’attrattiva di Andò è, principalmente, tutta qui: seduti su poltroncine, poco importa se di un teatro o di una sala cinematografica, a guardare, sentire, percepire, reagire alla vitalità creativa e artistica. Spettatrici e spettatori privilegiati di un film che, con passo claudicante, cede il posto all’illusione, alla fantasia.

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