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Writer's pictureKoinè Journal

Parliamo di Drag, ma seriamente


di Elisa Bacalini.


La cultura gay underground ha condotto nel tempo a fenomeni ormai divenuti pop, come quello del drag. Tra spettacoli live e celebri contest, quale il  celeberrimo“ Rupaul Drag Race”, che vanta anche di una edizione italiana, questo ha acquisito un ruolo fondamentale nell’intrattenimento, e non si presenta più come appannaggio esclusivo della comunità queer.

Il drag è un gioco di genere: l’identità della drag e della persona che la  sta interpretando può talvolta coincidere, tuttavia è per  la maggior parte un’espressione artistica, svincolata dalla quotidianità.


La performance si compone di varie elementi, a partire dal trucco e dal costume: eccentrici, spettacolari e che accentuano le caratteristiche del genere che si vuole esasperare. Un importante aspetto dell’esibizione, che ha radici nei drag balls, parte integrante della sottocultura LGBTQ del XIX e inizio del XX secolo, è l’attenzione alla musica: pezzi storicamente legati alla tradizione queer vengono “doppiati” attraverso il lip-sync, o ballati con danze acrobatiche e sensuali. Il pubblico viene coinvolto anche grazie a momenti cabarettistici e ironici: l’artista si prende in giro e prende in giro, a dimostrazione del forte legame tra tali spettacoli e la contemporaneità spesso denunciata.

 

Cosa vuol dire essere Drag

Non avulsa da fraintendimenti è la differenza del drag da crossdresser e persone transgender. I primi, in passato chiamati “travestiti”, traggono piacere nell’indossare abiti tradizionalmente associati al sesso opposto; le persone non binarie, invece,  si identificano in un genere diverso da quello assegnato loro alla nascita. Fondamentale specificare che il performer drag può definirsi transessuale, ma non è una caratteristica valida per tutti e prescinde dall’esibizione.


Il drag affonda le proprie radici nell’antichità, in particolare nel teatro greco, e, successivamente, romano, dove erano gli uomini ad interpretare parti femminili per esigenze performative. Tale pratica sarà adottata anche dal teatro elisabettiano, poiché’ era vietato alle donne di esibirsi sul palco.


E’ nel XX secolo che il fenomeno esplode: se durante il proibizionismo negli Stati Uniti la comunità queer si riunisce negli speakeasy, esercizi commerciali che vendevano illegalmente alcol, negli anni ’80 si assiste ad una popolarizzazione del drag, veicolata anche grazie alla libera espressione delle sue icone, ad esempio Madonna. Sono le ball room i luoghi di aggregazione della comunità queer e drag che si sviluppa, ricordiamo, da minoranze etniche (i BIPOC: “black, indigenous, and other people of color”). Queste, marginalizzate  e discriminate, si sono alacremente battute per i diritti della comunità LGBTQ+: erano in prima linea, ad esempio, nei moti di Stone Wall, fondamentali nella rivendicazione gay.

  

L’origine del concetto moderno di Drag

Per comprendere e vivere appieno le esibizioni drag è necessario comprendere la sottocultura queer da cui si sono originate. Il ballo caratteristico dei performer, il “voguing”, è in origine ispirato dagli scatti delle modelle sulle copertine di riviste di moda, come ad esempio Vogue. Dapprima imitando rigidamente le pose delle indossatrici, la danza col tempo si fa più sinuosa: è la  volta delle duck walk (i ballerini si accovacciano e poi allungano le gambe, imitando una papera, duck) e cat walk (camminata felina e sensuale, da passerella). Il gusto degli abiti, sovente realizzati dalle stesse drag, è “camp”: interessante la sua definizione, data da Andrew Bolton, curatore del Costume Institute del Metropolitan Museum of Art:


«La gente ha un’idea preconcetta di quello che significa “camp”, è qualcosa di superficiale, che ha a che fare con uomini gay e travestiti. E’ anche quello, ma anche tanto altro».


Via libera a perle, piume, lustrini: abbandonati il minimalismo e l’eleganza seriosa, la moda drag vuole lasciare il segno e non essere relegata ad una monotona quotidianità.

Anche il lessico, una vera e propria terminologia, affonda le radici nella statunitense cultura queer. Durante il lip-sync di una drag può capitare che qualcuno gridi “Work!” (per fomentare il performer) o “Slay!” (letteralmente “servire”, riuscire in qualcosa che si sta facendo); “to throw shade”, “gettare ombra”, significa mettere in evidenza i difetti di qualcuno ( forma attestata anche nel documentario Paris is burning) mentre “sickening” (“disgustoso”) in realtà si utilizza per qualcosa di talmente spettacolare da destare gelosia.


Questo linguaggio è giunto anche alle nuove generazioni estranee alla comunità, così come le drag, prima fenomeno esclusivamente suburbano, che sono giunte a sfilare per alta moda e ballare nei più grandi tour musicali. La nuova scena queer entra a far parte di una cultura pop che abbraccia ambienti artistici, musicali e cinematografici ampi e variegati, e non nutre più alcun timore nel farsi conoscere e riconoscere. I principi, le idee alla base di tale forma espressiva risiedono nel non-giudizio e la più pura forma di libertà individuale e affermazione di se’. “Come possiamo amare qualcun altro se non amiamo prima noi stessi?” afferma con frequenza RuPaul nel suo programma: trasformarsi per una sera in un’altra persona aiuta a conoscersi e capirsi, e, forse, amarsi di più.

 

 

 

 

 

Bibliografia 




Image Copyright: Robin Hunt

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