di Stefania Chiappetta.
Quando guardiamo il film Passages (Ira Sachs, 2023) per la prima volta, ciò a cui assistiamo nella prima sequenza è una sorta di cortocircuito che ingarbuglia i piani visivi: da un lato noi spettatori, che cerchiamo di comprendere una nuova storia, dall’altro l’interno di un set cinematografico. Al suo interno, come una matriosca, un ragazzo\attore che simula delle azioni e un regista che lo dirige, bloccando spesso le sue movenze e imponendogli una ripetizione. Assistiamo da subito ai due lati della medaglia produttiva che accompagnano il cinema, indirizzando la nostra attenzione sia sull’atto della recitazione – ciò che accade davanti la macchina da presa- sia su quello che si nasconde dietro: in questo caso la vita di un giovane regista Tedesco, Tomas (Franz Rogowski), alle prese con la realizzazione di un film di cui non sapremo mai il nome.
In questa nuova produzione Mubi (disponibile dal mese scorso sulla piattaforma), che ha fatto molto parlare di sé nelle scorse settimane, è proprio questo ibridismo tra produzione, performatività e relazioni umane a venire fuori, trascinando la storia stessa in un vortice fluido, che riflette la realtà esplicitamente queer dei protagonisti. Infatti, subito dopo la citata sequenza d’apertura, ci troviamo catapultati nel vortice caotico di un festino per celebrare la conclusione delle riprese del film. È così che, nello spazio chiuso di un locale, con centinaia di corpi stipati che si muovono al ritmo di musica, esplode la potenza simbolica del triangolo amoroso che, da lì a poco, farà da protagonista per tutta la durata del film.
È proprio con un incontro che la regia di Ira Sachs battezza questo triangolo, quello di Tomas con la giovane insegnante Agathe, interpretata da Adèle Exarchopoulos. Attraverso il classico “cliché” narrativo dell’incontro amoroso, che riecheggia centinaia di film di genere romantico, esploderà libertà, attrazione sessuale ma, soprattutto, la possibilità per l’uomo di sfoderare tutto il suo narcisismo latente. Una caratteristica, questa, che lo porta a primeggiare in qualsiasi cosa egli faccia, ad ottenere tutto ciò che vuole per mero capriccio. Tuttavia ciò che incrina la nuova conoscenza è la presenza di un terzo personaggio, che nel triangolo occupa il lato opposto a quello femminile: Martin (Ben Whishaw) un giovane tipografo Inglese, nonché marito dello stesso Tomas.
Le conseguenze dell’infatuazione di Tomas per Agathe, sottolineate dall’ossessione registica di cogliere visibilmente l’intreccio corporeo nei momenti sessuali, portano ad un inevitabile crollo della vita coniugale già collaudata. Non c’è più spazio per la quotidianità dei due uomini, per dividere le spese di una casa in montagna o uscire con gli amici; questo perché la nuova ossessione ha per Tomas il sapore della novità, della scoperta femminile, della regressione infantile che mira verso il possesso di un nuovo giocattolino. Simbolicamente, con la costruzione architettonica della sceneggiatura - co-scritta dallo stesso regista - non è un caso che Tomas occupi il vertice del triangolo sopracitato, dalla cui posizione impone lo sguardo spettatoriale verso gli eventi che cominciano a rincorsi, in un saliscendi di toni che spaziano dalla commedia nera al dramma sentimentale.
La regressione infantile di Tomas quindi, diventa visivamente esplicita quando, concretizzata la sua volontà di lasciare Martin per trasferirsi a casa di Agathe, ripensa alla sua scelta nel momento in cui un giovane scrittore, Ahmad, comincia a frequentare quello che dovrebbe essere il suo ex marito. In questo modo, riprendendo quel rapporto già citato tra il mondo davanti la macchina da presa e quello dietro, appare chiaro come la stessa professione di Tomas - quella del regista cinematografico -, rifletta per osmosi i suoi rapporti sociali.
L’agire dell’uomo, seppur insito nella quotidianità Parigina in cui vive, non può che guardare al mondo della performatività, della recitazione, in cui se qualcosa va storto si può sempre battere un altro ciak e ricominciare, senza troppe conseguenze. All’interno di questo approccio da performer, l’Io di Tomas non può che apparire frammentato, in crisi, alla costante ricerca di un nuovo modo di sentire che detta, in primis, la sua stessa identità di genere.
Passages, spinto anche dalla cifra stilistica delle produzioni Mubi, non solo rifiuta l’esigenza di etichettare il rapporto di Tomas con la sessualità ed i sentimenti, ma trasforma la sua intera parabola filmica in una spirale frizzante che ingloba l’apparato tecnico del film. Risucchiati all’interno della suddetta spirale, passiamo gradualmente, accompagnati dai tre atti della sceneggiatura, dal matrimonio con Martin, alla convivenza con Agathe, per poi ripensarci e tornare di nuovo tra le braccia dell’Inglese, senza davvero poter rinunciare alla donna. Tutto appare sfumato, facile come un gioco, in cui si esplora il confine stesso del rapporto matrimoniale spingendolo oltre, slegandolo finalmente dall’idea di istituzione vincolante che, ancora oggi, detta il nostro modo di pensare. In questo modo sullo schermo si alternano – spesso sconfinando– i momenti tra le due diverse coppie, indugiando sui rapporti sessuali per cogliere visivamente, grazie alla nitidezza dei toni fotografici, la differenza tra i due corpi (maschile e femminile) nonché le loro similitudini.
Nel gioco di coppie di Passages, nonostante il continuo combinarsi di scambi e gelosie rocambolesche, la solidità della regia di Ira Sachs non può che costruire un film intelligente, ben calcolato, che si inserisce nel panorama cinematografico francese, soprattutto quello contemporaneo. I toni narrativi, che come citato appaiono ibridati riflettendo i passaggi di coppia con risate e momenti di forte serietà, ricordano lo sguardo del famoso regista e critico cinematografico Olivier Assayas. In una simile possibilità retrospettiva, la stessa psicologia dei personaggi diventa parte integrante della messa in scena, portando il triangolo ad innalzarsi verso una comprensione che fuoriesce dalla singola simbologia filmica.
Agathe e Martin, catturati dalla tela infantile di Tomas, diventano pian piano personaggi concreti, con una possibilità di crescita che sul finale li porterà ad una maggiore consapevolezza, occupando gradualmente lo spazio diegetico in cui sono inseriti. Ed è proprio attraverso il rapporto con lo spazio circostante, la Parigi contemporanea, che lo schianto dell’orchestrazione registica di Tomas (ma anche quella concreta del regista del film) farà più rumore, dimostrando di non poter davvero sopravvivere al di fuori, nel mondo reale.
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