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  • Writer's pictureKoinè Journal

Pelè: un salto nel vuoto ad occhi (quasi) chiusi


di Cosimo Bettoni.


I pericoli del bianco e nero

Quando ormai mancano meno di dieci giorni all’inizio del primo Mondiale ‘’invernale’’ della storia del calcio, mi rendo conto che il sentimento più forte sino a questo momento è la calma.

Come approcciarsi ad una manifestazione che porta tradizionalmente con se’ una frenesia capace di oscurare qualsiasi altro evento? Sembra giusto chiedersi se davvero il calcio possa anche stavolta riuscire nel miracolo di mettere in pausa tutte le preoccupazioni.

Ma abbandoniamo un attimo i dubbi del presente per addentrarci assieme nel passato di questo sport, approcciandomi al quale devo ammettere di nutrire una certa paura, dovuta soprattutto al fatto che pochi sport sono riusciti nell’impresa di mitizzare il proprio passato come il calcio.

Se poi si decide di parlare di Pelé, ovvero del simbolo stesso del calcio, allora i rischi diventano infiniti.


Il leggendario numero di reti realizzate (la ‘’tradizione’’ vorrebbe 1283, la FIFA ne calcola 757), il primato nelle vittorie al Mondiale, il premio di ‘’Calciatore del secolo’’, l’essere divenuto una figura della cultura pop: tutti questi riconoscimenti rendono impossibile scrivere una biografia che non scada nell’elogio o nel panegirico.

Si deve fare attenzione però: non si deve in alcun modo pensare che questo sia un risultato del tutto naturale, che si spiega esclusivamente attraverso le gesta del nostro protagonista e che non sia dovuto ad una raffinata elaborazione post-facta.

La letteratura sportiva raramente ha prodotto dei risultati letterari realmente degni di nota, salvo pochissime eccezioni, tra le quali mi piace ricordare la biografia di Andre Agassi e quelle di Mike Tyson, i cui buoni esiti non sono dovuti al caso: si tratta di storie non comuni, raccontate da persone non scontate.Nel tracciare una biografia di Pelé il rischio di esagerare o di risultare prevedibili nelle scelte narrative (la storia del ragazzo predestinato nato nelle favelas) è a mio modo di vedere ancora più semplice.

Nella seconda trappola è cascato senza dubbio l’omonimo film biografico diretto nel 2016 dai fratelli Zimbalist, colpevoli di aver arricchito con delle invenzioni una storia che di per se’ è già densa.

Nel mio piccolo ho cercato di evitare di approcciarmi alla storia di Pelé cercando di collezionare i tradizionali aneddoti che di solito vengono presentati (uno su tutti quello legato al suo nome), preferendo un approccio a metà tra il cinico e l’arrendevole, che lasci spazio a quanto fatto dall’uomo e a quanto invece è stato voluto dal motore che muove le stelle dell’universo, da alcuni noto anche come Dio.



‘’How do you spell Pelé? G-O-D’’

La leggenda di Pelé poggia principalmente su due grandi pilastri: i tre Campionati del Mondo, vinti rispettivamente nel 1958, 1962 e nel 1970, e lo straordinario successo mediatico raggiunto dal suo personaggio nel corso degli anni.

Risulta utile, anche per aiutare chi è a digiuno di storia del calcio, cominciare da un’analisi delle tre vittoriose campagne mondiali, quelle che hanno di fatto inciso il nome di Pelé nell’Olimpo dello sport.

Quando il Brasile alza la coppa per la prima volta nel 1958, Pelè non ha nemmeno compiuto diciotto anni, ha scritto solo l’incipit della sua leggendaria carriera: è il momento di partenza per la narrativa del giovane fenomeno, pronto ad ascendere alla leggenda.

Il Mondiale del 1962 dovrebbe essere quello della conferma, ma un infortunio alla seconda giornata lo tiene fuori dal resto della manifestazione, che viene comunque vinta dal Brasile.

Il protagonista ora deve cercare una nuova conferma, che potrebbe arrivare al Mondiale del 1966, dove però è ancora una volta un infortunio a condannare Pelé all’insuccesso, destino condiviso anche dalla squadra brasiliana, eliminata ai gironi.

L’eroe ha bisogno ora del riscatto, di un’occasione di dimostrare la propria incontrastabile superiorità.


Il momento arriva con il Mondiale messicano del 1970, in cui il Brasile si presenta con una squadra che avrebbe potuto vincere senza portiere e difesa (è anche la nazionale di Jairzinho, Tostao e Gerson).

Il torneo è un’ascesa trionfale, che ha come momento culminante il folgorante goal di testa segnato in finale contro l’Italia, dopo la quale Pelé viene sollevato da Jairzinho: è forse l’esultanza più celebre dei mondiali, immortalata per sempre nelle stupende fotografie dell’epoca.

L’eroe ha vinto, la sua storia è pronta per essere narrata ai posteri; eppure il gioco non è finito. Il gioco non può finire perché non deve avere limiti.

Ed è per questo che dopo aver conquistato il Suo mondo, Pelé deve riuscire a conquistare anche l’altro mondo, quello dello americano, da sempre poco interessato al calcio.

L’impresa titanica è accettata: i dollari americani ridestano dal sonno la leggenda, che sbarca negli U.S.A. e diventa un’icona globale, lo sportivo senza macchia che la FIFA da quel momento sino ad oggi ha utilizzato come proprio ambasciatore e paladino.

Risulta chiaro che in questa narrazione vi sia qualcosa di evidentemente artificioso, che ci sono degli elementi volutamente romanzanti, che presentano il fuoriclasse brasiliano in maniera del tutto monodimensionale.

Nella storia raccontata dalla FIFA e dalle statistiche c’è spazio per una sola strada, quella dell’eroe positivo ed incontaminato, privo di ambizioni ossessive o di un desiderio meschino come quello di arricchirsi.


Di Pelé dunque rimangono solo i record e le statistiche, non la fulminante velocità, lo stacco irreale per uno di quell’altezza, il magnetismo animale che impediva ai difensori di non sentirsi intimoriti, persino il meritato titolo che il Sunday Times gli dedica all’indomani della finale del 1970 (‘’How do you spell Pelé? G-O-D!’’) rimane nel dimenticatoio per fare spazio all’umile ragazzo brasiliano che ha dominato il mondo con la sua immagine pulita.

Tutto questo è stato nascosto. Non ci resta che scoprire il perché.


A metà tra Romolo e Kierkegaard

Perché la mano umana ha sentito il bisogno di riscrivere il mito di Pelé nascondendone il lato più selvaggio e dionisiaco?

La risposta pare ovvia. Con Pelé scompare il piano della razionalità, che fa spazio ad una vasta gamma di sentimenti che lasciano poco spazio ad ogni forma di oggettività scientifica.

Il primo di questi è la devozione, quella forma di attrazione che l’uomo da sempre ha indirizzato verso imperatori e divinità, verso quelle figure che nell’immaginario comune hanno trasceso la semplice vicenda biologico-temporale.

Non avendo strumenti adatti per esprimere un giudizio definitivo, dobbiamo accettare che la fede è l’unica cosa che ci resta.

Accettare che guardar giocare Pelé ha significato vivere un’esperienza voluta da un progetto più grande era qualcosa di inaccettabile per la mente umana, che ha preferito attivare la propria valvola di negazione e raffigurare l’eroe come un personaggio inconsapevole del proprio destino.


La narrazione del Pelé come sportivo senza macchia fu la costruzione successiva, il mezzo attraverso cui i contemporanei hanno cercato di tradurre e interpretare nella lingua di tutti i giorni delle imprese che trascendevano la semplice fisica umana.

Recarsi oggi al santuario di Pelé significa accettare tutto questo e al tempo stesso decidere di percorrere quella che per Kierkegaard era la via della fede: un salto nel vuoto, ad occhi chiusi, in un immenso mondo bianco rispetto al quale comprendiamo tutta la nostra inferiorità.

Quello che possiamo fare è solo credere a chi è venuto prima, a chi la perla nera l’ha vista davvero e ha deciso di lasciarci frammenti di un ritratto ormai coperto dalla narrativa antropocentrica e standardizzata

L

a verità è che l’uomo lasciò il posto al divino. Se anche Edson Arantes do Nascimento è esistito, costui è scomparso per sempre a Solna il 29 Giugno 1958, il giorno in cui è nato Pelé, il Dio del calcio, l’uomo che ha invertito il corso della rotta e della storia portando una nazione sudamericana alla vittoria sugli antichi padroni europei.

Come l’antico Romolo, scomparso nella nebbia e riapparso come dio Quirino, così la vicenda del fuoriclasse si staglia su di noi come quel fumoso mito, solo che noi, uomini secolarizzati del XXI secolo, facciamo fatica ad accoglierne il mistero.

Il nostro essere diventati umanisti laici ci rende vulnerabili soprattutto alla fascinazione generata da altre storie, come quella di Diego Armando Maradona.

Lui sì, come un novello Ettore, ha scelto di non librarsi al di sopra di noi altri, ma di vivere e di essere vincibile, di essere logorato dai vizi e dalle infinite contraddizioni che solo un eroe romantico come lui poteva incarnare.

Maradona ci ha sedotto e ingannato, ci ha fatto credere che tutti noi saremmo potuti essere come lui, o per meglio dire che tutti noi avremmo potuto fare quello che ha fatto lui.

La vicenda del ragazzo di Bauru non ha nulla a che fare con quella del pibe de oro, è fatta di tutt’altra materia.


Pelé è quanto di più vicino ad Achille possa offrire la storia contemporanea: un eroe invincibile e inarrivabile, consapevole della sua superiorità, di possedere qualità e difetti fuori scala rispetto a quelli degli altri, di dover portare fino in fondo un destino impostogli dall’alto fin dal primo momento e desideroso (a differenza della controparte argentina) di dimostrare sempre che tra lui e gli altri c’è un distacco inarrivabile.

Sfuggirà sempre verso la vittoria garantitagli dall’eternità di cui parla Orazio, sconfitto infine non da una freccia come il suo omerico predecessore, ma dalla nostra incapacità di accettare la presenza di una necessità superiore.

Eppure un barlume di speranza resiste ancora oggi, capace di manifestarsi di tanto in tanto nelle parole di uomini mai banali e caratterizzati da quel meraviglioso sentimento che è la genuina spontaneità.


Uomini come Federico Buffa, che in uno splendido documentario prodotto da Sky nel 2021 disse:

‘’Doppelgänger è un'espressione tedesca che si potrebbe tradurre con l'altro viandante. È un concetto antichissimo, rintracciabile nel mito, nel folclore e poi in psicanalisi. Assume che, da qualche parte, nel grande universo, ci sia un essere vivente identico a noi. E se foste entrati in un giorno qualsiasi del '56 o del '57 nello spogliatoio del Santos Futebol Clube…. vi avrebbero raccontato che anche lì stava succedendo qualcosa di analogo. Da qualche tempo, infatti, in quello spogliatoio si cambiava un imberbe post-fanciullo dal nome di Edson Arantes do Nascimento. Il giorno della partita amava farsi massaggiare per ultimo, possibilmente con delle salviette riscaldate, ma a massaggio ultimato, non si alzava dal lettino, anzi, afferrava una di quelle salviette e se la calava lungo il petto, sino a coprirsi il volto e rimaneva immobile. Poi, con gesto elegante, perché il post-fanciullo conosceva solo gesti eleganti, la smetteva, e silente si metteva a disposizione, ma i suoi compagni di allora raccontano che ognuno di loro aveva intuito, che non era la stessa persona, ma un'altra, ovvero un uomo di cui Edson, infatti, avrebbe sempre parlato in terza persona. Talmente conosciuto da non dover mai mostrare il passaporto e che sarà addirittura dichiarato patrimonio dell'umanità. Era l'altro viandante. Era Pelé’’.






Bibliografia






Image Copyright: Storie di Calcio

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