Perchè è tornato il militarismo?
- Koinè Journal

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di Michele Mariani.
Per quale motivo stiamo assistendo a una sempre più pressante diffusione di proclami, da parte di capi di stato e del governo e CEO di imprese multimiliardarie, atti a convincere l’opinione pubblica della positività e delle nuove possibilità aperte dalle frontiere di guerra? Giornalisti, intellettuali e politici che ci convincono sulla necessità della guerra, come ritualità spirituale grazie alla quale andrebbero recuperati quei valori romantici del passato che avevano forgiato il culto nazionale e allevato una generazione di figli della Patria forti e vigorosi. Lo schema è sempre lo stesso, dovremmo essere ben istruiti su questo: si susseguono discorsi ampollosi sulla sicurezza nazionale da un presunto attacco esterno, si crea il nemico interno qualificato come disertore, quello esterno, giudicato come lo straniero di turno o il nemico del mondo libero e civilizzato; si paventa la reintroduzione della leva militare volontaria, obbligatoria o a sorteggio e, si assiste in diretta televisiva alla presentazione del Michelangelo Dome il nuovo marchingegno bellico della Leonardo SPA, l’azienda italiana tra le più grosse produttrici ed esportatrici di armi in tutto il mondo.
La guerra sembra essere diventata ineluttabile. Lo abbiamo visto con il piano Rearm Europe e la corsa al riarmo che, negli anni successivi al Coronavirus, sono entrati a far parte delle agende degli Stati nazionali. È nota la stretta offensiva, a stelle e strisce, sui programmi di spesa degli alleati europei con la richiesta di aumentare fino al 5% del PIL per la spesa in armamenti per i paesi rientranti nel Patto del Nord Atlantico. L’industria bellica sorride e i comparti produttivi vengono riconvertiti per un’economia di guerra, le compagnie dell’automotiv producono ora carri armati, macchine cingolate per attraversare i teatri di guerra. La logica bellicista pervade il corpo sociale, marcia, produce in serie e offusca le menti. Il discorso securitario e bellicista va di pari passo con le decisioni politiche che imprimono un’accelerata poderosa verso la corsa agli armamenti. “L’Italia ripudia la guerra”, così recita l’articolo 11 della Costituzione Italiana. Un principio di così alto valore morale ed etico dovrebbe essere celebrato quotidianamente; andrebbe agito ogni giorno e rimembrato a chi afferma che “la guerra è un male necessario, a coloro i quali invitano a indossare l’elmetto e a quelli che credono che la sicurezza si ottiene aumentando la spesa militare e armandosi”.
La legge di Bilancio per il 2026 va in direzione opposta e contraria rispetto all’articolo 11 della carta costituzionale. Rinominata la “finanziaria di guerra” per via delle ingenti risorse destinate all’incremento della spesa militare a discapito della spesa sociale, e per la preparazione di un’economia focalizzata sul riarmo e sul sostegno alle industrie belliche, prevede che l’Italia si impegni - in linea con gli accordi Nato - ad aumentare significativamente le risorse per la difesa, arrivando potenzialmente a destinare fino al 5% della spesa per il PIL. Secondo l’osservatorio Milex, l’osservatorio per le spese militari, gli stanziamenti in difesa di questa legge di bilancio vanno considerati al netto degli ingenti aumenti di spesa militare (quasi 23 miliardi nel prossimo triennio) previsti dal Documento di programmazione finanziaria pluriennale varato dal governo a inizio ottobre, ma che diventeranno effettivi solo dopo che l’Ue – a seguito dei risparmi operati in legge di bilancio – certificherà l’uscita dall’Italia dalla procedura di infrazione per deficit eccessivo, consentendo l’attivazione della clausola di salvaguardia per le spese in difesa. Premesso ciò l’osservatorio ha evidenziato alcuni dati preoccupanti riguardanti l’aumento della spesa militare. In primo luogo la legge di bilancio prevede un'ulteriore crescita della spesa militare, raggiungendo una cifra record di circa 34 miliardi di euro per il 2026, un aumento di circa 1 miliardo rispetto all'anno precedente, con quasi 10 miliardi destinati all'acquisto di nuovi armamenti, evidenziando un trend di riarmo continuo. Un aumento esponenziale che da anni è diventato la regola.
In secondo luogo il reperimento delle risorse verranno dirottate dal welfare e dal comparto dei servizi pubblici, con conseguenti riduzioni salariali e nei settori riguardanti la sanità, l’istruzione e la ricerca. In terzo luogo si andrà a configurare sempre di più un modello economico dove le risorse vengono allocate per sostenere lo sforzo bellico e l’industria legata alla difesa, preparando l’opinione pubblica alla necessità di un’economia militarizzata, a discapito dei diritti sociali dei lavoratori, delle lavoratrici, delle cittadine e dei cittadini. Questa manovra è una scelta politica ben precisa utile al governo per fidelizzarsi, in generale, l’alleato statunitense e in particolare al progetto di riarmo europeo. Oltre i calcoli cinici e di realpolitik, questa banalizzante retorica sulla guerra dimostra un aspetto ancor più problematico: uno scollamento difficilmente sanabile tra i veri bisogni dei cittadini e le scelte politiche, sempre più distanti dalle richieste e dalle tutele sociali che pretendono le persone.
Psicosi bellica di massa
Perché nel senso comune e nell’ordine dialettico del discorso anteponiamo codici linguistici relativi al bellicismo e difficilmente riusciamo a costruire un discorso di cura e di pace? Perché la guerra è diventata una “necessità storica” e un “male necessario” da affrontare? Perché è diffusa l’opinione che la sicurezza si possa raggiungere attraverso un aumento delle spese militari piuttosto che provando ad assicurare a tutti e a tutte condizioni di vita migliore?
Probabilmente è la sclerotizzazione guerrafondaia che conduce il nostro inconscio collettivo e, allo stesso tempo, i termini del discorso mediatico e quotidiano all’interno di una lenta, ma inesorabile banalizzazione della guerra. In fondo le generazioni della società post nucleare la guerra l'hanno vista solo in televisione o simulata nei videogiochi. Quando si faceva finta di credere che la guerra era un problema sempre degli altri perché considerati barbari, la sovrastimolazione mediatica da violenza, conduceva lo spettatore a una paralisi cognitiva. Infatti in questi casi l’oggetto che rimbalza dai nostri schermi, smussato dal racconto televisivo o digitale, viene costruito come un evento distante e mediaticamente poco rilevante rispetto alla vera rilevanza all’evento in sé. Solitamente le immagini di guerra riprodotte nei nostri schermi non riescono a disturbare più di tanto e a provocare quella spinta vitale che si dovrebbe richiedere a tutta l’umanità. Ma dato che la guerra è tornata ad essere una prospettiva possibile, è lì che si assiste a una chiamata alle armi e a una difesa senza quartiere della propria identità. Si produce così una sorta di dissonanza collettiva, data dallo stato di eccezionalità pronta ad attivarsi ogni qualvolta viene diffusa l’idea che la civiltà occidentale è sul l’orlo del baratro. Ed è lì, all’interno di questa narrazione che si attiva un meccanismo, come una tensione, che conduce a un imperativo morale: la chiamata alle armi. Il problema di tutto ciò è che però non abbiamo gli strumenti cognitivi per immaginare cosa significhi vivere quotidianamente in un contesto di guerra. Il che è paradossale perché siamo pervasi da immagini violente e da slanci di virilità che gridano all’azione bellica.
In questi frame dissonanti si genera il paradosso della guerra giusta che pervade ogni ambito sociale. Dalla scuola, all'università fino alla nostra quotidianità, il gergo bellico e le pratiche belliciste si insinuano come un virus che incancrenisce l’organismo collettivo. Avviene che l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza somministri un questionario a ragazzi e ragazze di età compresa tra i 14 e i 18 anni, nel quale viene chiesto se, “qualora il Paese entrasse in guerra, essi si sentirebbero responsabili e, se necessario, fossero disposti ad arruolarsi”. C’è un'altra questione rimasta sotto traccia: i fondi pubblici per la ricerca universitaria si stanno orientando sempre più verso il dual-use, con l'Unione Europea e i governi nazionali, tra cui l'Italia, che spingono per sinergie tra ricerca civile e militare, soprattutto in aree come IA, quantistica, cyber e spaziale, attraverso bandi specifici e collaborazioni con industrie e università. Infatti la Commissione europea intende rafforzare i legami tra i programmi di ricerca civile e quelli in ambito difensivo, con l’obiettivo di facilitare il trasferimento bidirezionale di tecnologie tra i due ambiti. Inoltre le celebrazioni in pompa magna ad Ancona per la cerimonia militare in occasione della Giornata dell’unità Nazionale e delle Forze Armate dimostrano che il virus bellicista e il fascino per la divisa è tornato di moda. Tra l’emozione espressa dalle istituzioni locali e quella dei cittadini gratificati dall’evento, come se stessero passeggiando in una fiera di paese, si consuma l’esaltazione dell’apparato militare italiano, con buona pace dei “bistrattati pacifisti e perbenisti”, come vengono oggi etichettati coloro che ritengono che la pace, la giustizia e la solidarietà debbano essere valori da salvaguardare in tutto il mondo.
Probabilmente questa ritualità e spiritualità è sempre stata viva e arde all’interno dell’inconscio collettivo. L’Italia ha un problema con la sua memoria storica, infatti preferisce insabbiare il suo passato imperiale e sventolare la bandiera identitaria, mentre la carta costituzionale viene devitalizzata, così come quel suo principio morale ed etico che innalza a valore universale il ripudio della guerra.
Costruire la pace: per una pedagogia antimilitarista
Il primo passo per costruire una pedagogia che miri alla pace e alla non violenza è quello di unire teoria e prassi. La teoria ci permette di elaborare i termini dell’analisi da cui partire per decostruire e scardinare da un punto di vista logico-deduttivo quegli elementi del discorso che mirano alla banalizzazione e alla semplificazione dell’esistente. La prassi contribuisce a mettere al centro l’attività umana come fare critico volto alla trasformazione della realtà. Come si può intuire sono due attività che si trovano in costante sinergia dialettica poiché hanno la forza di produrre un continuo movimento teorico e pratico - un divenire - che mira alla trasformazione e al cambiamento. Il linguaggio e l’agire etico sono gli strumenti concettuali e pratici che collegano la teoria alla prassi e la prassi alla teoria. Quando parliamo di pace e non violenza a cosa ci riferiamo? Perché quando definiamo che cos’è la pace siamo soliti concepirla come assenza di guerra, dando una un'interpretazione negativa dei termini del discorso. Il nostro intelletto fatica a definire cos’è la pace e non la violenza mentre riesce a spiegarsi più facilmente cosa non è; sostengo per due motivi tra loro legati. La prima perché il pensiero logico-deduttivo procede per cause ed effetti, mentre la creazione di concetti che, sappiano scavare la complessità, è per definizione un atto creativo e d’immaginazione costante e in divenire, che apre nuove possibilità e a nuove categorie del pensiero. La seconda motivazione è dovuta alla sovrastimolazione neuronale che riceviamo dai nostri dispositivi digitali che distorcono la realtà rendendola difficilmente decifrabile. Recuperando le parole di Gunther Anders potremmo dire che: “il rapporto tradizionale tra fantasia e azione si è rovesciato. Se era naturale, per i nostri antenati, considerare la fantasia “esorbitante”, esuberante, eccessiva, e cioè tale che superava e trascendeva l’ambito del reale, oggi i poteri della nostra fantasia (e i limiti della nostra sensibilità e della nostra responsabilità) sono inferiori a quelli della nostra prassi”. (G. Anders, L’uomo è antiquato. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale)
Il linguaggio d’odio e la violenza sembrano essere ovunque, mentre si fatica a costruire la pace e a dare spazio a rapporti umani che fuoriescono da una logica prettamente legata allo scambio. Da questo punto di vista la prassi dovrebbe fondarsi su una logica relazionale volta al riconoscimento del dono come pratica di condivisione che metta al centro il bene comune. Dato che sono i rapporti sociali e umani a strutturare il mondo se noi capiamo che il cambiamento passa attraverso le nostre azioni e i nostri comportamenti, allora in questo modo possiamo far comunicare il pensiero con l’agire. Per promuovere una tale attività volta alla trasformazione dei rapporti sociali dovremmo cercare di partire da alcune domande sul nostro essere, ma che sono fatte apposta per promuovere un dibattito trasformativo e collettivo.
Questo esercizio pedagogico favorisce una riflessione sul nostro agire comunitario, inteso come una pratica relazionale che ci connette agli altri e si fonda su un linguaggio di cura e di rispetto, libero da qualsiasi logica di dominio. Questa pratica pedagogica nonviolenta, etica e responsabile si mette in moto con una serie di domande stimolo mirate che salgono di intensità e indagano sia il singolo che il rapporto con gli altri e con il mondo circostante, come ad esempio: “Chi sono io, qual è il rapporto e i comportamenti che metto in pratica quando sono con gli altri; o ancora tendo ad impormi durante un dialogo o ascolto chi dialoga con me? Cosa posso fare nel mondo, nella mia comunità, nel mio quartiere per curarlo e viverlo al meglio con gli altri”; oppure che tipo di linguaggio e parole utilizziamo quando nominiamo la vulnerabilità, la povertà, l’esclusione sociale, la disabilità, la differenza di genere o razziale?” Potremmo definire questa pratica pedagogica libera da sintomi gerarchici e autoritari poiché si struttura come un dialogo aperto e dialettico tra l’io, il tu, il noi e la collettività. Da questo punto di vista il rapporto tra teoria e prassi si nutre di un linguaggio performativo, ovvero un linguaggio inteso come azione che agisce sul reale. Infatti come afferma Judith Butler, ma del resto anche Michel Foucault, Manuel Wittgenstein e Vera Gheno, il linguaggio non è solo una categoria mentale neutra che descrive, ma si produce come un’azione e uno strumento che agisce sul reale. In tal senso disarmare il linguaggio - offrirgli una scappatoia lontano da logiche identitarie e manichee - significa invertire i termini del discorso e renderlo costruttore di pace. In tal senso il linguaggio assume una connotazione positiva, si arricchisce di significati e significanti poiché la pace non è solo assenza di guerra o un trattato di non belligeranza pronto ad essere tradito dalle parti. La pace è un patto sociale che si costruisce nei quartieri, nelle comunità, nelle città; si costruisce come un atto di cura reciproca verso le altre persone e verso la natura. La pace si fonda nel mutuo aiuto, come una pratica di vicinanza e si costruisce in un gesto in una parola che diano conforto a chi ne ha bisogno. La pace si costruisce investendo nella cultura, nella scuola, nella ricerca, nei diritti sociali, nei giovani. Costruire pace significa vivere relazioni fondate sul rispetto e sull’ascolto. Aprirsi al dialogo, praticare solidarietà ogni giorno. Ad esempio, una buona pratica per costruire la pace è il Servizio Civile che educa a tutto questo, dato che nasce come strumento di cittadinanza attiva, partecipazione democratica, adesione ai valori della Costituzione, difesa non armata come rifiuto della leva militare e obiezione di coscienza.
Mentre il linguaggio violento e prevaricatore si riconosce poiché è un atto locutorio che produce subordinazione ed è connotato da un’asimmetria di potere tra l’emittente e il destinatario. Mentre per costruire una pedagogia non violenta bisogna decostruire la lingua che esclude e crea odio, violenta e discrimina l’altro. Serve una risemantizzazione del linguaggio e delle parole per abbandonare la lingua del dominante e della meccanizzazione burocratica per porsi all’ascolto e suscitare empatia e cura comunitaria.
Serve curare lo spazio pubblico della parola per smilitarizzare il corpo sociale e costruire uno spazio d’ascolto curando le parole per decolonizzare i saperi e abbracciare la complessità delle questioni sociali, politiche, economiche, filosofiche e storiche come metodo per non scivolare in banalizzazioni e semplificazioni della realtà. In tal senso la trasformazione è dialetticamente positiva perché può produrre un contagio sociale. Inoltre questa connessione tra teoria e prassi è un atto politico che ha la forza di estendersi agli altri tramite le azioni e i comportamenti che decidiamo di mettere in pratica e offrire come esempio agli altri. Infatti l’agire etico si mostra come una categoria filosofica che unisce teoria e prassi e si concretizza nel principio di responsabilità. Un principio che l’umanità si deve assumere verso i posteri, non soltanto verso i singoli individui ma nei confronti dell’idea stessa di essere umano. Questo principio, a fondamento dell'agire etico orientato al futuro, si estende come un agire morale guidato dal garantire la sopravvivenza dell’umanità. L'etica dell'agire responsabile è una prassi che può esperirsi quotidianamente, mentre ogni pratica identitaria di ricaduta nell’io conduce ad una pratica manicheista all’interno di una dialettica oppositiva, negativa e violenta del “noi” contro “loro”.
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