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Quelli che si definiscono bravi. Lo scempio della Libia

Updated: Jan 21


di Luca Simone.


Tutti abbiamo sentito almeno una volta nella vita l’espressione Italiani brava gente, resa celebre dal famoso film del 1964 di Giuseppe de Santis, che racconta la storia di un composito gruppo di soldati del CSIR, rappresentati secondo il classico stereotipo della bonarietà e dell’ignoranza. In fondo, a tutti noi fa comodo che questo cliché perduri. Ma si tratta solo e soltanto di uno stereotipo. E questo, alle nostre coscienze, abbiamo il dovere morale e storico di confessarlo.


«Uno scudo di bonarietà, di giovialità, di naturale inclinazione alla mitezza e alla socialità cordiale che avrebbe dovuto mettere [gli italiani] al riparo dall'ostilità efferata, un confortevole cuscinetto capace di attutire l'urto drammatico della storia e della crudeltà.» (Battista 2004)


Così Pierluigi Battista ha definito questa concezione, appoggiato in questa sua “intemerata”, anche da un grande studioso, come Angelo Del Boca, pioniere degli studi sulle atrocità commesse nell’esperienza coloniale nazionale. Le origini di quello che a tutti gli effetti è un mito sono dibattute, e si perdono nelle teorie più disparate. La patina di malcelata ignoranza riguardo eventi che insozzano la nostra storia nazionale è stata per decenni però uno scudo troppo comodo dietro al quale nascondersi. Soprattutto per quanto riguarda il periodo fascista, individuabile come il vero zenit toccato dalle responsabilità criminali della brava gente italica. Per ragioni di politica interna e non, le nostre birbonate sono state ignorate, e si è ricercato un solo grande cattivo teutonico, risparmiando al povero soldato italiano con le scarpe di cartone e i fiori nel fucile, un tribunale che spiegasse i campi di concentramento, i gas, gli stupri, le impiccagioni e le fucilazioni sommarie. Questa rubrica tenterà di fare luce per quanto possibile su una verità che a lungo ci ha trovati disinteressati, analizzando tre momenti chiave della storia del nostro Paese, che ben poco hanno a che vedere con il bravo italiano. E non hanno nulla a che vedere neppure con l’italiano essere umano.


Il carnaio libico

«È difficile stabilire una graduatoria, ma sicuramente non si sbaglia affermando che durante lo “scramble for Africa” nessuna potenza fu guidata da nobili propositi e da illuminati progetti, ma fu ispirata soltanto dalla rapina, dall’assoluta mancanza di scrupoli e da un profondo disprezzo per le popolazioni autoctone unito alla totale ignoranza della loro storia e della loro cultura. (…) Il comportamento degli italiani, scesi in campo per ultimi, con pochi mezzi e confusi progetti, non fu dissimile da quello delle altre potenze coloniali. (…) Con l’avvento del fascismo, poi, le condizioni dei sudditi coloniali si fecero ancora più precarie (…).» (Del Boca 2005: 323)


Non fu il buon vecchio Mussolini a mettere per primo piede in Libia, e ad onor del vero non fu neppure lui a dare inizio al colonialismo italiano. Ci aveva pensato già l’Italia liberale guidata da Crispi nel 1882 ad avventarsi sull’Africa con l’acquisto della baia di Assab. Sempre il vecchio garibaldino, nel 1895, aveva provato ad ampliare i possedimenti coloniali invadendo l’Abissinia, rimediando però la più grave sconfitta di una potenza coloniale europea in terra d’Africa il 1°marzo 1896 nel massacro di Adua, che costrinse l’Italia a ritirarsi e a fasciarsi le ferite per qualche tempo. Lo scacco fu un colpo durissimo per l’onore militare del Paese, tanto che lo stesso Crispi fu ben presto costretto a dimettersi, ma il sentimento di rivalsa dell’ala nazionalista era quantomai fiammeggiante. Con l’inizio del nuovo Secolo, gli occhi iniziarono così ad essere puntati su uno dei pochissimi territori ancora liberi sul quale potersi avventare, la Libia. Formalmente amministrata da Istanbul, la regione era però animata da fermenti indipendentisti, e mal sopportava un governo lontano ed inefficiente. Iniziò così a circolare la leggenda che dipingeva una terra arida, povera (non erano ancora stati scoperti i pozzi di petrolio) e spopolata, come invece la patria dell’abbondanza attraversata da fiumi di latte e miele. Scriveva così Enrico Corradini: «Che olivi folti, cupi, non potati, selvosi, carichi di olive! Viti atterrate dal peso dei grappoli. Altro che deserto! Siamo in terra promessa» (Corradini 1911: 74). Pochissimi si seppero allontanare dal fervore nazionalista di cui rimase vittima anche lo stesso Pascoli, e tra questi ci fu certamente Gaetano Salvemini che, lucidissimo nella sua analisi, descrisse invece la Libia come una «una enorme voragine di sabbia» (Salvemini 1944: 78). Anche il freddo calcolatore Giolitti, inebriato dal sentimento patriottico e convinto della facilità dell’impresa dal ministro degli Esteri, si lasciò trascinare dall’entusiasmo, lanciando le truppe all’assalto del destino (Del Boca 2005: 52).


Dopo la decadenza dell’ultimatum inviato ad una Turchia piegata dalla rivoluzione interna dei Giovani Turchi e dalle pressioni balcaniche, il 3 ottobre 1911, iniziò la “passeggiata” che avrebbe in poco tempo portato gli italiani a sbaragliare le deboli difese ottomane e a prendere possesso del paese. O almeno a credere di averlo fatto. Il 23 ottobre infatti, le prime avvisaglie di un’occupazione difficile vennero a galla nel disastro di Sciara Sciat. Due compagnie di bersaglieri vennero infatti annientate in un labirinto di Oasi da regolari turchi e miliziani libici, profondi conoscitori del deserto e delle sue regole, a differenza degli impomatati soldati d’oltremare. L’Italia iniziò così quella politica del terrore per avere ragione della resistenza degli indigeni, che avrebbe insanguinato per decenni la regione. Per prima venne eretta una forca al centro di Tripoli a cui vennero appesi 14 poveri disgraziati alla vista dell’intera città, un monito per i “ribelli”. E ben presto si aprì la “caccia all’arabo” per le vie della città, una disciplina sportiva che sarebbe stata responsabile di quasi 4000 morti (Del Boca 2005: 54). Giolitti scrisse di suo pugno all’indomani di questi eventi al generale Caneva, ordinando la deportazione di tutti gli arabi arrestati e accusati di “tradimento”. Sarebbe iniziata così una deportazione tra il 25 e il 30 ottobre che avrebbe coinvolto un numero di persone impossibile da calcolare. Ai 4000 ribelli, si aggiunsero infatti una moltitudine di disgraziati, donne, vecchi e bambini, arrestati nelle loro case e trascinati a forza sui piroscafi senza un processo o un’accusa precisa, se non quella di essere arabi (Sulpizi 2000: 31-32). Il numero dei morti è incalcolabile, ma il tifo, il colera, la malnutrizione e le violenze, falcidiarono circa il 31% della massa originaria di quei disperati gettati sui più disparati lembi di terra in possesso del glorioso Regno d’Italia (Bernini 2002: 128). Così descrive quella “villeggiatura” uno di quei prigionieri, il poeta Fadil Hasin ash-Shalmani, arrestato senza alcuna accusa:


Siamo in piccole celle, pressati, senza la luce del sole chiuse le porte di ferro serrate. E ovunque io guardi, non vedo che Italiani.


Dopo quasi un anno di combattimenti, e 100.000 militari impiegati, il 18 ottobre 1912, a Ouchy vennero firmati i trattati che assegnavano all’Italia il suo posto al sole, riscattando al prezzo di soli 3.500 morti nazionali, e di qualche decina di migliaia di morti indigeni l’onore del paese. Adua era vendicata.


Tripoli bel suol d’amore

Nonostante i trattati avessero assegnato all’Italia il governo dell’intero territorio libico, il controllo esercitato dalle autorità coloniali si fermava ad una sottile striscia costiera, mentre la Cirenaica era sostanzialmente autogovernata dai Senussiti. Ogni sforzo italiano di avere ragione della resistenza venne vanificato dalla mancanza di uomini e mezzi, resa ancora più grave dallo scoppio della Guerra Mondiale in Europa, al quale il Paese non poteva sottrarsi. Una carneficina a cui l’Italia avrebbe baldanzosamente partecipato ispirata dai versi vuoti e magniloquenti del Vate D’Annunzio a partire dalle radiose giornate del Maggio 1915. I pochi territori in mano ai colonizzatori venivano mantenuti con il pugno di ferro. Esecuzioni sommarie e pubbliche, violenze di ogni genere servivano a sottomettere la popolazione e a governarla per mezzo della paura. Le eccessive condanne a morte immotivate destarono scalpore addirittura nei palazzi Romani, al punto che il governatore della Cirenaica, venne redarguito pesantemente dai ministri delle colonie Martini e Ameglio, senza tuttavia che questo avesse alcun effetto. Gli anni della guerra e del dopoguerra, tormentati e infuocati sul suolo della madrepatria, trascorsero anche in Libia veloci e sanguinosi. Le rivolte continuavano a creare problemi agli isolati distaccamenti italiani, abbandonati a loro stessi e privi di sostegno militare, impossibilitati ad effettuare manovre di ampio respiro, ma costretti a guadagnarsi col terrore il “governo del giorno”, dovendo lasciare ai libici quello della “notte”.


Si giunse così al fatidico 1923. Mussolini aveva appena conquistato il potere con la Marcia su Roma, ed era quantomai deciso a porre fine alla ribellione libica, per poterne ricavare quel prestigio di cui tanto disperatamente andava in cerca. L’operazione venne affidata ad un novello Scipione, il generale e futuro maresciallo Rodolfo Graziani, che venne insignito del comando supremo per avere ragione dei Senussiti, guidati dal loro condottiero Omar al Mukhtar, il leone del deserto (Orano 1936: 17). L’obiettivo era Cufra, roccaforte imprendibile, posta al centro del deserto e protetta dai valorosi guerriglieri di al Mukhtar.

Il leader della resistenza senussita Omar al-Mukhtar, il "Leone del Deserto"


Graziani, per l’occasione, decise di sfoderare una delle sue più riconoscibili qualità, che tanto lo avrebbero reso caro al Duce. La qualità del macellaio. Fucilazioni, violenze ed esecuzioni sommarie divennero il modus operandi delle forze italiane per riuscire ad avere ragione dei ribelli, tentando tramite l’instillazione della paura di separare la popolazione dai rivoltosi, privandoli così di ogni base ed appoggio e lasciandoli alla mercè degli eredi dei legionari. Nonostante tutti gli sforzi profusi, Graziani però non sembrava in grado di avere ragione di al Mukhtar, e questo non poteva che irritare il Duce, il quale decise nel 1929 di nominare governatore generale della Cirenaica e della Tripolitania, Pietro Badoglio.


Il nuovo governatore non seppe fare di meglio che implementare la pratica già utilizzata dal buon Graziani di deportare intere popolazioni e giustiziare qualsiasi libico anche solo sospettato di connivenza con i ribelli. Dichiarò in un proclama del 20 giugno 1930:

«Bisogna anzitutto creare un distacco territoriale largo e ben preciso fra formazioni ribelli e popolazione sottomessa. Non mi nascondo la portata e la gravità di questo provvedimento che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta sottomessa. Ma ormai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo perseguirla anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica.» (Rochat 1981: 116-117)


Iniziava così una delle più grandi deportazioni di massa dell’intera storia coloniale europea. L’intera popolazione della Cirenaica venne costretta a trasferirsi in enormi campi di concentramento, dove un numero incalcolabile di vecchi, donne e bambini venne seviziata, violentata e avrebbe trovato la morte. Una misura per cui Badoglio e l’esecutore materiale Graziani, sarebbero stati celebrati a Roma da un Duce che finalmente vedeva la nascita di un nuovo italiano. Un italiano forte e degno di questo nome.


Lo scempio

100.000 persone, tra uomini, donne, vecchi e bambini, praticamente l’intera popolazione della Cirenaica, venne deportata a partire dal 1930, per tentare di porre fine alla ribellione senussita. Vennero istituiti 13 campi di concentramento, raggiunti mediante marce forzate nel deserto. Chiunque non riuscisse a reggere il ritmo veniva ucciso sul posto. Una volta giunti nei lager, questi disgraziati, venivano sottoposti ad ogni genere di violenza fisica e psicologica (Salerno 1979: 90-99). Percosse, violenze sessuali ai danni di donne e bambine, malnutrizione, malattie ed esecuzioni sommarie pubbliche erano ormai parte della vita quotidiana di ogni internato. A questo si aggiungeva al di fuori dei campi una campagna militare condotta senza pietà da Graziani, che fece uso di bombardamenti indiscriminati su obiettivi civili, della consueta pratica delle esecuzioni sommarie e giunse ad utilizzare il gas mostarda, vietato dalla Convenzione di Ginevra, sottoscritta anche dall’Italia. Ben presto al Mukhtar venne messo sulla difensiva, privato delle sue basi e dei suoi appoggi tra la popolazione, l’anziano condottiero si trovò braccato. Nonostante ciò continuò la lotta, sempre più isolato e sempre più soffocato dal cappio scipionico. Per avere definitivamente ragione di lui venne infatti repentinamente costruita la “Linea Graziani”, un intricato reticolato lungo 270 km pensato per interrompere i rifornimenti dei ribelli provenienti dall’Egitto (Labanca 2011: 191). La battaglia del leone del deserto durò fin quando non venne catturato durante una banale scaramuccia tra reparti coloniali e ribelli senussiti, l’11 settembre 1931, dopo aver visto perduta qualche mese prima anche la sua roccaforte imprendibile di Cufra. Il vecchio combattente, irriso e privato anche dell’onore delle armi, venne impiccato dopo un processo farsa nel lager di Soluch, alla presenza di 20mila libici, il 16 settembre.


Le sofferenze dei deportati erano lungi dal potersi dire concluse. Nonostante la pacificazione della regione, ottenuta con una brutalità incommentabile, le pene detentive non vennero sospese, e i lager rimasero perciò occupati almeno fino al 1933-34, quando la loro utilità era ormai venuta meno. Il bilancio di questa esperienza è raccapricciante. Su un totale di 200.000 abitanti al momento della conquista della Cirenaica, in pochi anni si era assistito alla diminuzione di circa 40-60.000 unità. Se si considera che 100.000 di queste persone vennero deportate, la cifra che emerge è ancora più vergognosa. Quasi un deportato su due non sopravvisse ai campi di concentramento. La popolazione nella sua totalità era scesa da 198.00 unità secondo il censimento del 1911 a 142.000 nel 1931. Una perdita del 28,6% (Del Boca 2005: 185). L’intera popolazione della Libia, che ammontava a 570.000 persone, diminuì del 10% (Rochat 1981: 191-278). Si tratta di cifre spaventose, che possono a tutti gli effetti far legittimamente parlare di genocidio.


Siamo davvero stati bravi? Abbiamo davvero portato strade e civiltà in Libia? Possiamo davvero autoassolverci davanti al tribunale della Storia, un tribunale tra l’altro a cui non ci siamo neppure presentati? La risposta è, manco a farlo a posta, no. Il colonialismo italiano “straccione”, fatto di pacche sulle spalle, opere pubbliche e fraternizzazione con il colonizzato è una bella e comoda favola a cui ci affidiamo nel tentativo ormai inutile di evitare di fare i conti con un passato fatto di eventi di questo genere. Non abbiamo nulla da invidiare a Leopoldo del Belgio e al suo Congo allagato di sangue, ai campi di concentramento di Kitchener e alle violenze francesi in Algeria. E no, non abbiamo nulla da invidiare neppure a Hitler. L’innominabile. Lo scudo supremo dietro al quale questo popolo di santi, poeti e navigatori si è sempre nascosto. Fin dall’Italia liberale, l’ideologia colonialista è stata permeante nella società italiana, un’ideologia che ha trovato nel fascismo il terreno più adatto per germogliare e sbocciare in un agglomerato di sangue e morte. Un fascismo che lungi dal mostrare la faccia benevola degli italiani, ha tirato fuori il loro lato peggiore, legittimando e celebrando l’utilizzo della forza bruta da parte di uomini come il sempreverde Badoglio e il macellaio Graziani. A quest’ultimo è stato addirittura dedicato un sacrario ad Affile. C’era proprio bisogno di rivendicare i crimini di cui quest’uomo si è macchiato e per cui non ha mai ricevuto una punizione esemplare. Non siamo stati per niente della brava gente.



Galleria immagini

Guerriglieri libici fucilati da reparti coloniali italiani.


Immagine ritraente l'impiccagione di Omar al-Mukhtar nel lager di Soluch davanti a 20.000 prigionieri


Internati nel campo di concentramento di Al-Magroon


Guerriglieri libici uccisi da truppe italiane dopo un combattimento negli anni '10




Bibliografia

-Battista P. (2004) Italiani brava gente. Un mito cancellato, in La Stampa, 28 agosto.

-Bernini S. (2002). Documenti sulla repressione italiana in Libia agli inizi della colonizzazione.

Taranto: Lacaita.

-Cajani L. (2013). The Image of Italian Colonialism in Italian History Textbooks for Secondary Schools. New York: Berghan Books.

-Corradini E. (1911). L’ora di Tripoli, Milano: Treves.

-Del Boca A. (2005). Italiani Brava Gente?. Vicenza: Neri Pozza Editore.

-Del Boca A. (2005) Il progetto fascista per le colonie. Bologna: Il Mulino.

-Focardi F. (2005) I crimini impuniti dei “bravi italiani”. Bologna: Il Mulino.

-Graziani R. (1932) Cirenaica pacificata. Milano: Mondadori.

-Graziani R. (1986) Una vita per l'Italia. Ho difeso la patria. Milano: Mursia (ried.).

-Labanca N. (2012) La guerra italiana per la Libia. 1911-1931. Bologna: Il Mulino.

-Orano P. (1936) Rodolfo Graziani, generale scipionico. Roma: Pinciana.

-Rainero R. (1981) La cattura, il processo e la morte di Omar Al-Mukhtar nel quadro della politica fascista di “riconquista” della Libia, in Omar Al-Mukhtar e la riconquista fascista della

Libia, a cura di E. Santarelli, G. Rochat, R. Rainero e L. Goglia. Milano: Marzorati.

-Rochat G. (1981). La repressione della resistenza in Cirenaica 1927-1931, in in Omar Al-Mukhtar e la riconquista fascista della Libia, a cura di E. Santarelli, G. Rochat, R. Rainero e L. Goglia. Milano: Marzorati.

-Rochat G. (2007). La repressione della resistenza araba in Cirenaica nel 1930-1931, nei documenti dell’archivio Graziani.

-Salerno E. (1979). Genocidio in Libia. Le atrocità nascoste dell'avventura coloniale (1911-1931).

Milano: SugarCo.

-Salvemini G. (1944). La politica estera dell’Italia, 1871-1914. Firenze: Barbera.

-Sulpizi F. (2000). Primo convegno su «Gli esiliati libici nel periodo coloniale». Roma: ISIAO.





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