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Writer's pictureKoinè Journal

Siamo davvero SVILUPPATI?


di Ivan Rubino.


Che stravagante specie è quella dell’essere umano, il primo mammifero a portare i pantaloni; Loro hanno fatto pace con l’avidità: credono in un dio e possono uccidere quanto vogliono; questo lo chiamano sviluppo.


Il genere umano è avanzato, è il primo a costruire grattacieli: trenta, quaranta metri, per vedere il mondo in alto, un mondo che sta letteralmente andando a fuoco.

Gli umani hanno creato palazzi in cui centinaia di loro, con la bestialità della più infima delle creature, scommettono sulle azioni quando crollano, in cui centinaia di famiglie sono chiuse senza un futuro: questo lo chiamano progresso.


Gli umani fanno quello che vogliono, ma irresponsabilmente: si possono ammirare i loro vistosi metalli, intrisi di sangue versato nel riuscire ad estrarlo, lo si nota negli occhi persi di chi aspetta il verdetto in tribunale, un mero spettatore di quel teatro meschino in cui l’umano cerca di confinare i propri problemi.


Il genere umano ha appiattito colline, ha ridotto porzioni di terreno, e gli abitanti al suo interno, in numeri e cifre, atte ad un maggior controllo della popolazione da parte delle istituzioni degli stati territoriali: lo sviluppo è il caterpillar che infesta l’amazzonia, nulla a che vedere con il simpatico animale che si aggira per le foreste di tutto il mondo, ma con il veicolo capace di divorare porzioni del nostro “polmone della terra” , per far spazio al mercato dell’allevamento intensivo e minerario.


Concettualizzare il termine “sviluppo” è complicato, data la sua difficile collocazione: nel corso della storia questo termine ha assunto accezioni diverse a seconda dell’epoca, e le sue definizioni sono cambiate nel tempo; Tuttavia risulta fondamentale il contributo determinato dagli studi geografici, che hanno dato i primi impulsi per quanto riguardano gli approcci, le chiavi di lettura, di questa nuova dimensione socio-ambientale, cioè lo studio di come le componenti ambientali entrino in funzione di dibattiti sulle scienze sociali; Diviene fondamentale riuscire a tracciare una sorta di “filo conduttore” tra geografia, ambiente e sviluppo, per riuscire a capire tutti i misteri che avvolgono il genere umano.


Cos’è lo sviluppo

Fino agli anni cinquanta del novecento, il termine “sviluppo” ha costruito la propria definizione di pari passo con quelli che erano stati gli obiettivi principali degli stati Occidentali: lo sviluppo in tal senso si configura con l’espansione politica-culturale-economica di tutti gli stati Europei che seguivano logiche di colonizzazione, dunque si tenta di legittimare un prevaricamento nei confronti degli stati definiti “sottosviluppati” tramite il consolidamento di quei principi che domineranno il panorama mondiali negli anni a venire: accumulazione capitalista ed estrazione di valore da ambiente e risorse naturali.


Tuttavia, a partire dal secondo dopoguerra,  sia grazie  al contributo di numerosi studiosi, che nel tracciare le problematicità del rapporto tra genere umano e ambiente capiscono come sia fortemente dipeso dalle dinamiche di crescita economica , sia a seguito della fine del dominio coloniale e l’inevitabile inasprimento di povertà estrema e frammentarietà geopolitica, si comincia a maturare una nuova concezione critica dello sviluppo, dando particolare rilievo a tutti i processi relativi alla crescita economica e tecnologica, in rapporto con la degradazione ambientale, che fa da tetro contesto.


Nel tentare di tracciare i diversi paradigmi interpretativi, per rispondere, cioè, alla necessità di fare una “genealogia dello sviluppo”, si deve innanzitutto fare una distinzione tra le teorie che concepiscono lo sviluppo come un fenomeno di naturale evoluzione della società, e chi vede lo sviluppo come una trasformazione indissolubilmente legata a fattori economici e storici.


Il primo caso fa riferimento alla forza razionale dell’uomo, che diventa così il motore dello sviluppo, l’unica maniera di contrastare i limiti imposti dalla natura, limiti che inevitabilmente devono essere affrontati da tutte le società del globo.


Il secondo caso sposta il focus sul rapporto tra il concetto di sviluppo e le trasformazioni socioeconomiche, che hanno avuto origine in Europa prima, ma che successivamente hanno investito tutta la terra, a cui sono legate drammatiche conseguenze, connesse al tema della povertà e della sicurezza: In questo caso i limiti da contrastare riguardano non più la natura, ma lo sviluppo stesso, e dalla conseguente implicazione nella società civile.


Partendo da questo assunto, riusciamo in maniera più nitida a scorgere le diverse interpretazioni del concetto di sviluppo, e la definizione del suo “opposto”, il sottosviluppo, che si possono riassumere in tre tipologie:


Il paradigma modernista, nato dall’ottimismo che pervadeva tutto lo scenario globale del secondo dopoguerra, ripone una particolare fiducia nell’industrializzazione e nell’innovazione tecnologica come perni centrali dello sviluppo, dunque, per suo contrario, il sottosviluppo è descritto come una situazione in cui determinati paesi, per scarsa capacità di produzioni di beni, sono come bloccati in un circolo vizioso, da cui si può uscire solo con l’impiego del modello economico-culturale dei paesi più sviluppati, quelli occidentali.


Non a caso, il neoeletto alla Casa Bianca nel 1945 Harry Truman, accetterà l’esistenza di squilibri tra paesi nel globo, una frattura che potrebbe essere sanata solo se i paesi sviluppati trasferissero le proprie conoscenze tecnologiche ed economiche nei paesi sottosviluppati.

Negli anni sessanta troviamo una svolta, portata avanti dal sociologo ed economista tedesco Andre Gunder Frank, che prenderà il nome di “teoria della dipendenza”: Lo studioso, partendo dal presupposto che il sottosviluppo non sia una condizione naturale, è stato il primo a riscontrare delle problematicità nello sviluppo dei paesi con una storia coloniale alle spalle, nello specifico in America latina.


Con questa teoria, si riesce a mettere in luce come la sempre più crescente industrializzazione, resa possibile attraverso progetti di innovazione tecnologica ed economica soprattutto da parte di stati più ricchi ed occidentali, spesso da veri e propri “ex coloni”, non garantisca il progressivo migliorarsi delle condizioni della popolazione, anzi, crea esattamente l’opposto: difatti questa nuova via, secondo cui gli stati più “sviluppati” debbono intervenire in altri paesi, produce solo una dipendenza economica con gli stati stessi, privandoli di costruire una propria “linea di sviluppo”, a questo si aggiunge  che solitamente gli stati del sud America non riescono a sostenere il consumo di tutti prodotti che vengono creati, di conseguenza vanno a mancare i presupposti del paradigma modernista, che precedentemente identificavano consumo e la produzione come forze motrice della modernizzazione.


Per far fronte a queste prospettiva di stampo radicale, che vedevano come via d’uscita dal sottosviluppo un vero e proprio protezionismo economico (Lo stato in via di sviluppo doveva contare solo sulle proprie forze, ponendo fine all’influenza economica dei paesi “centrali”), si riaffermano le “teorie economiche neoclassiche” , di stampo neoliberista , proponendo come unica via di crescita, quindi unica via di sviluppo,  il rafforzamento di un libero mercato su scala globale , per stimolare la crescita economica ed il trasferimento delle tecnologie. 


Lo sviluppo sostenibile

A partire dagli anni 80, attraverso una sempre più attenta e consapevole lettura critica delle teorie sopracitate, si arriva a capire che  “la forza della modernità” non poteva prescindere da altri temi di particolare spessore, non poteva dunque oscurare concetti che, per quanto riguarda il dibattito sullo “sviluppo” devono assolutamente essere presi in considerazione: si  parla delle questioni riguardo la giustizia e la democrazia che deve essere esercitata e legiferata per sostenere i Paesi più “deboli”, perciò non solo esportare tecnologie attraverso gli attori privati, le multinazionali, ma valorizzare quello che viene definito “bottom-up” (sviluppo dal basso), e quelle azioni volte a favorire il bene di una comunità particolarmente colpita dalle tragedie che, attraverso il precedente definizione di sviluppo, gli stati occidentali hanno legittimato e alimentato.


Queste riflessioni hanno fornito un barlume di consapevolezza per quanto riguardano le profonde contraddizioni che si creano tra il concetto di crescita senza limiti e la necessità di preservare sia l’ambiente che la società civile, dove la prima presuppone uno sfruttamento delle risorse incontrollabile, la seconda fatica a restare al passo dell’ ormai precedente “motore della modernità”; In questo quadro generale si viene a modellare un concetto, fondamentale per integrare l’aspetto socio ambientale e il rapporto capitalismo-ambiente, nel pensiero dello sviluppo, ridefinendolo: lo sviluppo sostenibile.


A partire da questo periodo storico questa nuova concezione prevarrà su quelle precedenti, lasciando un grande spazio per la ricerca che investirà tutte le branche del sapere e della società: Il nuovo paradigma, sostenuto da esperti economisti tra gli altri, ha come obiettivo quello di trovare un compromesso tra crescita economica e impatto ambientale, attraverso dei principi di crescita sostenibile che devono essere necessariamente adottati dalle corporation.

Tanto la notevole popolarità, quanto i drammatici effetti dell’impatto ambientale nei territori occidentali, hanno contribuito in maniera determinante alla promozione del dibattito all’interno delle istituzioni e della politica: nel 1983, sotto la forte spinta dell’ONU, che ha abbracciato la partecipazione alla concettualizzazione di sviluppo sostenibile e la sua applicazione, nasce la “World Commission on Environment and Development”, che pubblica nel 1987 un Rapporto, denominato “Our Common Future” , in cui si delinea la prima , e ancora oggi la più accettata, definizione di sviluppo sostenibile, che si può riassumere in tre punti chiave: il primo aspetto fondamentale, diventato cardine delle politiche ambientali successive, riguarda  “l’integrità dell’ecosistema”, vale a dire una gestione sostenibile e ponderata delle risorse naturali e dello scarico di rifiuti nell’ambiente, procedure che possono essere attuate solo tramite il secondo concetto chiave, “l’efficienza economica”, cioè il miglioramento di tutti quei processi produttivi ed economici al fine di garantire una stabilità ambientale e un soddisfacimento dei bisogno primari per la prolazione. Il terzo aspetto riguarda “l’equità sociale”, un valore etico che deve essere affrontato sia creando un’equità nazionale, che garantisce il diritto a tutto il genere umano nel partecipare al processo di sviluppo, senza distinzione politiche-culturali e geografiche, sia attraverso un’equità intergenerazionale, con lo scopo di preservare le nostre stesse risorse odierne, anche per i posteri, senza quindi compromettere le generazioni future.


Siamo agli albori della nascita dello “sviluppo umano”, cioè  atto ad analizzare la qualità di vita di determinate popolazioni, facendo conto però su svariati parametri di ugual importanza , non più dettati unicamente dalla logica del profitto e della produzione, ma che tiene conto anche dell’aspetto sanitario, scolastico e dei pari diritti di genere.


Ancora, di nuovo, che stravagante specie è quella dell’essere umano, il primo mammifero che riesce a guardare le stelle e a sognare di toccarle, che riesce a coniugare la distruzione con la creazione: capace del meglio e del peggio, con la stessa forza con cui demolisce vita, è stato capace di inventare la solidarietà e la lotta per la giustizia.


L’essere umano è un grande paradosso, come il concetto di sviluppo, e la sfida più importante, la sfida globale, è riuscire a trovare un equilibrio.

 




Bibliografia

Minca Claudio, 2022, Appunti di geografia, prima edizione, Cedam





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