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Statuti e regole riscritti: più poltrone, più potere

  • Writer: Koinè Journal
    Koinè Journal
  • 15 minutes ago
  • 4 min read
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di Federica Oneda.


Non ci stupisce più. Le ultime consultazioni elettorali regionali hanno registrato un’affluenza ai minimi storici: solo quattro elettori su dieci sono usciti di casa per votare. Una cifra che dovrebbe aprire un dibattito politico serio sullo stato di salute della democrazia rappresentativa. E invece no.


La verità è che abbiamo visto l’ennesima conferma di quanto oggi il meccanismo elettorale sia sovraccaricato di aspettative che non riesce più a soddisfare. Il voto resta un pilastro imprescindibile delle democrazie moderne, ma sembra non essere più sufficiente a garantire né legittimità né efficacia. Le elezioni non funzionano più come un meccanismo di mediazione stabile tra cittadini e istituzioni: non canalizzano in modo duraturo le istanze sociali, non costruiscono consenso, non rappresentano davvero. I cittadini lo sanno, e smettono di votare.

Questa non è solo una crisi di efficienza: è una crisi di significato. È un interrogativo profondo rivolto ai fondamenti stessi della democrazia rappresentativa.


Nelle democrazie contemporanee l’individuo viene riconosciuto quasi esclusivamente nella sua funzione di elettore, ma rimane ampiamente escluso dai processi decisionali che determinano le scelte politiche. Nonostante il principio della sovranità popolare, il potere rimane concentrato nelle mani delle élite, sia politiche che economiche, perpetuando una distanza strutturale, e ormai percepita come incolmabile, tra governanti e governati.


Le elezioni regionali di quest’anno si sono concluse esattamente come tutti ci aspettavamo: ovunque conferma delle maggioranze uscenti. Una stabilità solo apparente, che in realtà è il prodotto dell’inespugnabilità di sistemi di potere locali cementati da reti clientelari, scambi politico-affaristici e controllo capillare della spesa pubblica. È una forma di immunità elettorale che trasforma la legittimazione democratica in un rito formale, più che in un reale processo competitivo.


Nemmeno questo ci stupisce: la nostra è ormai la democrazia delle minoranze organizzate, non della partecipazione diffusa. Il voto di scambio, anche nelle sue forme “legalizzate”, microfinanziamenti, rapporti personali, promesse di gestione di risorse locali, resta un pilastro dei sistemi territoriali. E alimenta, circolarmente, l’astensionismo: molti cittadini percepiscono il voto come irrilevante.

A fronte di numeri così bassi, ci si aspetterebbe almeno una reazione politica all’altezza: una riflessione su come ricostruire il rapporto con i cittadini, come rafforzare gli strumenti di partecipazione prima e dopo il voto, come restituire ai cittadini un ruolo reale nell’elaborazione delle politiche. Una revisione degli statuti regionali potrebbe essere l’occasione per introdurre assemblee civiche, processi deliberativi, referendum propositivi, bilanci partecipativi strutturali, per coinvolgere davvero i cittadini invece che chiamarli all’appello solo durante le campagne elettorali.


E invece accade qualcosa di talmente paradossale da sembrare quasi una provocazione. La prima preoccupazione politica di molte giunte di destra è sì modificare gli statuti regionali, ma per aumentare il numero degli assessori.

In Veneto si passa da 8 assessori a 10. Acquaroli nelle Marche propone di passare da una giunta a 6 membri a una di 8. Anche Occhiuto in Calabria si affretta a cambiare lo statuto regionale per passare da 7 assessori a 9. E così mentre gli elettori diminuiscono, gli assessori aumentano.


La sproporzione è evidente. Per fare solo un esempio, in Veneto, mentre la partecipazione elettorale crolla del 16,5%, i posti in giunta crescono del 25%. Difficile immaginare un messaggio più scoraggiante per i cittadini che già si sentono esclusi.

Mentre i cittadini vengono coinvolti sempre meno nei processi decisionali, cresce il numero di coloro che dovrebbero rappresentarli. Il vero obiettivo politico di oggi dovrebbe essere restituire valore al voto. I cittadini sono stanchi di leggi elettorali incomprensibili, di regole che cambiano ogni legislatura per convenienza, di parlamenti svuotati della loro funzione deliberativa. E invece?


Invece, dopo essere uscita sconfitta dalle elezioni regionali, Giorgia Meloni decide di rilanciare… una nuova legge elettorale. Una proposta che prevede un sistema proporzionale con premio di maggioranza: con il 40% dei voti si otterrebbe il 55% dei seggi. Una sorta di Porcellum rielaborato, in veste meloniana.

Le motivazioni ufficiali parlano di “stabilità”. Ma lo stesso governo rivendica contemporaneamente di essere tra i più longevi della Repubblica: un paradosso che rende evidente l’obiettivo reale, e inconfessabile, della riforma. Evitare il rischio di una sconfitta.

L’unica esigenza seria di una nuova legge elettorale, oggi, dovrebbe essere un’altra: restituire peso al voto dei cittadini che disertano sempre di più le urne.  

Come ricordato anche dalla Commissione di Venezia, le leggi elettorali dovrebbero rispettare alcuni principi fondamentali: garantire la stabilità delle regole del gioco, evitare modifiche approvate nell’anno che precede le elezioni  per non essere manipolate dalle contingenze politiche, e tutelare la piena libertà del voto. La prassi tutta italiana di cambiare ripetutamente la legge elettorale, spesso a ridosso delle consultazioni, ha però finito per normalizzare un’abitudine che di democratico ha ben poco: l’idea che le regole possano essere ritagliate sulle convenienze del momento, invece che poste al servizio della rappresentanza e dell’equità del processo elettorale.

 

Ma la direzione intrapresa dalla destra va nella direzione opposta: una legge che riduce ulteriormente la scelta degli elettori, rafforza le oligarchie di partito e consolida il potere delle coalizioni preconfezionate.

La democrazia italiana non è in crisi perché i cittadini non votano: i cittadini non votano perché la democrazia è in crisi. E finché la politica continuerà a rispondere alla sfiducia con espedienti di autoconservazione, la distanza tra paese reale e istituzioni non potrà che aumentare.





Image Copyright: ANSA

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