di Lorenzo Ruffi.
Mentre gli occhi del mondo sono puntati sull’Ucraina, in Sudan, terzo paese africano per estensione e snodo strategico di primaria importanza incastonato fra le aride terre del Sahel e il Mar Rosso, la resa dei conti fra gli uomini forti di Khartoum, da una parte il generale Abdel Fattah al-Burhan, presidente del Consiglio Sovrano di Transizione dal 2021, e dall’altra il suo vice, Mohamed Hamdan Dagalo, noto anche col matronimico di Hemetti, ha fatto precipitare il paese nel caos. Declassata a scontro secondario dalle élite politiche di Bruxelles, la nuova guerra in Sudan rischia di scatenare una crisi in grado di propagandarsi ben oltre i confini dello Stato sorto dalla spartizione anglo-egiziana del 1956. Pechino, ma soprattutto Mosca, hanno invece compreso quanto tenere sotto controllo gli scontri in Sudan sia importante per continuare a perseguire con successo le proprie politiche di espansione nel continente. La penetrazione dell’Orso nel Sahel per motivi securitari contribuisce a dipingere l’operato del Cremlino nel continente come “potenza benevola” rispetto a paesi dell’Unione macchiati ancora dallo stigma coloniale, nonostante le politiche portate avanti siano altrettanto predatorie di quelle attuate dagli europei un secolo fa. Decisa a proteggere il proprio cortile di casa dall’invasione russa, l’Europa snobba il Global South, non comprendendo a pieno come ormai le risorse impiegate da Mosca per portare avanti la sua guerra provengano solo da lì. Pronto a tramutarsi in una nuova crisi migratoria di dimensioni imponenti, il conflitto in Sudan non vede al momento alcuna soluzione, destando preoccupazioni nell’intero continente, e oltre.
La situazione sul campo / WarMapper
Signori della guerra
Un tempo alleati nel rovesciare il regime di Omar al-Bashir facendosi momentaneamente portavoce delle istanze della società civile, i due generali si trovano oggi a scontrarsi con ogni mezzo per conquistare il potere in maniera definitiva. Al-Burhan, guida del colpo di stato del 2021 che spezzò sul nascere ogni velleità democratica del paese dopo la rivoluzione del 2019, è de facto l’attuale presidente del Sudan, dopo aver sciolto il Consiglio Sovrano di Transizione, organo pensato per accompagnare lentamente il paese verso la democrazia, e aver licenziato il primo ministro Hamdok, unico esponente di spicco della società civile; al suo posto, nominò come suo vice il generale Dagalo, leader delle Rapid Support Forces, potente gruppo paramilitare che trae la propria base dalle famigerate milizie janjawid, responsabili di crimini contro l’umanità e genocidio durante la guerra che ha dilaniato la provincia del Darfur a partire dal 2003. Un matrimonio di convenienza destinato a sfociare in aperto scontro non appena al-Burhan ebbe annunciato di voler inserire le RSF all’interno dell’esercito, suo giocattolo personale, per controllarle dall’alto. Il fallito golpe degli uomini di Hemetti ad aprile, tramutatosi poi in conflitto vero e proprio fra il suo gruppo paramilitare e l’esercito regolare, è sintomo delle divisioni intrinseche nel paese, soffocate durante i trent’anni di dittatura di al-Bashir ma destinate a riemergere una volta venuto meno il ra’is.
L’incapacità di monopolizzare l’uso della violenza da parte del precedente regime, il quale ha finanziato la creazione di svariati gruppi armati irregolari per contrastare le spinte secessioniste nel Sud Sudan e nel Darfur, unita alle politiche settarie di divide et impera nel tentativo di controllare meglio un paese dalle molte sfaccettature sono alla base degli scontri di potere che divampano nel paese. Ciò ha portato ad una progressiva marginalizzazione economica e politica di quelle aree del paese periferiche rispetto alla capitale Khartoum e al corso del fiume Nilo, epicentro dello Stato sudanese. Ecco che Hemetti e i suoi uomini, per la maggior parte provenienti da tribù arabe del Darfur, sono scesi in campo per rivendicare la loro centralità contro uno Stato visto come marginalizzante. La competizione per l’accesso alle ricche risorse aurifere del paese ha contribuito ad esacerbare lo scontro in atto, attirando l’attenzione in particolare del Cremlino, desideroso di espandere la propria influenza in un paese così importante e fragile allo stesso tempo.
Rifugiati sudanesi al confine col Chad / NY Times
L’oro sudanese e gli interessi del Cremlino
Lo scontro iniziato a Khartoum e rapidamente diffusosi in tutto il paese non ha solo radici politiche, ma anche economiche. Ad essere fonte di conflitto è in particolare la gestione delle importanti riserve d’oro nazionali, le quali rappresentano, venute meno le entrate derivanti dalle rendite petrolifere a seguito dell’indipendenza del Sud Sudan nel 2011, la principale fonte di guadagno dell’economia rentier sudanese. Ad avere maggiormente accesso alle risorse aurifere sono proprio le RSF di Hemetti, il quale da tempo utilizza i proventi della vendita dell’oro per accrescere il proprio potere in patria e all’estero. Interessata a mettere le mani sulla preziosa materia prima e ad inserirsi stabilmente in un quadrante geopolitico strategico come il Sahel, la Russia si è mostrata particolarmente attiva nel contesto sudanese. Già protettrice del regime di Omar-al Bashir, Mosca si è inserita in maniera ancor più decisa, paradossalmente, a partire dalla caduta del tiranno nel 2019. Nonostante il Cremlino avesse inviato propri contractors, specialmente del Gruppo Wagner, per proteggere il regime sudanese dalle proteste di piazza, il periodo di transizione successivo fu fondamentale nel plasmare le politiche russe in Sudan. Proprio grazie al Gruppo Wagner, Mosca ha stretto accordi di natura commerciale con l’élite militare al potere, garantendo armi e consulenza bellica in cambio di porzioni dell’economia nazionale. Fondamentale è stata, in particolare, la nascita del sodalizio fra i wagneriti e gli uomini di Hemetti: tramite la compagnia Meroe Gold, probabilmente di proprietà dello stesso leader della Wagner, Prigozhin, il Cremlino ha iniziato a estrarre oro dal Sudan, usandolo per finanziare proprio la sua campagna in Ucraina.
La stessa posizione geo-strategica del paese, a cavallo fra la turbolenta regione del Sahel, in cui i mercenari della Wagner sono già impegnati da tempo, e le coste del Mar Rosso rendono imprescindibile per i russi controllare, almeno indirettamente, il paese per garantire la sicurezza delle rotte commerciali che dallo stretto di Bab el-Mandeb giungono al Canale di Suez, e da qui al Mediterraneo. Interessata a vedere compiuto il progetto della propria base militare a Port-Sudan, la Russia guarda con preoccupazione agli eventi in Sudan, temendo che lo scontro fra fazioni possa indebolire Hemetti e, dunque, la sua posizione nel paese. Non solo il Cremlino è preoccupato dalla spirale di violenza che ha già mietuto ottocentosessanta vittime e causato oltre centomila sfollati, ma anche altri attori regionali, come l’Egitto e l’Arabia Saudita, allarmati dagli effetti collaterali della guerra, come la crisi umanitaria dei migranti ed un possibile vuoto di potere a Khartoum, hanno cercato di mediare accordi di cessate il fuoco fra le due parti, interrotti dopo poche ore dalla firma da ambo i lati.
Combattimenti nella periferia di Khartoum / Reuters
L’Europa (per ora) assiste in disparte
Insieme agli Stati Uniti, fautori di un nuovo accordo di mediazione fra le parti e distratti dalla duplice sfida in Ucraina e Taiwan, l’Europa è sicuramente la grande assente fra gli attori internazionali. L’assenza di una visione lungimirante e strategica da parte di Bruxelles riguardo all’agenda sudanese evidenzia come il Vecchio Continente abbia momentaneamente abdicato a giocare un ruolo di primo piano nei principali dossier internazionali. Scossa da divisioni interne e distratta dalla guerra di Putin, l’Unione affronta un momento di ridefinizione del proprio assetto interno ed esterno, lasciando inevitabilmente campo ai propri avversari in contesti lontani dal cuore del continente. La penetrazione sino-russo nel continente africano, specie nella sensibile fascia sub-sahariana, mira a scalzare quel poco che rimane dell’influenza europea, ormai retaggio di uno scomodo passato coloniale. In Sudan, Pechino ha fatto leva sulle costanti debolezze finanziarie del paese per erogare prestiti da spendere in infrastrutture e impianti industriali, mentre Mosca ha sfruttato l’instabilità regionale per accreditarsi come nuova garante della sicurezza nel Sahel.
A preoccupare maggiormente l’Europa, tuttavia, dovrebbero essere proprio le conseguenze sul lungo periodo di una guerra sempre più violenta in Sudan. Un’escalation di violenza, che rischia di spostarsi dalle iniziali logiche di potere a quelle etniche, come già successo in Darfur, avrebbe conseguenze catastrofiche sull’intero continente africano. Stremati da decenni di continui conflitti intestini, i quarantasei milioni di abitanti del Sudan potrebbero iniziare a fuggire in massa da un paese istituzionalmente ed economicamente al collasso, riversandosi specialmente nel vicino Chad e nei paesi del Nord Africa, in particolare in Libia, Egitto e Tunisia; da qui, probabilmente, la fuga verso l’Europa. La potenziale bomba migratoria generata dal proseguimento del conflitto in Sudan dovrebbe allarmare fortemente Bruxelles, che al momento sembra voltarsi dall’altra parte. Il fallimento delle mediazioni internazionali e l’assenza di qualsiasi piano di pace fanno temere il peggio. Dopo mesi di guerra in Sudan, nessuna delle due parti sembra prevalere sull’altra: lo scontro, percepito come esistenziale sia da Dagalo che da al-Burhan rischia di coinvolgere sempre di più la popolazione civile, bersaglio già di attacchi indiscriminati, uccisioni e stupri. Mentre il Sudan, secondo le Nazioni Unite, si avvia verso una catastrofe umanitaria colossale, il mondo occidentale resta inerte, incapace di difendere nei fatti gli ideali di difesa dei diritti umani e di libertà di cui si fa portavoce, mentre assiste, altrettanto inerte, all’ascesa dei suoi avversari nel global south, fonte del loro potere nel prossimo futuro. La fuga precipitosa da Khartoum del personale diplomatico occidentale all’indomani dello scoppio dell’ostilità è la chiara dimostrazione della confusione che regna in Europa per quanto riguarda il Continente Nero. Confusione prontamente fiutata dal Cremlino, che prosegue indisturbato la sua corsa verso il Mediterraneo, mentre l’oro sudanese finanzia l’offensiva in Donbass.
Image Copyright: Reuters
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