
di Stefania Chiappetta.
La parola scelta per descrivere la rappresentazione cinematografica di Donald J. Trump, firmata dal regista Iraniano Ali Abbasi, non può che essere "prima". Prima del suo secondo mandato come presidente degli Stati Uniti d'America. Prima del video generato con l'intelligenza artificiale di una Gaza futuristica, trasformata in un resort con palazzi alti e palloncini con la sua faccia, nonostante una guerra di un anno e mezzo che conta cinquantamila morti civili. Prima della costruzione di una sua immagine grottesca, come solo il potere fine a se stesso può essere.
Quel prima nebuloso e probabilmente rinnegato si racconta nel film frankensteiniano, così definito dal suo sceneggiatore - e giornalista per il The New York Times - Gabriel Sherman, The Apprentice - Alle origini di Trump. Frankensteiniano perché al centro della narrazione è il rapporto tra un giovane Donald Trump e l'avvocato repubblicano Roy Cohn, impostosi durante gli anni del maccartismo per aver voluto la condanna a morte dei coniugi Rosenberg. Il Donald Trump interpretato da Sebastian Stan, che per il ruolo ha ricevuto una nomination agli Oscar 2025 come miglior attore, è infatti una spietata creatura di Cohn, plasmato secondo la morale dell'America repubblicana, edonistica e superficiale.
Quando appare per la prima volta su schermo, il futuro presidente Americano è un giovane sotto l'ombra del padre che per lui riscuote gli affitti del Trump Village a Coney Island. Invischiato in una burrascosa causa giudiziaria il suo sogno è quello di ricostruire il volto di Manhattan, seguendo l'adagio che vede nell'altezza dei palazzi lo specchio del potere e del successo ottenuti. Per questo motivo è ancora facilmente influenzabile, tanto da apparire goffo, quasi fuori posto. Dall'incontro con Roy Cohn, interpretato invece da Jeremy Strong anch'esso candidato agli Oscar come miglior attore non protagonista, Trump si appropria dei segreti del mestiere costruendo la sua fortuna su tre regole ferree.
La prima: attaccare, non lasciare all'avversario il tempo di reagire. La seconda: non ammettere niente, negare tutto. La terza, forse quella essenziale: dichiarare vittoria, perché vincere è l'unica cosa che conta. Non succede spesso che la ricostruzione fittizia di un film possa essere una spia di ciò che accade intorno. Eppure questa triade di concetti, che il tycoon apprende da Cohn nell'interno di un automobile con una New York dalla fotografia sporca, è facilmente rintracciabile nell'orazione politica trumpiana. Questo perché lo scontro psicologico dei due personaggi, permette al film di ricostruire estetica e potere che sono all'origine del Trump politico.
Il film di Abbasi è un biopic in cui il rapporto tra mentore e apprendista, più che fortemente politicizzato è indagato sul lato della manipolazione emotiva. Il tentativo è quello di restituire un ritratto di Trump mutevole, in una temporalità divisa tra 1970 e 1980. Anni liminari quanto decisivi, che lo vedranno passare da rampollo impacciato a magnate senza scrupoli che mangia città intere, che rende nemici gli amici e scarica la famiglia che ha costruito. Visibile in particolare il rapporto con la sua prima moglie Ivana Zelníčková, interpretata da Maria Bakalova, e quella scena spinosa di violenza sessuale ai danni dell'ex moglie, che è quasi costata al film la censura immediata e diverse crisi produttive.
La scena che Abbasi filma con fredda lucidità, a ricalcare l'estetica del suo thriller Holy Spider (2022) sul killer Iraniano Saeed Hanaei, restituisce in pieno quel sentimento doppio dell'immagine trumpiana nel film. Non è un caso che arrivi cronologicamente dopo l'inaugurazione della Trump Tower, a cui la stessa Ivana aveva contribuito come arredatrice d'interni. Il lusso, il glamour, l'altezza dei soffitti non sono altro che un incubo nauseante: l'altra faccia del Sogno Americano che la retorica trumpiana promuove con tanto ardore.
Il racconto della violenza sessuale fa riferimento ad alcune accuse che la stessa Ivana aveva mosso su Trump nel 1990, durante la causa per il divorzio. Queste saranno poi ritrattate completamente circa 25 anni dopo, in concomitanza con la candidatura a presidente di Trump. In seguito alla prima di The Apprentice allo scorso festival di Cannes, il direttore della comunicazione per la campagna elettorale del futuro presidente, Steven Cheung, definì il film come un tentativo di diffamazione malvagio. Disse che il suo posto era in un rogo di spazzatura, probabilmente il luogo in cui Donald Trump pensa debbano stare le arti visive. Il tentativo che seguì di boicottaggio produttivo e distributivo, è raccontato in un articolo dello stesso sceneggiatore apparso in Italia sul numero 43 di Vanity Fair di ottobre 2024.
L'impegno diegetico di Ali Abbasi e Daniel Sherman è di ricercare, nel Trump cinematografico, una sua origine quasi mefistofelica. Il personaggio impegnato a costruire la sua stessa immagine, rubando il potere da chi lo ha già ottenuto per diventare altro da sé, è paragonabile ad un fenomeno di costume, un brand di lusso come le marche che si indossano. In una delle sequenze più importati del film, il tycoon regalerà a Roy Cohn dei gemelli diamantati con le sue iniziali incise: la sintesi del loro rapporto è tutta racchiusa lì.
La forza di un biopic come The Apprentice, è contenuta nella dualità delle sue immagini. La messa in scena servendosi dell'estetica televisiva degli anni '70, lo stesso titolo del film fa riferimento ad un programma tv, diventa portatrice di uno sdoppiarsi figurativo. Il passaggio dalla macchina a mano a quella fissa, la durata di due ore che divide gli anni dell'ascesa di Trump, il tono della fotografia più scuro nei primi piani dei personaggi, sono lo spettro della contemporaneità in cui viviamo. "Make America Great Again" recita lo slogan del brand da indossare, ma prima ricordiamoci di nascondere la perversione.
Image Copyright: IMDB.
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