di Lorenzo Ruffi.
All’alba del 24 febbraio 2022, le prime divisioni di carri armati della Federazione Russa facevano breccia all’interno dei confini orientali dell’Ucraina, riportando la guerra nel cuore dell’Europa dopo quasi ottant’anni. Dopo un anno di combattimenti, la situazione sul campo appare tutt’altro che decisa. L’invasione russa non è riuscita a piegare nell’immediato le difese del nemico, fallendo in quella che all’inizio si annunciava come un classico esempio di blitzkrieg. Tutto sembrava sul punto di finire quando le truppe russe si trovavano a pochi chilometri dalla capitale Kyiv, ma poi qualcosa è andato storto. Nei mesi successivi l’Ucraina, grazie al fondamentale sostegno americano ed europeo, è riuscita a riguadagnare terreno e a liberare passo dopo passo i territori che erano stati occupati dagli invasori. La guerra in Ucraina non può e non deve essere raccontata solo dal punto di vista militare, ma deve essere compresa e studiata come il più importante spartiacque nelle relazioni internazionali dal crollo del Muro di Berlino. Fra gli obiettivi non dichiarati della campagna militare inaugurata da Putin vi era senza dubbio quello di ridisegnare il sistema di rapporti di forza e di alleanze emerso alla fine della guerra Fredda, considerato profondamente iniquo e sbilanciato. La nascita di una nuova alleanza, composta prevalentemente dalla Cina, dall’Iran e dalla stessa Russia, pone un’importante sfida all’Occidente e ai suoi valori, contribuendo per antitesi a ridare valore semantico ad un concetto che era caduto in disuso e di cui forse non avevamo compreso il significato. La guerra di Putin ha avuto un ruolo fondamentale nel ricostruire l’idea di unità di quello spazio euroatlantico che dall’America si estende fino alle propaggini più orientali della stessa Europa, fino ad includere l’Ucraina, ma anche la stessa Russia occidentale, che così tanto ha contribuito alla formazione di quel weltanschauung culturale propriamente europeo. L’invasione russa ha inoltre rappresentato la più grande sfida per la sicurezza dell’Europa dai tempi della Seconda guerra mondiale, contribuendo a rivitalizzare il ruolo della NATO come garante della protezione e della pace del Vecchio Continente. Infine, vi è la sfida economica ed energetica: l’aumento dei prezzi delle materie prime ha generato la più massiccia ondata inflazionistica dagli anni Ottanta, mettendo in crisi i dogmi di economia politica fin qui affermatisi, mentre il ricatto di Putin sul gas ha spinto molti governi europei a trovare migliori fornitori, contribuendo a tracciare nuove rotte geopolitiche in una regione, come quella mediterranea, considerata da tempo di secondaria importanza.
La situazione sul campo e i suoi possibili sviluppi
Se la situazione politica ed economica sul piano internazionale è in continuo divenire, quella prettamente militare non lascia intravedere enormi cambiamenti nel breve periodo. Esauritasi la spinta della controffensiva ucraina, culminata con la liberazione prima di Kharkiv e poi di Kherson, la guerra sembra essere entrata in una fase di stallo, con il fronte consolidatosi ormai intorno alla città di Bakhmut e alla vicina Vuhledar. Dopo la conquista del villaggio di Soledar, i russi si preparano a cingere d’assedio proprio Bakhmut, anche se al momento la loro offensiva pare essersi arenata nel piccolo villaggio di Sacco e Vanzetti alle porte della città. Da tempo ormai i principali servizi di intelligence occidentali annunciano che una grande offensiva russa sia alle porte: la spinta per la conquista della cittadina del Donbas potrebbe già esserne la prima fase, anticipando lo scioglimento della neve e l’arrivo della primavera per evitare che il fango blocchi i carri pesanti di Mosca come già accaduto nelle prime fasi della guerra. In quello che appare sempre di più un gioco a somma zero per il Cremlino, Putin è pronto a mobilitare nuove risorse per assicurarsi la vittoria. La nuova ondata di mobilitazione, per un ammontare di circa mezzo milione di uomini, dovrebbe dare nuova linfa all’offensiva russa, garantendo una schiacciante superiorità numerica in grado di far arretrare gli ucraini nel lungo periodo. Per Zelensky, invece, queste saranno settimane cruciali: gli ucraini dovranno decidere se continuare a morire per Bakhmut, oppure far indietreggiare di qualche kilometro il fronte e lasciare ai russi la città ormai completamente distrutta. Posta sulla difensiva dall’avanzata dell’Orso dopo la folgorante controffensiva estiva, Kyiv è costretta ad attendere nuovi rinforzi dagli alleati occidentali, il cui aiuto è stato il fattore determinate, insieme all’alto morale delle truppe, dei successi fin qui registrati dall’Ucraina. Se la consegna dei tanto richiesti carri armati Leopard e Abrams, prevista in primavera, non sarà quasi sicuramente in grado di cambiare le sorti della guerra, diverso potrebbe essere il caso degli F-16, i potentissimi aerei da combattimento adottati da diversi paesi NATO. Tali velivoli consegnerebbero a Zelensky la tanto desiderata superiorità aerea, e permetterebbero all’Ucraina di “chiudere” il proprio spazio aereo, impedendo le letali incursioni dei caccia russi e dei droni di fabbricazione iraniana. Lo scetticismo, però, regna sovrano a Bruxelles: consegnare questi jet significherebbe alzare pericolosamente il livello della tensione con Mosca, che potrebbe a quel punto considerare i paesi fornitori come cobelligeranti. Il vertice dei ministri della Difesa dell’Alleanza Atlantica, tenutosi il 14 febbraio a Bruxelles, ha chiaramente rappresentato la momentanea riluttanza della NATO a varcare il Rubicone per il momento.
La situazione sul campo
In una fase così confusa ed in continuo divenire giorno per giorno è difficile solo provare ad immaginare quali siano gli obiettivi militari dei due paesi: per Putin la conquista del Donbas rappresenta un imperativo categorico, pena la perdita di prestigio del regime. I russi, da sempre popolo imperiale ed imperialista, vivono di gloria e potenza. Non saranno certo le sanzioni economiche a far rovesciare il governo, ma un’aperta sconfitta in guerra potrebbe far saltare tutti i meccanismi e gli equilibri di potere che sorreggono lo Zar: le grandi rivoluzioni in Russia si sono verificate dopo catastrofiche sconfitte militari, come nel 1905 e nel 1917, non di certo per un peggioramento delle condizioni generali di vita. Per Zelensky la situazione appare ancor più caotica: ripristinare la sovranità territoriale ucraina ai confini del 2014 appare oggi abbastanza improbabile, poiché la Crimea, e soprattutto il porto di Sebastopoli, rappresentano un asset strategico che Mosca non si lascerà sfuggire facilmente. Se sarà in grado di limitare l’onda d’urto dell’imminente offensiva nemica, Kyiv potrà poi passare al contrattacco e, se dotata di nuovi armamenti pesanti, sfondare il fronte e penetrare nel Donbas occupato dai russi come fatto questa estate.
Il riassestamento dell’Occidente e la resilienza dei regimi autoritari
La guerra di Putin ha avuto il merito di ricompattare sotto un’unica bandiera quell’agglomerato politico e culturale che viene solitamente chiamato Occidente. Senza entrare nei meriti epistemologici del termine, il mondo occidentale, comprendente Europa, Stati Uniti e i paesi anglofoni del Commonwealth (Canada, Australia, Nuova Zelanda), pare aver trovato nuova coesione all’indomani dell’invasione russa. La sensazione che l’Ucraina, un paese con pur mille difetti, fra cui problemi di corruzione e mal governo, ma in procinto di abbracciare pienamente quelle istituzioni garanti dell’ordine liberale, come l’Unione Europea e la NATO, fosse stata attaccata da una potenza desiderosa di allontanarla dal nuovo percorso intrapreso, ha dato all’Occidente una nuova raison d’etre. La stessa Alleanza Atlantica, divenuta dopo il crollo dell’Unione Sovietica quasi più un megafono dell’espansionismo americano in Medio Oriente e nei Balcani che garante della sicurezza europea tout court, si riscopre come unica protettrice del Vecchio Continente dal bellicismo russo, nonché come scudo e colonna portante dell’Occidente e dei suoi valori. Le aspirazioni democratiche
e comunitarie di Kyiv, represse dai carri armati russi, hanno fatto sì che l’Occidente sentisse quella in corso in Ucraina come una brutale violazione dei propri principi che non poteva restare senza risposta: i miliardi di dollari spesi fin qui in aiuti economici e militari dimostrano come sia diffusa l’idea che l’ordine liberale uscito dalla fine della guerra Fredda sia, per la prima volta, seriamente sotto attacco.
Gli effetti dei bombardamenti russi su Kiev
A rafforzarsi, però, non è solo il mondo occidentale. Di fronte alla rinnovata coesione del mondo democratico a guida statunitense, è necessario che coloro i quali intendano sfidarne il primato si coalizzino per garantire un’alternativa credibile rispetto all’avversario. Il quadro internazionale che lentamente si delinea è quasi quello di un huntingtoniano “scontro fra civiltà”, in cui i paesi democratici e liberali dovranno sempre di più fare i conti con la resilienza ed il rafforzamento di regimi autoritari o ibridi. Lungi dal trionfare su scala globale, così come affermato da Fukuyama dopo il crollo dei regimi comunisti nell’est Europa, la democrazia liberale appare, anzi, sulla difensiva. Una delle conseguenze più significative della rottura dei rapporti fra Mosca e l’Occidente è stato il sempre più stretto avvicinamento del Cremlino alla Cina e all’Iran. Il fronte euroasiatico, così come teorizzato da Dughin, sembra sul punto di realizzarsi, ma a tirarne le fila non è certo la Russia, bensì la Cina. Forte di un primato economico neanche lontanamente raggiungibile da Mosca, il Dragone sembra prestarsi a pieno al ruolo di guida di tutti quei paesi che, per variegate ragioni, desiderano liberarsi dalla morsa del liberalismo e del liberismo a guida americana. L’emergere di un Beijing Consensus, in alternativa al celebre Washington Consensus a seguito della guerra in Ucraina sposta decisamente gli equilibri globali a favore del Dragone, anche se i problemi interni ed esterni che interessano il gigante asiatico non sono di facile soluzione. L’Iran invece sembra essere uscito senza sostanziali capovolgimenti dalla morsa delle proteste antigovernative che da settembre infiammano il paese. La capacità della classe dirigente di mantenersi al potere grazie all’uso della forza pare aver fiaccato il morale della maggior parte degli iraniani, rassegnati ormai a convivere con un regime repressivo ed oscurantista. Non è un caso che durante il periodo delle proteste Teheran si sia avvicinata decisamente a Mosca: l’invio dei droni kamikaze Geran 2 e Shahed 136 a supporto delle truppe russe in Ucraina hanno fatto sì che nuovi pacchetti di sanzioni fossero varati contro il regime, alimentando il sentimento di isolamento e avversione nutrito dalla Repubblica Islamica verso l’Occidente. La visita di Raisi a Pechino della scorsa settimana segna il parallelo avvicinamento dell’Iran alla Cina per aggirare le sanzioni e adottare un modello di sviluppo economico alternativo, in grado di emancipare la propria economia dai mercati globali, dominati dal dollaro e dagli Stati Uniti. La formazione di questa alleanza “alternativa”, che ha nel gruppo dei BRICS e dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai i propri pilastri, affascina molti paesi del “sud” del mondo, specie in Africa ed America Latina, desiderosi di stringere accordi di natura economica, energetica e militare con Russia e Cina in primis.
Nuove tendenze macroeconomiche: Europa, USA e Russia a confronto
La guerra in Ucraina ha contribuito a modificare l’economia internazionale, spingendo molti paesi dipendenti dal gas importato dalla Russia a diversificare le proprie entrate, cercando nuovi venditori ed alterando così lo stesso panorama delle relazioni internazionali. L’inflazione generata dai prezzi in aumento dal gas russo aveva lo scopo politico di far cessare il sostegno economico e militare occidentale all’Ucraina, costringendo i governi europei a destinare fondi e risorse per riportare il tasso d’inflazione reale sotto controllo. Questa tattica, parte della cosiddetta “guerra ibrida” giocata dal Cremlino non solo sul piano meramente militare, ma anche su quello logistico, economico e d’informazione, non ha pienamente funzionato, poiché quasi tutti i paesi occidentali, anche quelli più dipendenti dal gas russo, sono riusciti a mantenere costante il flusso d’aiuti verso Kyiv e a tenere a bada i prezzi delle materie prime per non generare una crisi generalizzata nei consumi. Le politiche monetarie restrittive adottate dai governi europei ma anche dagli stessi Stati Uniti sono riuscite lentamente a contenere l’ondata inflazionistica grazie a soluzioni comunque non indolori, come il rialzo continuativo dei tassi di interesse per vari trimestri consecutivi decretato dalla BCE e dalla americana FED. Dopo aver domato l’inflazione, Biden ha deciso di invertire la rotta, inaugurando una politica fiscale decisamente più espansiva attraverso lo stanziamento di oltre trecentosessantanove miliardi di dollari in sussidi per favorire la transizione green dell’economia americana, in modo da attrarre nuove imprese che investano nel paese. L’IRA (Inflaction reduction act) è chiaramente una misura volta a rendere più competitivi i mercati americani rispetto a quelli cinesi, ma che potrebbe avere ripercussioni anche in Europa: non a caso, Parigi e Berlino hanno già sollecitato la Commissione Europea al fine di intervenire per non restare indietro rispetto all’alleato americano. La dipendenza europea dal gas russo ha posto, in ogni caso, all’Europa la necessità di diversificare le proprie entrate, rivolgendosi ad altri acquirenti per prezzi più calmierati. Su tutte, la politica italiana di un rinnovato slancio nel Mediterraneo, che ha portato la premier Meloni a vistare prima Algeri e poi Tripoli, appare come un tentativo di aprire una rotta meridionale per far giungere il gas nordafricano in Europa attraverso l’Italia che, nei progetti del governo, dovrebbe fungere da vero e proprio hub europeo.
Ad influire sui bilanci dei vari stati non è solo la questione del gas, ma anche quella di un riarmo percepito come necessario di fronte alla rinnovata minaccia russa e cinese. A rompere decisamente col proprio passato sono in particolare Germania e Giappone: le due principali potenze sconfitte nella Seconda guerra mondiale che avevano adottato post 1945 una politica volta a limitare al minimo le spese militari si ritrovano ora ad annunciare un cambiamento in materia di difesa che si annuncia sulla carta rivoluzionario. Berlino ha dichiarato di voler intraprendere una spesa di oltre centonove miliardi per trasformare la Bundeswehr nell’esercito più potente d’Europa, mentre il Giappone di Kishida è deciso ad aumentare la propria deterrenza, sulla scia del predecessore Shinzo Abe, per contrastare la minaccia cinese nell’Indo-Pacifico. Cambiamenti strutturali che andranno a modificare la spesa pubblica di buona parte dei paesi occidentali, i quali hanno visto lentamente prosciugarsi i propri arsenali a causa della continua devoluzione di armi in supporto della resistenza ucraina.
Infine, l’economia dell’Orso russo, sottoposto a duro regime di sanzioni internazionali da un anno, resiste ma non registra miglioramenti nel lungo periodo. Secondo il Fondo Monetario Internazionale, la Russia ben presto uscirà dalla recessione, ma a ritmi bassissimi di crescita (0,3%). Mosca è riuscita a trovare nuovi compratori in India e Cina a seguito del crollo della domanda di gas europea, che rappresentava prima della guerra il mercato più importante per le casse del Cremlino, ma l’assenza di prodotti tecnologici importanti dall’Occidente continua a danneggiare l’economia e rischia di contrarre la domanda interna per beni di produzione ad alta tecnologia. Con una spesa pubblica in costante rialzo a causa degli investimenti in armamenti per supportare lo sforzo bellico, il rischio del deficit di bilancio si nasconderà dietro l’angolo ancora a lungo per Putin.
Cosa ne sarà di Russia ed Ucraina?
Come era prevedibile, nel suo discorso tenuto alle camere della Duma il 21 febbraio Putin ha garantito di essere pronto a qualsiasi cosa pur di assicurarsi la vittoria nel conflitto. Dopo le solite accuse mosse all’Occidente, colpevole di aver provocato le ostilità, lo Zar ha annunciato di voler ritirare la Russia dal trattato START sulle armi nucleari offensive, rendendo ancor più evidente il decoupling fra Mosca e Washington, le cui relazioni ricordano oggi i periodi più tesi della guerra Fredda. Il discorso di Putin non è servito solo ad ammonire i nemici esterni, ma anche gli avversari interni: da tempo stanno scalando i ranghi del potere i fautori di un approccio “radicale” alla guerra, fra cui rientrano il falco ed ex presidente Medvedev, il sanguinario leader ceceno Kadyrov e soprattutto l’ex cuoco di Putin, nonché capo del Gruppo Wagner, Evgenij Prigozin. Proprio quest’ultimo pare aver guadagnato un potere non indifferente, testimoniato dalle vittorie sul campo dei suoi uomini. La Wagner, da semplice milizia privata, si sta pericolosamente trasformando in una forza parallela all’esercito regolare, in grado di agire su un piano di semi-autonomia dagli ordini del Cremlino. Inutile sottolineare come dalla vittoria della guerra in Ucraina dipenda il futuro di Putin e del suo cerchio magico: questo lo Zar lo sa bene, non potendosi permettere di uscire sconfitto almeno dal pantano del Donbas. Se sul piano militare la vittoria è ancora alla portata, su quello diplomatico e propagandistico la sconfitta pare essere ormai acclarata. L’isolamento internazionale dell’Orso, e la sua regressione in un regime aggressivo e dai tratti ultranazionalistici stridono con l’idea di una Russia all’avanguardia e di ponte culturale fra Oriente ed Occidente. Un danno terribile, che peserà a lungo sul futuro del paese, con o senza Putin.
Biden incontra Zelensky il 20 febbraio
Partita con l’idea di distruggere la nazione ucraina, in realtà l’invasione di Putin ha finito per dare un’identità che a Kyiv mancava terribilmente. Se, come sostiene Charles Tilly, gli Stati fanno le guerre, ma sono le guerre a fare gli Stati, questo non può che essere il caso dell’Ucraina, la cui popolazione si è riunita a difesa di una Madrepatria per la prima volta percepita come tale. Da regime ibrido, estremamente corrotto e ostaggio della cleptocrazia oligarchica, Kyiv sembra aver capito quale percorso intraprendere. La mobilitazione militare, economica ed infine ideologica dell’Occidente per soccorrerla ha trasformato l’Ucraina nel teatro di un nuovo scontro fra universalismi. Abbandonando i discorsi ideologici che poco calzano con la politica internazionale, non sappiamo cosa effettivamente resterà del paese dopo la guerra. La sorprendente resistenza dell’esercito e della popolazione, nonché la caparbietà e il carisma di Zelensky hanno affascinato il mondo, ma sarà difficile per Kyiv tornare ai confini territoriali del 24 febbraio 2022. L’imminente offensiva russa molto ci dirà sul futuro prossimo della guerra. La soluzione alla coreana del conflitto, ovvero con un cessate il fuoco non seguito da un trattato di pace internazionalmente riconosciuto pare essere quella, al momento, più probabile. Non sapremo se l’Ucraina aderirà o meno alla NATO, in che tempi riuscirà a divenire membro dell’Unione Europea, né se la democrazia e lo stato di diritto riusciranno ad affermarsi pienamente; tuttavia, l’adesione di Kyiv al mondo occidentale, qualunque cosa questo termine voglia significare, è ormai un dato di fatto.
Ed è forse questo il più grande errore di Putin: aver sottostimato la reazione di un gigante considerato ormai in decadenza, fiaccato da crisi economiche, di legittimazione e da interventi militari sconsiderati, ma capace di risollevarsi e compattarsi come mai accaduto sotto un’unica bandiera. La visita a sorpresa di Biden a Kyiv del 20 febbraio dimostra incontrovertibilmente il peso della guerra in Ucraina per i garanti di questo ordine occidentale e democratico: garantendo mezzo miliardo di dollari in aiuti, gli Stati Uniti intendono avere un ruolo di primo piano in quella che sarà la ricostruzione di un paese distrutto, in una mossa che ricorda in piccolo il finanziamento del Piano Marshall per risollevare l’Europa in macerie dalla guerra hitleriana. Il mondo, oggi come allora diviso in blocchi, rischia di andare verso la stessa direzione, ovvero quella di una recrudescenza delle relazioni internazionali, di cui la popolazione globale, stremata da anni di pandemie e recessioni, non aveva assolutamente bisogno.
La guerra in Ucraina rischia di essere solo la prima di una serie di crisi destinate a scuotere dalle fondamenta le logiche di potere che hanno contraddistinto il pianeta negli ultimi trent’anni.
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