di Sofia Lazzarini.
“I wish I knew how
It would feel to be free
I wish I could break
All the chains holdin' me”
(Nina Simone, I wish I know how it would feel to be free)
Questo articolo si propone di illustrare l’impegno ed il protagonismo delle molte attiviste afroamericane che a gran voce hanno preteso e lottato, sin dagli anni Cinquanta, per l’ottenimento dei propri diritti in quanto cittadine americane, donne e nere. Ma andiamo con ordine. Partiamo definendo cosa sia il Black freedom struggle, ovvero l’insieme delle iniziative degli e delle afroamericane per conseguire la pienezza di tutti i diritti. Il suddetto fenomeno è stato suddiviso dagli storici in tre macro-sezioni dinamiche e interconnesse tra loro: il periodo dell’Accomodation, durante il quale il popolo nero ha convissuto con la segregazione cercando di crearsi propri spazi di azione e resistenza (anni compresi indicativamente dalla fine della Guerra civile, 1865, sino all’inizio delle battaglie per i diritti civili nel 1955), quello della Militant confrontation dove il regime segregazionista viene forzato in favore dell’integrazione razziale (momento che va dal boicottaggio degli autobus a Montgomery sino all’assassinio di M.L. King nel 1968) ed infine il Black separatism nel quale la divisione razziale viene scelta dagli stessi afro-americani in seguito alla consapevolezza dell’impossibilità di una convivenza insieme ai bianchi (arco di tempo che va dalla fine degli anni Sessanta ai giorni nostri).
È necessario, tuttavia, ricordarsi come queste partizioni non siano compartimenti stagni, ma realtà poliedriche che si intersecano, influenzano o sostituiscono le une alle altre durante i diversi momenti storici. Riguardo a questi fenomeni, è interessante sottolineare criticamente un aspetto: se il protagonismo maschile all’interno delle lotte per i diritti civili è stato maggiormente accentuato e studiato per la presenza di famosi leader come M. L King, Malcolm X o Mandela, meno lo è stato quello femminile che sin dalla fine dell’Ottocento ha fatto sentire la propria voce associando la liberazione di genere a quella razziale.
Stephen Shames
Voler combattere molteplici forme d’oppressione: il Black Feminism
Nonostante il Black Feminism, inteso come movimento strutturato con una propria peculiare costruzione teorica e come nuovo orizzonte per gli studi di genere, sia sorto ancora nella seconda metà degli anni Sessanta del XX secolo, se ne sente infatti parlare ancora poco. Questo particolare femminismo, affondando le proprie radici e traendo le proprie forze dal rapporto delle donne afroamericane con i movimenti ottocenteschi e novecenteschi di liberazione del popolo nero, si è da sempre differenziato dalle altre realtà di lotta per la doppia richiesta di libertà ed autodeterminazione. Nonostante le donne afroamericane siano rimaste escluse a lungo dai gruppi femministi composti da donne bianche e di classe media, dopo decenni di schiavitù e di soprusi non si rassegnarono al posto assegnato loro dalle loro “sorelle” bianche.
Si organizzarono, quindi, in movimenti alternativi attraverso i quali poter sfogare i propri sentimenti di emancipazione e di resistenza all'oppressione sessuale, politica, economica ed insieme razziale. Sin dalla First National Conference of Colored Women, tenutasi a Boston nel 1895, le donne afroamericane cercarono di individuare una comune strategia ponendo al centro del proprio programma l’opposizione al razzismo al quale erano quotidianamente sottoposte al pari dei propri fratelli neri. Prima ancora di poter anche solamente pensare di combattere contro le discriminazioni sessuali ed il maschilismo diffusi nella società, queste donne dovettero combattere per la propria vita subordinando la liberazione della donna a quella del proprio popolo. Il Black Feminism ebbe un ruolo fondamentale per quel che riguarda la presa di coscienza dei rapporti di dominio, del loro intersecarsi e della necessità di una resistenza storicamente situata in sincronia con gli obiettivi e le lotte dei movimenti per i diritti civili. Furono dunque le donne nere, sulla base del proprio vissuto, a cogliere per prime l'importanza degli intrecci dei diversi assi di dominio in vista di una resistenza efficace e intersezionale all’oppressione. Come ricorda Angela Davis:
“La libertà universale è un ideale rappresentato al meglio non da chi si trova già all’apice delle gerarchie di razza, genere e classe, ma piuttosto da coloro le cui vite sono viceversa definite dalle condizioni imposte da libertà imperfette e lotte incessanti per svincolarsi da tali condizioni” (Patrisse Khan-Cullors e Asha Bandele, 2020: 9).
Shutterstock royalty-free stock photo ID: 1746307151
Essere donne e afroamericane negli anni Sessanta-Settanta:
Proviamo ad immaginare com’era essere una donna afroamericana durante quegli anni negli Stati Uniti. Com’era vivere sulla propria pelle sia il segregazionismo, le violenze della polizia, la povertà e la ghettizzazione che il sessismo, il maschilismo e la violenza di genere in una società ancora fortemente patriarcale ed insieme razzista? Opporsi e abbattere una doppia discriminazione e subordinazione sia sul piano del genere che della razza non dev’essere stato semplice.
Eppure, i libri di storia parlano ancora troppo poco delle protagoniste di quegli anni che insieme ai propri fratelli neri, come il reverendo King, Malcolm X, Stokely Carmichael, John Lewis o altri attivisti, hanno lottato per i propri diritti in quanto afroamericane ma anche donne. Si pensi a Ella Baker, co-fondatrice nel 1960 dello SNCC (The Student Non-Violent Coordinating Committee), a Diane Nash che insieme al SCLC (Southern Christian Leadership Conference) ha organizzato la marcia da Selma a Montgomery nel 1965, a Rosa Parks, segretaria del NAACP (National Association for the Advancement of Colored People) di Montgomery e protagonista del boicottaggio degli autobus nel 1955, a colei che ha affiancato e portato avanti le battaglie del compagno anche dopo la sua morte nel 1968, ovvero Coretta Scott-King, alle “pantere” Afeni Shakur ed Elaine Brown che all’interno del BPP (Black Panther Party) hanno rivestito ruoli di comando e direzione, ad Angela Davis, intellettuale, militante del Communist Party of the United States of America, del BPP e nello SNCC. È interessante ed importante notare la galassia di differenti ideologie politiche (sia moderate che radicali), approcci (violenti e/o pacifici), strumenti (come la via legale o quella rivoluzionaria) ed obiettivi (ad esempio distaccarsi o convivere con l’America bianca) che queste donne incarnarono con le proprie rivendicazioni. Molti sono stati i risultati positivi di queste lotte intersezionali, le libertà ed i diritti economici, politici e sociali ottenuti anche e soprattutto grazie a queste donne. Pensiamo alla fine della segregazione sui mezzi pubblici, nelle scuole e nelle università, al Civil Rights Act del 1964, il quale ha sancito, almeno idealmente, la fine delle discriminazioni per razza, genere e credo nei luoghi pubblici e nel campo lavorativo, o all’annullamento del Racial Integrity Act che dal 1924 proibiva i rapporti ed i matrimoni misti.
Il maschilismo ed il centralismo talvolta patriarcale delle organizzazioni per i diritti civili o del Black power, si percepiva anche all’interno del Black Panther Party nato nel 1966 ad Oakland, in California, grazie a due studenti afroamericani di nome Bobby Seale e Huey Newton. Questo gruppo, rifiutando gli ideali non violenti di M.L King e di altri leader dei movimenti per i diritti civili, era un’alternativa rivoluzionaria, organizzata e disciplinata di auto-difesa e auto-tutela armata del popolo nero per far fronte al “domestic colonialism” al quale tutti loro erano sottoposti. Era dunque l’estremismo della Nation of Islam di Malcolm X, il terzomondismo, il marxismo-leninismo, l’assistenzialismo e l’inter-comunitarismo ad interessare Newton e Seale. Mettendo in discussione il monopolio e l’utilizzo legittimo della violenza appartenente allo Stato, le pantere si proponevano di salvaguardare e tutelare da sé la propria comunità seguendo un programma suddiviso in dieci punti:
“Vogliamo la libertà per la nostra gente; vogliamo che finisca la rapina dei capitalisti a danno della nostra comunità nera; vogliamo case decenti, adatte a esseri umani; vogliamo che i neri siano esentati dal servizio militare; vogliamo che finisca immediatamente la brutalità della polizia e l’assassinio della gente nera; vogliamo la libertà di tutti i neri nelle carceri federali, statali, di città e di contea; vogliamo che tutti i neri siano processati da giurie di loro pari o da persone delle comunità nere; vogliamo terre, pane, case, istruzione, vestiario, giustizia e pace” (Abu-Jamal, 2018: 103).
Ancora oggi si associa la pantera all’immagine di un uomo giovane, con capelli afro, basco nero, giubbotto di pelle ed arma in pugno, ma pochi ricordano un piccolo particolare che Angela Davis ci sottolinea:
“Conosciamo le Black Panther soprattutto per le vicende legate ai loro leader uomini ma in realtà ben sette su dieci erano donne. Erano studentesse, lavoratrici, artiste piene di amore per il loro popolo” (Stephen Shames e Ericka Huggins, 2020: 10).
Le molte attività di sostengo alla comunità nera, come il rinomato Free Breakfast for Children Program ed altri aiuti mirati alla sanità, al trasporto gratuito, alla sicurezza, alle abitazioni ed all’istruzione, erano infatti gestiti ed organizzati principalmente dalle donne del movimento. È bene ricordare come le donne non ricoprirono unicamente ruoli “assistenziali” ma diressero lo stesso partito nel momento del bisogno: si pensi al caso di Elaine Brown, la quale dopo la carcerazione di diversi leader del BPP ne divenne il capo. Se, tuttavia, alcune pantere denunciarono il sessismo e gli abusi nel movimento, altre lo descrissero come un luogo alternativo nel quale potersi esprimere e autodeterminarsi (nonostante i dieci punti non citino mai i termini “genere” o “donna”).
Stephen Shames
Portare avanti la lotta oggi: le donne di Black Lives Matter
Se oggi il segregazionismo è terminato, non lo sono tuttavia le violenze della polizia, le discriminazioni sul piano lavorativo-salariale, abitativo o economico, la stigmatizzazione e la criminalizzazione che colpiscono, ancora e di più, le donne afroamericane. Ne sanno qualcosa Patrisse Khan-Cullors, Alicia Garza e Opal Tometi che nel 2013 hanno fondato a Los Angeles il movimento Black Lives Matter dopo l’ennesima assoluzione di un uomo bianco per l’uccisione di un giovane diciassettenne nero di nome Trayvon Martin. Patrisse Khan-Cullors nei suoi testi ci ha raccontato come essere donne, afroamericane, povere e queer sia ai giorni nostri ancora estremamente complesso e di come, per l’alto numero di donne nere che subiscono violenze di ogni tipo da parte dei propri partner, chiamare la polizia sia spesso una scelta peggiore che subire soprusi in silenzio. Queste donne, pienamente consapevoli delle molte leggi apertamente razziste e delle politiche repressive mirate a penalizzare le loro vite, hanno saputo dare una risposta collettiva per costruire ed educare una società nuova:
“L’obiettivo è la libertà, è vivere oltre la paura. L’obiettivo è far cessare l’occupazione dei nostri corpi e delle nostre anime da parte di quegli agenti di una più vasta cultura americana che ogni giorno si impegna a dimostrare che noi non contiamo” (Patrisse Khan-Cullors e Asha Bandele, 2020: 140).
Essendo un’organizzazione creata e prevalentemente gestita da donne afroamericane queer e trans, Black Lives Matter ha da sempre avuto a cuore la questione razziale come quella di genere attingendo sia dal Black Feminism che dal Black Power e dai molti movimenti per i diritti civili del XX secolo. Queste eredità sono evidenti negli obiettivi del progetto BLM: porre fine a qualsiasi violenza contro il corpo dei neri e delle nere; accettare, rispettare e celebrare le differenze; considerarsi una parte della grande famiglia nera mondiale ed essere consapevoli che esistono modi diversi in cui il popolo nero vive in parti diversi del mondo; onorare la leadership e l’impegno dei compagni e compagne trans e di genere non conforme; essere consapevoli del privilegio cisgender e tentare di delimitarlo, sostenendo al tempo stesso la comunità nera trans e particolarmente le nere trans; proclamare il fatto che “Black Lives Matter”: le vite di tutte le persone nere contano indipendentemente da identità sessuale, genere, condizione economica, abilità o disabilità, credo o scetticismo religioso, status sociale e collocazione geografica; fare in modo che la rete di Black Lives Matter sia uno spazio per l’affermazione delle donne nere libero da sessismo, misoginia e centralità del maschio; favorire una rete comune intergenerazionale; incarnare e praticare la giustizia, la liberazione e la pace in tutti i rapporti verso gli altri e le altre.
Come Ella Baker e Angela Davis, le donne di questo ed altri movimenti per i diritti civili dei nostri anni si sentono chiamate all’azione in virtù delle proprie storie di discriminazione e oppressione. Le fondatrici di BLM ricordano come, grazie a queste realtà relazionali, di sostegno e protesta, ognuna abbia potuto condividere le proprie esperienze simili a quelle di moltissime altre donne nere americane:
“Ad un certo punto, le sorelle cominciano a parlare di quanto si siano sempre sentite vulnerabili, di quanto i media si concentrino abitualmente sugli uomini, anche se sono le donne a scendere in piazza per manifestare. […] Siamo noi le custodi di questa comunità! Là fuori ci sono donne, spesso con i loro figli, a dire basta alla violenza della polizia, affermando di avere il diritto di crescere i propri figli senza lo spettro della paura! Eppure, non è il coraggio delle donne che i media mostrano al mondo. Quando la polizia attacca, noi non scappiamo. Resistiamo. E meritiamo che ci venga riconosciuto” (Patrisse Khan-Cullors e Asha Bandele, 2020: 204).
Queste parole sembrano esser state scritte da un’attivista degli anni Sessanta o Settanta, non da una degli anni Duemila.
BLM
Un urlo corale, nero e donna:
Le militanti delle Black Panther, dei Black Lives Matter o dello Student Non-Violent Coordinating Comittee hanno arricchito ed arricchiscono il nostro presente incerto e, purtroppo, ancora lontano dall’essere perfetto. La libertà totale che le donne nere degli anni Sessanta e Settanta auspicavano, infatti, solo in parte si è realizzata; tuttavia, oggi come all’ora, le richieste di libertà ed uguaglianza non cadono nel vuoto grazie ad attiviste come Patrisse Khan-Cullors le quali portano avanti quell’urlo corale, nero ma, soprattutto, donna. E come cantava nel 1970 Nina Simone in “To be young, gifted and black”:
“Oh, but my joy of today
Is that we can all be proud to say
To be young, gifted and black
Is where it's at”
REUTERS/Jay Paul
Bibliografia
-Abu-Jamal, M. (2018), Vogliamo la libertà. Una vita nel partito delle pantere nere, Milano, Mimesis.
-Huggins, E., Shames, S. (2022), Comrade Sisters: Women of the Black Panther Party, Melton (UK), ACC Art Books.
-Luconi, S. (2021), L’anima nera degli Stati Uniti: gli afroamericani dalla schiavitù a Black Lives Matter, Padova, CLEUP.
-Khan-Cullors, P., Bandele, A. (2020), Quando ti chiamano terrorista, Roma, Ottotipi Edizioni.
Image Copyright: Stephen Shames
Comments