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  • Writer's pictureKoinè Journal

A ferro e fuoco: l'autunno rivoluzionario della Repubblica Islamica


di Lorenzo Ruffi.


La brutale uccisione della ventiduenne curda Masha Amini scuote la Repubblica Islamica dalle fondamenta, portando decine di migliaia di giovani a protestare nelle principali città del paese contro le norme restrittive imposte dal regime in ambito di norme e costumi islamici. Mai, dalla caduta dello shah nel 1979, un così grande numero di persone, specialmente donne, aveva occupato le più importanti piazze per esprimere a gran voce il loro dissenso nei confronti della gestione politico-economica dell’Iran. Gli ayatollah rispondono al momento con la forza, schierando i propri squadroni della morte per soffocare sul nascere il moto rivoluzionario del popolo iraniano. La brutale risposta offerta dal regime non nasconde però i problemi strutturali che affliggono la Repubblica Islamica: un’inflazione galoppante, una classe dirigente sempre più gerontocratica e corrotta, la pressione internazionale esercitata dai nemici, la debolezza dei propri partner. Le proteste che stanno infiammando il paese sono il primo importante campanello d’allarme per l’instabilità del governo islamico. Oltre a dover fronteggiare la protesta delle donne in quella che potrebbe diventare la prima rivoluzione di genere nella storia del Medio Oriente, Teheran è costretta a fare i conti con il ritorno delle spinte autonomistiche nel Kurdistan e nell’Azerbaijan, mentre i nemici giurati della Repubblica Islamica attendono famelicamente che il corso degli eventi li favorisca.


Shahidun Masha: martire della rivoluzione

Nella teologia islamica iraniana un posto di rilievo è sempre stato riservato a coloro che sono stati uccisi da poteri dispostici mentre cercavano di portare del bene alla comunità: una delle principali figure dello sciismo, l’imam Husayn, figlio di Alì e nipote del Profeta, fu ucciso a Kerbala nel 680 DC per mano del califfo omayyade Yazid, persecutore della famiglia di Alì da cui sarebbe discesa l’attuale comunità sciita. La principale mobilitazione di piazza che portò alla caduta dello shah si ebbe, non a caso, durante la festività dell’Asura, in cui si celebra il martirio di Husayn nelle polverose piane di Kerbala. L’uccisione della giovane ragazza curda, rea di non aver correttamente indossato il velo così come imposto dalle autorità, ha mosso qualcosa nella coscienza del popolo iraniano.

Per la prima volta nella sua storia, la Repubblica Islamica è scossa da un moto di protesta che mette in discussione la sua stessa esistenza. Quando i giovani scesero in piazza nel 2009 per protestare contro la rielezione dell’ultraconservatore Mahmud Ahmadinejad nessuno pensava che qualcosa sarebbe veramente cambiato. I moti che invece stanno interessando tutto il paese in questi giorni assomigliano più ad una sollevazione generale, dettata dalla stanchezza dei più giovani per un modello di società che non rispecchia più le loro ambizioni. La risposta del regime è stata violentissima: i reparti della NAJA, la famigerata polizia “morale”, la responsabile della morte di Masha, è stata schierata in tutte le città, insieme ai reparti dell’esercito e dei Pasdaran, i Guardiani della Rivoluzione Islamica, per soffocare le proteste nel sangue. Ad oggi, i morti a seguito della repressione sfiorano il centinaio, ma il bilancio è destinato ad aumentare. A fare il giro del mondo è stata la notizia dell’uccisione della ventenne Hadis Najafi, divenuta simbolo delle proteste per aver girato video in cui usciva liberamente senza indossare l’hijab, lasciando ben in vista i suoi lunghi capelli biondi. Nonostante la repressione del regime, le proteste non accennano a fermarsi.


L’obiettivo dichiarato delle giovani e dei giovani pronti a sfidare il governo è sicuramente in merito all’abbigliamento femminile e all’adesione incondizionata ai principi l’abolizione delle norme restrittive islamici imposti dall’alto; quello non dichiarato, ma difficile, ad oggi, da realizzare è la caduta del regime degli ayatollah. Una parte consistente della popolazione, quella più anziana e naturalmente più conservatrice, guarda con disinteresse, se non con disprezzo, alle proteste. Ma soprattutto non esistono forze politiche interne che possano contendere realmente il potere alla giunta islamista. La partitocrazia in seno all’Iran è limitata dall’adesione di tutti gli attori politici ai valori comuni della Repubblica Islamica: non esiste, quindi, una forza che possa mettere in crisi lo status quo. Le forze di opposizione sono state costrette all’esilio subito dopo la rivoluzione. L’oppositore più importante all’estero è senza dubbio Reza Ciro Pahlavi, il figlio maggiore dello shah, ma la sua continuità politica col padre lo mette in cattiva luce in un paese in cui è ancora ben radicato il sentimento antimonarchico. L’Occidente, invece, può fare ben poco, vista la mancanza di concrete alternative e le fallimentari esperienze di esportazione democratica nel Medio Oriente. Ciò non significa che il regime iraniano possa dormire sogni tranquilli: la protesta contribuisce a destabilizzare un paese già in profonda crisi. Vediamo perché.


Morto Khamenei se ne fa un altro?

A gettare ancor di più il paese nel caos sono le condizioni di salute della Guida Suprema dell’Iran, l’ayatollah Alì Khamenei, al potere dal giugno 1989. Secondo notizie lasciate trapelare da alcune testate giornalistiche in Medio Oriente, l’ottantatreenne leader iraniano sarebbe stato operato d’urgenza due settimane fa per un’ostruzione intestinale.

L’operazione sembra essere andata a buon fine, ma le sue condizioni rimangono critiche e preoccupano l’intero establishment della Repubblica Islamica. Il ruolo della Guida Suprema, così come progettato dall’artefice della rivoluzione islamica, l’ayatollah Khomeini, è quello di vero e proprio deus ex machina della politica iraniana: spetta a lui decidere e dirigere le linee guida principali della politica estera, interna ed economica del paese. Egli nomina e destituisce il Presidente della Repubblica, nomina i fuqaha’, ovvero gli esperti di diritto islamico che vegliano sull’adesione delle leggi alla morale islamica, e soprattutto ha il controllo totale delle forze armate, in particolare del corpo più politicizzato, i già menzionati Pasdaran, che rispondono delle loro azioni esclusivamente alla Guida Suprema. La morte di Khamenei, o comunque la sua impossibilità a dirigere personalmente la politica nazionale in questa delicata fase creerebbe una stasi destinata ad inceppare il meccanismo politico della Repubblica Islamica. Senza un’effettiva e stabile presa di potere del Grande ayatollah sul paese, il funzionamento della Repubblica Islamica verrebbe a difettare. Il ruolo del Presidente della Repubblica, garante del potere esecutivo la cui linea resta, tuttavia, dettata dalla Guida Suprema, non è abbastanza forte per sopperire all’inefficienza del suo superiore nella scala gerarchica del potere della Repubblica Islamica. L’attuale Presidente, l’ultraconservatore Ebrahim Raisi, un fedelissimo di Khamenei, gode di una popolarità assai bassa, in costante decrescita dall’estate del 2021. Oltre a dover fronteggiare un’inflazione galoppante, con un tasso superiore al 12%, il governo Raisi si è dimostrato incapace di risolvere i problemi strutturali del paese, incontrando l’opposizione sempre più feroce dei giovani iraniani scontenti dalle politiche del regime. L’inasprimento delle pene per i reati contro “la morale islamica” e nuove norme restrittive in materia di abbigliamento femminile hanno fatto saturare la pazienza di decine di migliaia di giovani: l’uccisione di Masha Amini ha scoperchiato un vaso di Pandora in pericoloso fermento da tempo. A complicare la situazione vi è sicuramente la disperata situazione economica del regime, su cui gravano, fin dal 1980, pesanti sanzioni internazionali che hanno reso difficile, se non impossibile, sviluppare un’economia solida al di fuori del settore import-export di idrocarburi.


Gli accordi di Vienna sul nucleare iraniano, iniziati nel 2015 sotto gli auspici di una riduzione da parte di Teheran del processo di arricchimento dell’uranio e di un alleggerimento delle sanzioni da parte della Comunità Internazionale, sembrano destinati a fallire. La tenuta dell’accordo, già deteriorata con l’elezione di Raisi nel 2021, rischia di frantumarsi definitivamente a seguito della repressione scatenata dal regime in questi giorni per stroncare le proteste; oltre a questo, anche la Russia, alleato strategico di Teheran, ha posto il proprio veto al proseguimento dei trattati in seguito alla totale rottura diplomatica dei rapporti fra Mosca e l’Occidente dopo l’invasione dell’Ucraina del febbraio 2022. Ciò non farà altro che aumentare l’isolamento internazionale dell’Iran, un isolamento destinato ad aumentare a causa della crisi che sta colpendo i pochi alleati della Repubblica Islamica, impegnati in sfide estere e domestiche che faranno loro distogliere lo sguardo per un po’ dalla Persia.


Come Teheran guarda con preoccupazione alle crisi internazionali

Oltre alle proteste dei giovani, il regime sta fronteggiando un altro tipo di insurrezione assai più pericoloso per la tenuta e per la sopravvivenza della Repubblica Islamica. Nel Kurdistan iraniano, patria di Masha Amini, la popolazione locale curda (circa otto milioni di individui) è tornata a chiedere a gran voce l’autonomia, se non addirittura l’indipendenza, dal governo centrale. I curdi in Iran sono particolarmente vessati e discriminati dal regime, ma, nonostante ciò, sono riusciti ad organizzarsi politicamente in maniera segreta e clandestina per sfidare direttamente il potere centrale. Fondamentale è stato fin dagli anni Settanta il KDPI (Partito Democratico del Kurdistan Iraniano) per i suoi legami con le altre formazioni curde in Iraq e Turchia, il quale ha ingaggiato una lotta senza quartiere con il regime iraniano per portare quest’ultimo a concedere autonomia politica ai curdi del nord-ovest. Altra regione in rivolta è l’Azerbaijan iraniano, nell’estremità occidentale del paese, dove le richieste di annessione al governo di Baku si sono moltiplicate a seguito delle proteste in Iran e della nuova offensiva del regime azero in Nagorno-Karabakh.

Teheran ha prontamente inviato le proprie truppe al confine con Baku per frustrare le velleità di annessione della popolazione locale al governo di Ilham Aliev. La guerra fra Azerbaijan e Armenia preoccupa indirettamente il regime iraniano perché sintomo dell’incapacità di Mosca di garantire la pace e la stabilità in un’area che dovrebbe essere di sua competenza. L’indebolimento economico, militare e politico della Russia a causa della fallimentare campagna nell’Ucraina orientale ha spinto il regime di Putin a risolvere in primis i problemi interni del paese, trascurando completamente i paesi alleati del Cremlino, fra cui vi è pure l’Iran. La Russia è sempre intervenuta quando un proprio partner rischiava di essere rovesciato dall’opposizione, come in Siria nel 2015 e in Kazakistan nel 2021, ma ad oggi, a causa della sua momentanea debolezza, non sembra più essere in grado di fungere da gendarme dei regimi autoritari in giro per il mondo. La stessa Cina, altro alleato strategico degli ayatollah, non sembra al momento in grado di fornire un consistente aiuto al regime iraniano per restare al comando. Pechino, che sta affrontando la sua più grande recessione economica degli ultimi dieci anni e alle prese con la caldissima partita geopolitica nell’Indo-Pacifico che la vede contrapposta all’America nelle acque dello stretto di Taiwan, non pare essere né in grado, né aver voglia di spendersi in aiuto di Teheran. La sensazione nei palazzi del potere della Repubblica Islamica potrebbe essere quella di un totale abbandono: gli ayatollah sanno che la sopravvivenza della loro creatura politica passerà esclusivamente dalle proprie forze, e non accenneranno a diminuire l’ondata di violenza fino a che le proteste non si esauriranno.


E se la Repubblica Islamica cadesse?

Come già accennato in precedenza, l’eventuale collasso della teocrazia iraniana è, al momento, estremamente difficile ma non del tutto improbabile. Per riuscire ad abbattere la Repubblica Islamica, il movimento di protesta dovrebbe avere dalla propria almeno una parte delle forze che esercitano, senza scomodare Weber, il monopolio dell’uso legittimo della violenza. Ciò semplicemente significa che reparti della polizia e dell’esercito dovrebbero sottrarsi al giuramento di fedeltà che li lega al regime e schierarsi con gli insorti. Non è un fenomeno nuovo nella storia dell’Iran, poiché già all’epoca della rivoluzione del 1979 alcuni ufficiali dello shah gettarono a terra le proprie uniformi per unirsi alla folla in rivolta. Ciò rischierebbe di innescare pericolosamente una guerra civile fra le forze governative e i ribelli in grado di sirianizzare l’Iran, con tutti i devastanti effetti che questo comporterebbe. Stiamo, ovviamente, ragionando per assurdo, ma in quanti studiosi di politica internazionale è sempre bene intavolare ogni scenario possibile per evitare il peggio in futuro. Proseguendo il nostro ragionamento per ipotesi, ci dovremmo ora chiedere: cosa succederebbe se la Repubblica Islamica crollasse su se stessa?


L’Iran è il paese del Medio Oriente col maggior peso geopolitico: ciò significa che l’eventuale collasso del regime non avrebbe effetti solo entro i confini nazionali, ma essi si riverserebbero pericolosamente in tutta la regione. Un vuoto di potere a Teheran, ma anche un semplice indebolimento del regime, causerebbero un’onda d’urto in grado di frantumare i fragilissimi equilibri della zona.

Chi ne trarrebbe vantaggio? Sicuramente gli acerrimi nemici della Repubblica Islamica, come Israele e gli Stati Uniti, ma anche potenze regionali come l’Arabia Saudita o il Bahrain saluterebbero con favore la caduta del regime. Questi attori potrebbero approfittarne per erodere la sfera d’influenza del regime in tutta la regione, cambiando radicalmente volto al Medio Oriente che fino ad ora abbiamo conosciuto. Tuttavia, il crollo della Repubblica Islamica avrebbe effetti dirompenti in tutte quelle zone in cui Teheran ha, fino a questo momento, esercitato la sua sfera d’azione. L’Iran, fin dagli anni Ottanta, è stato uno degli attori più attivi nella trasformazione geopolitica del Medio Oriente: il regime degli ayatollah è intervenuto nei più svariati contesti, dal Libano alla Siria, dall’Iraq allo Yemen, e non solo. In tutti questi paesi, in passato o ancora oggi teatro di aspre guerre civili, Teheran è riuscito con la forza ad estendere una sorta di pax iraniana in grado di congelare momentaneamente questi conflitti. In Yemen, dove la guerra civile fra le milizie filoiraniane degli Houthi e le forze governative dura a fasi alterne da quasi otto anni, l’Iran è riuscito ad ottenere un momentaneo cessate il fuoco per porre fine allo spargimento di sangue e alle immani devastazioni del conflitto. Lo stesso vale per la guerra in Siria, in cui Teheran è intervenuto per salvare il regime alleato di Bashar al-Assad dall’avanzata dei ribelli, o in Iraq, dove le milizie legate al regime degli ayatollah assicurano con la forza il precario equilibrio etnico-confessionale e politico del paese. Qualora la Repubblica Islamica dovesse cadere, o anche entrare in stato di profonda crisi, questo mosaico faticosamente costruito rischierebbe di sgretolarsi in men che non si dica, con conseguenze a dir poco catastrofiche per la stabilità e per la sicurezza del Medio Oriente. Il vuoto di potere lasciato da Teheran incentiverebbe quindi i nemici del regime a riaprire le ostilità, e ad inaugurare una nuova stagione di violenza politica ai quattro angoli della regione.


Mentre le proteste si allargano, coinvolgendo ormai ogni città e ogni università del paese, il regime inasprisce la repressione, privando l’intero paese della rete internet. I video e le immagini delle proteste hanno fatto subito il giro del mondo, scatenando ovunque un’ondata di indignazione. Nessuno, al momento, può con certezza affermare quale sarà il destino di questa rivoluzione. Può darsi che la repressione del regime avrà la meglio sulla voglia di cambiamento dei giovani, stroncando sul nascere ogni velleità rivoluzionaria. Può darsi che venga concesso qualcosa, ma che ciò non sia abbastanza per spegnere il fuoco della rivolta che brucia incessantemente da ormai tre settimane. Può darsi, ipotesi assai difficile ma non improbabile, che la Repubblica Islamica cessi di esistere, con annesse tutte le conseguenze che abbiamo elencato. Noi, al momento, possiamo solo diffondere il più possibile le immagini e i video che provengono dall’Iran, mostrare al mondo la lotta che stanno combattendo i nostri coetanei contro un regime oscurantista, informare anche gli indifferenti su ciò che sta avvenendo in quel paese: è il massimo che possiamo fare, ma anche il minimo dovere che ci spetta di fronte alla morte di Masha Amini e di tutti coloro che hanno dato la vita per un Iran migliore.





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