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  • Writer's pictureKoinè Journal

Il campo largo torna sulla terra


di Luca Simone.


È ufficiale ormai la vittoria alle regionali abruzzesi di ieri del candidato di centrodestra Marco Marsilio, che ottiene il 53,5% dei voti, mentre lo sfidante scelto dal campo largo Luciano D’Amico, si ferma al 46,5%. La vittoria è abbastanza netta, ma molto meno netta di quanto si aspettasse Giorgia Meloni a Palazzo Chigi, che fino a qualche settimana fa pensava alla passeggiata di salute, ma ha dovuto ben presto rivedere i propri piani dopo la debacle patita in Sardegna, una sconfitta che aveva alimentato i malumori in seno alla maggioranza (come vi avevamo già raccontato), perché rappresentava la sua prima sconfitta personale e di un candidato proveniente dal suo cerchio magico. In Abruzzo, perciò, si giocava una partita ancora più importante, dato che Marsilio non è solo uno dei fedelissimi di Meloni, ma è anche un suo amico personale, e una nuova battuta d’arresto avrebbe seriamente messo a rischio il prestigio della leader in seno alla coalizione di governo. Così non è andata (purtroppo per Salvini), ma è comunque necessario analizzare i dati e la campagna elettorale.


Meloni su Marsilio si giocava tutto e, a dimostrazione di ciò, in campagna elettorale ha deciso di giocare tutte le carte disponibili, dallo sblocco di 720 milioni per la ferrovia strategica Roma-L’Aquila, arrivato guarda caso a poche settimane dal voto, arrivando poi ad organizzare una specie di red carpet governativo sul quale hanno camminato uno dopo l’altro tutti gli esponenti di spicco dell’esecutivo che, tra comizi e sparate, hanno tirato l’acqua al mulino di Marsilio. Poco importava se lo sblocco dei fondi fosse arrivato sulle spalle dei contribuenti abruzzesi, che si sono visti tagliare (in un sanguinoso gioco delle tre carte) i fondi per lo sviluppo territoriale per vederli spostati sulla ferrovia e la sanità regionale negli ultimi cinque anni di governo Marsilio fosse stata fatta a pezzi da tagli e malgoverno che avevano costretto centinaia di migliaia di cittadini e cittadine e rivolgersi alla sanità privata, specialmente fuori regione, arrivando a portare ben 87milioni di introiti al di fuori della loro terra di residenza. Ciò che ha pesato, alla fine, è stata la massiccia identificazione del candidato con la leader di FDI, che ha dimostrato di come al netto di tutto, il vento tiri ancora dalla sua parte.


Un dato che, però, bisogna analizzare (ed è assolutamente valido anche per la Sardegna) è quello dell’affluenza, che ieri è stata del 44% scarso, e ciò significa che più della metà degli aventi diritto al voto ha scelto di starsene a casa, non sentendosi rappresentato da nessuna delle due proposte politiche. E, a differenza di quanto sostiene Italo Bocchino, e cioè che in una democrazia matura la gente anziché votare sta a casa (saremmo curiosi di sapere dove lo ha letto), ci permettiamo di definire lo scenario come catastrofico. Per quanto trainante come figura, neppure Meloni, con il vento in poppa da ormai due anni, è capace di partorire una proposta politica sufficientemente convincente da spingere gli astensionisti a recarsi alle urne. Più di un terzo dell’intera popolazione italiana avente diritto sceglie ormai da anni stabilmente di rinunciare ad esercitare un proprio diritto democratico e questo, dispiace dirlo (ma neanche troppo) è colpa di una classe politica a destra e a sinistra che una volta tramontata la parabola dei partiti ideologici è stata totalmente incapace di creare un’alternativa credibile. I risultati sono questi, ovvero di governatori, amministratori e addirittura presidenti del Consiglio che governano senza potersi vantare di aver ottenuto un convincente mandato popolare. Sarà meglio correre al più presto ai ripari, prima che qualcuno decida seriamente che la soluzione sia il premierato, perché se in una democrazia parlamentare vi è speranza di correggere il tiro in corso d’opera, nel caso di un/una premier eletta da una minoranza della popolazione poi cosa può succedere?


Dall’altro lato della barricata i facili trionfalismi della scorsa settimana lasciano il posto alla rassegnazione, ma questo succede a chi non impara dalle sconfitte precedenti e cede a facili entusiasmi. Alessandra Todde, neogovernatrice della Sardegna era una candidata ottima, competente e soprattutto identificativa delle rivendicazioni di chi si opponeva a cinque anni di disastroso governo Solinas, ma ha vinto per 1.600 voti arrivati molto probabilmente dai franchi tiratori della Lega più per colpire la Meloni che per premiare le sue idee e, soprattutto, anche lei governa con metà degli aventi diritto rimasti a casa perché disinteressati dalla sua proposta politica e da quella del suo avversario. Perché bisogna dire le cose come stanno, sempre, è questo che fanno i giornali seri, e nonostante la stima nei suoi confronti, è opportuno non mentire e dichiarare che il 50% dei sardi non ha scelto Alessandra Todde. Prima di festeggiare, dunque, era opportuno farsi due conti in tasca.


Conti che ora Schlein e alleati sono costretti a fare dopo il netto insuccesso del primo vero esperimento del campo largo a cui partecipavano (pur senza scomodarsi a renderlo manifesto) anche Renzi e Calenda. Il M5S che così baldanzosamente aveva pensato di poter lasciare a Conte lo scettro di federatore deve scontrarsi con un pesantissimo negativo di 13 punti percentuali rispetto alle elezioni regionali del 2019, un tracollo che lascia i pentastellati con appena il 7% dei voti, di fronte a un Partito Democratico che, a dispetto del fallimento dell’esperimento della coalizione, raccoglie un sostanzioso 20%, accreditandosi come prima forza di opposizione in Regione. C’era tanto e tanto lavoro da fare per poter sperare di vincere in Abruzzo, ma i leader della coalizione di centrosinistra hanno preferito cantare vittoria in pubblico e spartirsi le spoglie di una vittoria risicata in privato, iniziando a discutere di federatori e aggregazioni di partitini, il voto in Abruzzo ha spezzato questo idillio durato appena quattordici giorni. Un po’poco. Un po’ troppo poco.


Lavorare prima di cantare vittoria, serva di lezione ad Elly Schlein, a Giuseppe Conte e, soprattutto, a chi irresponsabilmente ha gridato al miracolo e al cambiamento di rotta senza scomodarsi a leggere i dati e soprattutto a lavorare sul territorio. Come non bisognava cantare vittoria prima, non è questo il momento di sprofondare nello sconforto, ma quello di lavorare. Di lavorare seriamente.






Image Copyright: ANSA

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