di Stefania Chiappetta.
Ridley Scott potrebbe, almeno in apparenza, tessere un filo rosso la cui lunghezza possa ricongiungere 24 lunghi anni. Dal filo rosso il tentativo è quello di estrapolare un immaginario visivo - quanto registico e produttivo - ben riconoscibile, capace non solo di richiamare il pubblico fidelizzato ma di funzionare anche per quello giovane e contemporaneo.
Il Gladiatore II (Ridley Scott, 2024), uscito nelle sale il 14 novembre scorso e ancora in testa al botteghino, nel ricercare un’unione tematica e popolare con il primo film tradisce una profonda mancanza rappresentativa. A sottrarsi durante la visione è infatti il rapporto di continuità tra originale di partenza e sequel, segnando un’espressività capace di addentrarsi nella visione prospettica che Ridley Scott ha – ad oggi - del suo stesso cinema.
Usando quest’ottica i titoli di testa del film mostrano, con un’estetica da disegno abbozzato, alcune scene dell’originale, seguendo quasi un uso del previously on: “nelle puntate precedenti”. Il corpo di Russel Crowe nei panni di Decimo Massimo Meridio fa la sua ricomparsa solo per scomparire definitivamente, reclamando una sua appartenenza nel mondo filmico. Un’ appropriazione quanto mai paterna che svela il rapporto di Ridley Scott con l’opera stessa. Scott non è solo il regista ma ne è anche produttore, come mostra il logo della sua compagnia Scott Free che riprende l’estetica dell’abbozzo artistico citato.
Si manifesta un ulteriore bisogno che chiama a rapporto il concetto di paternità dell’opera, intersecato alla costruzione di una filmografia che, fra le altre cose, è (maggiormente?) orientata verso la dimensione produttiva\economica. Una cosa quindi non esclude l’altra e, nella concretezza dell’artisticità legata al nome di Ridley Scott, diventa importante giungere ad una conclusione. Il regista di I duellanti (1977), Alien (1979) e Blade Runner (1982) è lo stesso del recente trittico House of Gucci (2021), Napoleon (2023) e per ultimo Il Gladiatore II. Tutto ciò in virtù di ogni mancanza riconosciuta e attribuita alla visione dei film, e dunque nonostante le critiche infuriate quanto giuste che arrivano dai fan.
D’altronde il film, proprio attraverso l’idea di paternità rivela in sceneggiatura la sua inconsistenza più grande, unita ad una ricerca faziosa del colpo di scena che funziona solo in virtù di tematiche già affrontate. Queste diventano perciò stanche, incapaci di suscitare emozione nel pubblico e di legarsi alla costruzione di un’epoca, non tanto per le inesattezze storiche della finzione cinematografica, quanto per una sua riduzione semplicistica: probabilmente uno dei peccati maggiori.
La mancanza di emotività è infatti uno dei tasselli fondamentali nel nuovo Gladiatore, proiettando il pubblico verso un tipo di affezione legata al modo in cui l’industria Hollywoodiana posiziona il kolossal contemporaneo. Accantonata la ricerca sugli effetti speciali, la dimensione privata che permetteva un utilizzo di dialoghi e frasi sensazionalistiche, la ricostruzione di un passato attraverso luoghi che diventavano ambienti a sé, a sottrarsi è proprio il modello di film cult\populistico che ha fatto la fortuna del suo predecessore.
Di conseguenza ogni elemento ripreso dall’originale ed inserito nella forma del sequel, diventa una sorta di caricatura monotona nel film, allontanando l’idea di un seguito d’autore per rendere concreto il tentativo di franchise intorno ai successi di Scott. In questo senso ritornano di volta in volta le idee della visione scottiana, poco importa se le epoche sono sempre diverse. Lo scoppio della violenza nell’essere umano e le successive lotte per il potere politico, sono unite all’espressione della storia come altare dell’immagine cinematografica, forse l’unico motivo per cui i movimenti della regia, nonostante una fiacchezza espressiva, non sono del tutto privi di unità.
Un’unità che tuttavia viene completamente decentrata nella sceneggiatura di David Scarpa, la cui mano è rintracciabile anche nel soggetto di partenza per il film, rivelando quella stessa inconsistenza artistica sopracitata. Ogni cosa è posta in una forma di eccessivo contrasto, dove la risoluzione del conflitto privato nei personaggi, i quali si vorrebbero in antitesi tra loro ma comunicanti con i modelli caratteriali dei protagonisti nell’originale, conduce ad un regresso narrativo quanto recitativo. Diventa evidente lo spreco dell’utilizzo legato ai volti degli interpreti principali: Lucio\Paul Mescal, il generale Acacio\Pedro Pascal e Macrino\Denzel Washington, quest’ultimo sfruttato come antagonista degli eventi senza averne un reale corrispettivo nel film. I loro personaggi sono imbevuti di repentini cambi espressivi, i quali rimandano ad un arco narrativo pressoché assente, colpevolmente ridotto.
Come notato nell’analisi del film insieme a Luca Simone per RFm1, Il Gladiatore II, che fa dello sfoggio del blockbuster la possibilità di mostrare un brutto film d’autore, riporta nella filmografia di Ridley Scott una ricerca di tipo anti-autoriale.
Uno sfogo manieristico e quanto mai superficiale, infarcito di moralismo, sentimentalismo familiare e pomposità del corpo. Dunque ogni progetto è diverso dal precedente, ed il legame che vi si vuole rintracciare in risposta ad un’organicità di base è sfuggente e malfatto, ma non per questo meno reale. Del resto c’era una volta un “sogno” chiamato Roma, e nel sogno capita spesso di perdersi.
Comments