Su G@za l'Europa si muove, l'Italia no.
- Koinè Journal
- May 28
- 3 min read

di Denise Capriotti.
Il 20 maggio 2025, l’Unione Europea ha avviato una revisione formale dell’accordo di associazione con Israele, alla luce dell’aggravarsi della crisi umanitaria nella Striscia di Gaza e del blocco totale degli aiuti umanitari.
L’iniziativa proposta dai Paesi Bassi – storicamente tra i partner più vicini a Israele – e sostenuta da 17 Stati membri, punta a valutare se Tel Aviv stia violando l’articolo 2 dell’accordo, quello che vincola le relazioni bilaterali al rispetto dei diritti umani e dei principi democratici.
L’articolo 2 dell’Accordo di associazione UE-Israele è chiaro: il rispetto dei diritti umani è un principio fondante. Eppure, mai come in questi mesi, quel principio è sembrato tradito.
Oltre 45.000 palestinesi uccisi – tra cui almeno 17.000 bambini – ospedali bombardati, infrastrutture civili devastate e un’emergenza umanitaria dichiarata da numerose agenzie internazionali, tra cui le Nazioni Unite, Amnesty International e Human Rights Watch. Il blocco degli aiuti imposto da Israele ha privato oltre due milioni di persone di beni di prima necessità, cibo, acqua e medicine.
La decisione di Bruxelles è dunque un atto politico e morale. Lo ha chiarito l’Alto rappresentante dell’UE per gli Affari Esteri, Kaja Kallas:
“C'è una forte maggioranza a favore di un riesame dell’articolo 2. Gli aiuti che arrivano sono una goccia nell’oceano. Devono fluire immediatamente, senza ostacoli e su larga scala.”
In questo contesto, l’Italia ha scelto – ancora una volta – di schierarsi dalla parte sbagliata della storia. Insieme a Germania, Ungheria, Grecia e pochi altri, il governo italiano si è opposto all’apertura della revisione dell’accordo. Una posizione che solleva interrogativi non solo sul piano etico, ma anche strategico.
Il governo Meloni continua a giustificare il proprio sostegno a Israele con il diritto alla difesa da Hamas. Ma quel diritto non può tradursi in un lasciapassare per la distruzione sistematica di Gaza e per la punizione collettiva di un’intera popolazione.
L’Europa è spaccata. Da un lato, Paesi come Spagna, Irlanda, Belgio e i già citati Paesi Bassi, chiedono coerenza tra valori e azioni; dall’altro, c’è chi continua a ripararsi dietro la diplomazia dell’ambiguità.
Il Regno Unito, nel frattempo, ha sospeso i colloqui per un accordo commerciale con Israele. Ha convocato l’ambasciatore israeliano e ha annunciato nuove sanzioni contro i coloni della Cisgiordania. Il contrasto con la posizione italiana è netto.
Il 26 maggio, intervistato a Quarta Repubblica, il ministro della Difesa Guido Crosetto ha rotto parzialmente il silenzio:
“Netanyahu sta sbagliando tutto. La guerra contro Hamas ha dei limiti che sono stati superati. (…) Ogni bambino che perde un padre è un potenziale futuro terrorista. Ogni padre che perde un figlio può diventarlo subito. (…) Bisogna liberare il popolo palestinese da questa spirale di violenza. Ridargli il cibo, le medicine, un luogo dove vivere.”
Nel frattempo, in Italia cresce con forza una mobilitazione che chiede la fine delle ostilità. In diverse città si stanno organizzando iniziative dal basso, sostenute da ampie fasce della società civile e da alcune forze politiche.
Dall’Umbria potrebbe partire il prossimo 7 giugno una manifestazione nazionale per la pace e in solidarietà con la popolazione palestinese. Tra i promotori, i leader del centrosinistra Elly Schlein, Giuseppe Conte e Nicola Fratoianni, uniti nell’appello a un cessate il fuoco immediato.
In un momento in cui il rispetto del diritto internazionale e dei diritti umani dovrebbe essere il faro dell'azione europea, il governo italiano sta scegliendo l'indifferenza. Non è più tempo di neutralità, è il momento di assumersi le responsabilità. Perché non ci può essere pace senza giustizia, né partnership privilegiata con chi ignora le fondamenta dell'ordinamento internazionale.
È ora di scegliere da che parte stare, continuare a voltare lo sguardo altrove non è più un'opzione.
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