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25 Novembre: ROMPIAMO IL SILENZIO


Una collaborazione IRIDE-Koinè Journal.


In occasione del 25 Novembre, Giornata Internazionale Contro la Violenza sulle Donne, l'unica cosa che ci è venuto in mente di fare è stata quella di arrabbiarci, e di unirci in questa rabbia cercando di trasmetterla in forma scritta. Proprio da questa voglia, da questa necessità nasce questa collaborazione tra la redazione di Koinè Journal e quella di IRIDE.

Buona lettura.


-PERCHE' GLI UOMINI CONTINUANO AD UCCIDERE?

di Denise Capriotti


Le donne continuano a morire, nonostante le campagne di sensibilizzazione e l'attenzione crescente sui femminicidi. Ciò che dovremmo chiederci a questo punto, non è perché le donne vengono uccise, ma “perché gli uomini continuano a uccidere?”.

 

No, non si tratta solo di una questione di denunce, spesso infatti le donne denunciano ma la giustizia arriva troppo tardi, perché l'omicidio è l'ultimo atto di una dinamica di potere che si costruisce lentamente, spesso sottovalutata fino al tragico epilogo.

 

In molti casi, le donne che vivono violenze non sono credute. Se non denunciano subito, vengono accusate di non aver agito per tempo e se finalmente trovano la forza, spesso si trovano ad affrontare il giudizio di chi difende il nome di “quel bravo ragazzo”, ignorando il fatto che è stato proprio quel bravo ragazzo a compiere azioni atroci.

 

I mezzi di comunicazione continuano a trattare il femminicidio in modo ambiguo e riduttivo, contribuendo a normalizzare una violenza che è prima di tutto una questione culturale.

Il termine “femminicidio” viene spesso utilizzato in modo impreciso, riducendo crimini terribili a “drammatici episodi familiari” o “raptus di gelosia”, senza interrogarsi sul contesto sociale e culturale che li alimenta. Gli uomini che uccidono vengono descritti come vittime di un amore malato, incapaci di gestire il dolore di una separazione. Ma questo sconto di umanità e compassione per chi è un assassino è ingiustificato.

 

Questa narrazione superficiale minimizza la gravità del fenomeno, svuotandolo del suo significato profondo: non si tratta solo di omicidi individuali, ma di un atto estremo di una cultura patriarcale che oggettivizza e possiede le donne. I media spesso omettono di esplorare le radici di questa violenza, ignorando la discriminazione di genere, le disuguaglianze economiche e le politiche di protezione inadeguate, che insieme creano un terreno fertile per il femminicidio.

 

Inoltre, la spettacolarizzazione dei dettagli macabri alimenta una distorta curiosità morbosa, piuttosto che sensibilizzare la società sulla prevenzione e sulla necessità di un cambiamento culturale profondo.

È ormai noto il caso di Gisèle Pelicot, la donna francese di 72 anni, drogata dal marito e stuprata per 10 anni da un totale di 83 sconosciuti che venivano filmati dal marito stesso della vittima. Nonostante lo scalpore della violenza, le testate giornalistiche non hanno dato pace alla donna. “La Stampa” ad esempio narra i dettagli di come si è compiuta la violenza e sembra quasi giustificare l’azione del marito raccontando dei suoi traumi infantili.

È opportuno sottolineare che i media hanno la responsabilità di trattare questi crimini con serietà, senza scivolare nel sensazionalismo, contribuendo così a educare l’opinione pubblica.

 

In questo scenario, le donne continuano a morire e a essere molestate, non solo per la violenza degli uomini, ma anche per la solitudine e l'abbandono a cui sono costrette. Educate a comprendere, sopportare, pazientare, vengono frequentemente isolate quando decidono di reagire. Non trovano sostegno, e spesso finiscono per essere punite per aver cercato di sfuggire a un destino che la società sembra rassegnata a perpetuare. 

 

Sabato 23 novembre a Roma, è stata bruciata la foto del ministro Giuseppe Valditara davanti al ministero dell'Istruzione, poco prima dell'inizio del corteo nazionale contro la violenza maschile sulle donne.

Fonti vicine al Ministro Valditara hanno condannato l’azione dei manifestanti, sottolineando che il dialogo e il confronto costruttivo sono gli unici modi per affrontare serie problematiche sociali, ma le donne ci provano da sempre e non sono mai state ascoltate. 

La fotografia bruciata non è solo un atto di protesta, ma rappresenta una denuncia al sistema educativo, inadeguato a fornire le basi culturali necessarie per un cambiamento reale, nonché una richiesta di attenzione e un invito alla responsabilità da parte delle istituzioni nel prendere misure concrete per prevenire la violenza di genere e proteggere le vittime.

Negare ancora l’esistenza del patriarcato è solo un modo per non assumersi le responsabilità che ognuno di noi possiede.

Il ministro Valditara non deve preoccuparsi dei gesti simbolici e provocatori utilizzati per esprimere una critica politica. L’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo assicura ai manifestanti il diritto alla libertà di espressione. In particolare, nei casi di critica politica espressa attraverso l’atto di bruciare l’immagine di un ministro, l’ingerenza delle autorità nazionali deve essere limitata proprio per assicurare il pluralismo e il dibattito pubblico, il gesto pertanto non rientra tra quelli considerati “violenti”.

 

Il riscontro di questo evento è un chiaro esempio di un sistema che non protegge e non ascolta. Non bastano le panchine rosse o i minuti di silenzio: per fare la differenza serve combattere con parole e azioni concrete.

È ora che i media facciano la loro parte, raccontando le storie di violenza con responsabilità, senza ridurre o giustificare l’orrore di questi crimini.

È ora che le politiche siano attive e pratichino investimenti reali in prevenzione e protezione per le donne.

È ora di essere ascoltate.



-ESISTONO ANCORA LE DISCRIMINAZIONI LAVORATIVE DI GENERE

di Sofia Sorrentino


Quante volte, in televisione, sui social, sfogliando le pagine di un giornale o un quotidiano, ci sono apparse davanti agli occhi pubblicità raffiguranti uomini medici e donne infermiere? Uomini dirigenti e donne segretarie? Nonostante sia difficile da accettare, queste immagini non fanno altro che da copertina ad un problema sempre più grande e in continua crescita: la discriminazione in ambito lavorativo del genere femminile.


Secondo l’opinione comune che ha attraversato la nostra penisola sino alla seconda metà del Novecento, donne e lavoro non sono mai stati due aggettivi complementari. Se durante la Grande Guerra le donne si stavano avvicinando sempre più all’emancipazione sostituendo gli uomini nelle fabbriche, alla guida dei tram cittadini e occupando il ruolo centrale di maestre, è proprio il fascismo che cambia le sorti della partita: nelle scuole, alle ragazze, venne insegnato ad essere “donne sottomesse e madri forti”, cancellando i progressi costruiti con fatica.


Ad oggi non facciamo altro che vivere nel riflesso di quella politica anti-femminista, e lo si può notare nell’enorme divario tra donne lavoratrici e uomini lavoratori e la sproporzionata differenza salariale che nel corso del 2022 è anche arrivata a toccare i 35mila euro. Tant’è che, di conseguenza, il “gentil sesso” si trascina dietro persino in ambito attivo l’indelebile e incongrua etichetta della maternità che continua ad essere inconciliabile all’effettiva, tanto agognata, emancipazione.


Fino a che punto le due cose saranno estranee l’una all’altra?  Statisticamente, le donne sono i soggetti più inclini a svolgere la maggior parte delle mansioni lavorative non retribuite: la presa in carico dei figli e le loro conseguenti attività o la cura della casa, rendendo il lavoro, tappeto di lancio dell’ufficiosa emancipazione, uno strumento che continua a garantire disparità e instabilità. Ce lo spiega bene la motherhood penalty”, testualmente penalizzazione associata alla maternità, che si sofferma sui ventiquattro mesi dopo il congedo di maternità, a sua volta periodo di estensione obbligatorio di 5 mesi, in cui la donna guadagna tra il 10 e il 35% in meno di quanto avrebbe guadagnato se non avesse avuto un figlio, mentre la busta paga del padre, incredibile colpo di scena, sembra giovarne.



-SPAZI DI CURA NEGATI: SISTEMA SANITARIO E VIOLENZA DI GENERE

di Cecilia Isidori


Nel nostro paese la violenza di genere è divenuta un’emergenza sociale allarmante, un fenomeno sistemico radicato in diseguaglianze, stereotipi e rapporti di potere che si insidiano e permeano ogni ambito della nostra società.

 

Il patriarcato si radica su principi che giustificano e normalizzano la subordinazione femminile, riducendo le donne e i loro corpi a meri oggetti di controllo. Da qui derivano la cultura della colpa e del silenzio, che fanno desistere le vittime di violenza dal denunciare, frenate da uno spazio pubblico che minimizza o ignora del tutto il problema.

 

Negli spazi pubblici che dovrebbero essere luoghi di rifugio, di cura e ascolto la violenza di genere viene silenziata e normalizzata e in essi si riproducono le stesse dinamiche di marginalizzazione, abuso e violenza di cui le donne sono vittime nella loro quotidianità.

Il sistema sanitario è ora passivo e silente, ora giudicante e isolante.

I dati ISTAT dimostrano che le donne si rivolgono ai pronto soccorso solo in situazioni estreme, quando le conseguenze fisiche e psicologiche delle violenze sono ormai diventate insostenibili.

I dati parlano chiaro, eppure i percorsi di protezione e denuncia restano frammentari, con protocolli applicati in modo discontinuo a livello territoriale.

 

Simbolo di un sistema sanitario complice di abusi e violenze è l’interruzione volontaria di gravidanza (IVG).

L’IVG è regolata dalla legge 194/1978 che ha depenalizzato l’aborto, regolandone i metodi di accesso, senza però classificarlo esplicitamente come un diritto.


A 46 anni dalla sua promulgazione, questa legge è ancora applicata male o addirittura non applicata per niente: il fenomeno dell’obiezione di coscienza limita fortemente l’accesso al servizio, considerando che circa 7 medici su 10 sono obiettori di coscienza e che, a differenza di quanto dovrebbero, le regioni non si mobilitano per garantire le IVG attraverso, ad esempio, la mobilità del personale.


Nelle Marche ci sono poli ospedalieri come il Murri di Fermo, che pratica obiezione di struttura dal 1978, o il Riuniti di Jesi, in cui 10 medici su 10 praticano obiezione. Nei consultori della regione, inoltre, si pratica obiezione di coscienza anche sull’aborto farmacologico, ossia sulla pillola Ru486, limitando l’accesso ad un metodo sicuro, poco evasivo e che mira ad evitare l’ospedalizzazione.


Le donne sono spesso costrette a spostarsi da una regione all’altra o a rivolgersi a consultori privati e quello che dovrebbe essere un diritto diventa un fattore di classe, un mezzo per discriminare e marginalizzare ulteriormente.


Gli ostacoli sono troppi: oltre alla scarsità dei consultori e alle obiezioni di coscienza, le donne sono sottoposte a colloqui con le associazioni “pro vita”, a “periodi di riflessione” qualora i medici all’interno dei consultori non considerino urgente l’intervento e a tutta una serie di pressioni psicologiche, umiliazioni e stigmatizzazioni.

 

Com’è possibile pensare di combattere la violenza di genere se il sistema sanitario nazionale è per primo spazio di violenza psicologica, pressione sociale, discriminazione e isolamento?

La trasformazione della cultura e della società per cui lottiamo e a cui aspiriamo deve partire da un ripensamento radicale degli spazi della comunità, dei luoghi del bene pubblico. È difficile immaginare ciò in un paese in cui i leader della maggioranza, Meloni e Salvini, hanno cercato di ostacolare le due risoluzioni del Parlamento europeo, che chiedono l’adesione dell’Unione Europea alla Convenzione di Istanbul, primo trattato internazionale legalmente vincolante sulla prevenzione e la lotta alla violenza di genere e domestica. 


È difficile immaginarlo in un paese in cui le associazioni antiabortiste presidiano i consultori e in cui la sanità pubblica volta le spalle e sbarra le porte.

È difficile immaginarlo ma è necessario farlo perché i muri del silenzio e dell’indifferenza siano abbattuti, gli spazi pubblici resi luogo di cura, sostegno e aiuto.



-DIVORZIO ALL'ITALIANA: IL FEMMINICIDIO

di Diletta Diomedi


Il Barone di Cefalù ha un piano perfetto, trovare un tenero amante per la sua Rosalia così che si possa sbarazzare di lei. Nel 1961 uccidere la propria moglie adultera è un divorzio all’italiana: mancano ancora 9 anni alla legalizzazione del divorzio e 20 all’abolizione del delitto d’onore. 45 anni fa un tradimento poteva essere legalmente punito con un assassinio, un onore violato, quello maschile, che messo sul piatto della bilancia pesa quanto la vita della congiunta violante, ma attenzione sarebbe un errore, a tratti un orrore, pensare a quel coltello colpire un petto privo di seno. 45 anni fa tuo nonno poteva ammazzare tua nonna.


L’onore maschile è composito, un’accozzaglia di forza nella quale le donne della famiglia si trovano intrappolate, l’onore femminile è una membrana mucosa. Alla risposta inevitabilmente violenta all’onore dell’uomo violato, la violazione dell’onore femminile è fondante per il sacro vincolo del matrimonio. La chiesa cattolica prevede che provando la mancata consumazione del matrimonio, ovvero provando che l’onore femminile, che possiamo tranquillamente chiamare imene, non è stato violato, il matrimonio può essere annullato, in quanto non valido.


Nel 1961 un matrimonio all’italiana assume validità a partire dalla violazione dell’onore femminile e cessa di validità con la violazione di quello maschile: l’uomo da violante e da violato regna, la donna perisce. Corpi esterni si insinuano nella sua carne e sanguinante essa adempie alla sua funzione, una vittima che in quanto moglie non può essere definita tale, che può essere stuprata giustamente, ma disonorevolmente, che muore giustamente, ma disonorevolmente.


L’esercitazione, nel nostro paese, di una violenza fisica sistematica nei confronti della propria moglie è giusta, da un punto di vista etico, ma soprattutto giuridico, fino a 45 anni fa, il che significa che spesso i membri della classe dirigente, sono cresciuti in una società all’interno della quale la violazione dell’onore femminile, ovvero del suo corpo che a quell’onore corrisponde, era non solo normalizzata, ma addirittura nucleo generativo del nucleo familiare.


Un sistema di rapporti basato sulla violenza di genere che è tutt’oggi il sistema di rapporti che l’Italia ha alla base, qualcuno direbbe che è un sistema basato sulla famiglia e sull’onore, ma utilizzando le parole giuste la nostra, e non solo nostra, è una società patriarcale fondata su stupri – credete davvero che tutti i matrimoni dei nostri nonni siano matrimoni d’amore? – e femminicidi. 45 anni fa tuo nonno poteva legalmente ammazzare tua nonna, oggi tu puoi essere tranquillamente ammazzata e chiameranno gelosia il patriarcato e amore un femminicidio e allora una legge abrogata, non ha cambiato un paese, per ora.




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