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Writer's pictureKoinè Journal

E in questo chiaroscuro, nascono i mostri


di Mattia Santarelli.


Scontri”.

Provate a scrivere questa parola in un qualsiasi motore di ricerca e scorrete i risultati.

Alla data in cui si scrive, gli articoli dei giornali e i video pubblicati a riguardo di “scontri”, i più visti o i più recenti, riguardano, ahinoi, il settore del sapere (scontri in università) e quello in generale della politica (manifestazione degenerata, scontri in piazza, ecc). E pensare che la Treccani, accanto a “scontro” o a “scontrare”, affianca in primis, invece, l’ambito bellico e quello sportivo. Come cambiano le parole con il cambiare dei tempi, pazzesco.

Ma perché? Perché è negli ambienti universitari e nelle piazze, nei luoghi che dovrebbero essere culla della democrazia, che si consumano la maggior parte degli scontri a cui assistiamo oggi? 

 

Gli antefatti.

Bologna, 11 Novembre. Elezioni regionali. Il corteo di “Patrioti” e CasaPound davanti alla stazione centrale viene inizialmente valutato non sicuro -la strage del 1980 è lontana, ma non così tanto da giustificargli serenamente la scelta di sfilare proprio lì- dal comitato di sicurezza. In seguito viene invece (inspiegabilmente) autorizzato. Contemporaneamente, in aperto dissenso ad esso, si organizzano altri due cortei vicini, uno degli anarchici e uno dei centri sociali. Nel cercare di raggiungere il vicino corteo dell’estrema destra, alcuni esponenti di quest’ultimo gruppo si scontrano con le forze dell’ordine (che insistevano sul perimetro dell’area percorsa dal corteo neofascista).

 

Roma, Sapienza, 20-21-22 Novembre. Giornate di elezioni studentesche e tensioni. Dai tafferugli del primo giorno si assiste a una rapida climax ascendente dello scontro tra militanti di Gioventù Nazionale/Azione Universitaria e altri di Cambiare Rotta ed esterni. Le tensioni, iniziate il 20 con la denuncia da parte di CR di svastiche sui manifesti elettorali e pressioni, anche fisiche, sugli studenti da parte dei militanti di destra durante i giorni di silenzio elettorale, terminano il 21 e 22 con violenti scontri tra i due gruppi, e tra membri di essi e la Digos.

 

Due città diverse, unite in queste settimane, ma non solo, dal fatto di essere state entrambe sfondo delle medesime tensioni. Entrambe, avvenute all’alba di un importante election day.

 

“Siamo tornati al ‘68”.

Scontri tra studenti, città bloccate, violenze tra due blocchi contrapposti, tra due visioni opposte di mondo. “Siamo tornati agli anni ’70”. 

Troppo facile.


Certo, ciò a cui assistiamo è, nei fatti, uno scontro costante tra esponenti della destra neofascista e quelli della sinistra comunista (le “zecche rosse”, per dirla alla Salvini). Ed è vero anche che le università hanno di recente ritrovato una certa effervescenza e una loro incisività nel dibattito politico nazionale: si vedano, tra le tante dell’ultimo periodo, la protesta delle tende per il diritto alla casa, le manifestazioni contro la violenza sulle donne dopo il femminicidio Cecchettin, il movimento mondiale contro il genocidio in Palestina.

 

I movimenti studenteschi sono certamente, oggi, nuovamente capaci di orientare l’opinione pubblica, intercettare dissenso (o talvolta addirittura consenso), imporre temi nel dibattito politico. E ciò implica da parte loro una buona sensibilità nei confronti dei processi sociali e una alta capacità di analisi politica, talvolta superiore a quella dei governanti stessi.

Se pensiamo al diritto alla casa, per esempio, dobbiamo riconoscere che senza l’esperienza del movimento studentesco probabilmente la politica e il dibattito pubblico non sarebbero tutt’oggi così sensibili al tema.

 

Eppure, siamo molto lontani dagli anni ’70. Purtroppo, e per fortuna.

Purtroppo, perché l’effervescenza dell’attività politica di un gruppo non coincide con effervescenza del dibattito politico del sistema. Tuttora, nelle piazze, nelle università, e fuori di esse, non possiamo dire che esistano realmente blocchi ideologici contrapposti che raccontano visioni diverse di società e combattono per esse. Esistono, semmai, contenitori, ed esistono battaglie da condividere o da ignorare. Raramente battaglie di sistema, di visione organicista, di società, di mondo. Insomma, della politica non ci si innamora più, nella maggioranza dei casi.


Per fortuna, invece, siamo lontani dagli anni ’70. Perché i proiettili e le bombe sono, e speriamo rimangano, un lontano ricordo sepolto dalla storia.

 

Manca, senza dubbio, un po’ di quel sano attaccamento a qualcosa di più grande di noi, più grande di una singola persona, di un leader, quella voglia di credere in un movimento e in una protesta -anche se non monetizzabile- e renderle di tutti, per tutti.

Manca un po’, forse, a questo benedetto Belpaese, la voglia di innamorarsi nuovamente di una speranza e di lottare per vederla realizzata e attuata.

Ma la violenza di quegli anni certamente non ci manca, e grazie al cielo, per ora, rimane anch’essa, come quei grandi moti e quelle speranze collettive, un ricordo della storia.

 

“Sono solo quattro esaltati”.

“Se non siamo negli anni ’70 allora la colpa degli scontri è soltanto di quei quattro esaltati.” 

Questa lettura è troppo comoda e necessita anch’essa di attenzione.

Certo, se giudicassimo quantitativamente le cifre dei partecipanti agli scontri vedremmo che, il più delle volte, stiamo parlando di una netta minoranza di persone rispetto alla totalità di chi fa politica in maniera civile e democratica. Eppure, non credo che ciò possa rasserenarci o assolverci da un’analisi più matura, per diversi ordini di ragioni.

 

In primo luogo, la pericolosità di un determinato mezzo di lotta politica non può misurarsi sulla quantità di persone che la condividono. Se anche solo 30 persone credono che la violenza fisica sia un mezzo necessario di lotta politica, questo diventa un problema per tutto il sistema. Anche perché, si sa, crea più disordine una minoranza rumorosa che una maggioranza silenziosa. E se il disordine creato usa come unico linguaggio la rivendicazione violenta di un pensiero, ciò non può essere accettato da uno Stato di Diritto.

 

In secondo luogo, non possiamo preoccuparci di espressioni violente di dissenso o di dibattito solo se esse arrivano ad esser condivise da un numero considerevole di persone, che li mettono in atto. Sarebbe come interessarsi di una rivoluzione solo quando ci bussa al portone di casa.

 

In terzo luogo, credo che etichettare come “esaltate” quelle persone sia semplicemente sbagliato e riduttivo, ed abbia come unica via la repressione a qualunque costo. Da mesi quella che viviamo è una atmosfera di “militarizzazione” dei luoghi del sapere. Poliziotti in università, in facoltà, poliziotti ovunque, poliziotti che prendono ordini da manifestanti, insomma, uso spropositato e ingiustificato della forza pubblica.


E questo, lo diciamo con il più profondo rispetto per la funzione pubblica che la Polizia di Stato è chiamata a compiere. Perché non è all’interno di una università che una persona che ha scelto di servire il suo paese dovrebbe passare il proprio tempo. Ma ridurre questi episodi a “scontri tra esaltati” non fa altro che alimentare il livello dello scontro, e dunque del necessario contenimento di esso e della conseguente repressione. “Non siamo carne da macello” si legge, non a caso, in un comunicato della segreteria nazionale della Silp Cgil (sindacato di polizia) in riferimento ai fatti di Bologna.

 

Non è pensabile che se la politica non riesce ad ascoltare o a gestire certe situazioni la soluzione sia sempre quella di mandare reparti antisommossa. Questo governo, più di altri, avrebbe molto da ascoltare e gestire, se solo capisse che il dissenso non va per forza represso e che l’antifascismo va semplicemente attuato, senza manganelli.


Grande è la confusione sotto al cielo. La situazione è eccellente.

Alla fine di questa lunga disamina due cose sono certe, dunque. Non siamo certamente davanti ad un ritorno dei moti del ’68, ma nemmeno si può continuare a non riconoscere e sminuire un problema grave, che esiste e sta crescendo.

 

Il livello dello scontro in Italia sta aumentando. La violenza cresce, la repressione lo segue.

Insomma, grande è la confusione sotto al cielo.

Ma per chi la situazione è così eccellente?

 

Rispondere a questa domanda non è semplice, perché significherebbe trovare dei responsabili, e non sono certo individuabili in una sola persona. Certo, Giorgia Meloni e “discepoli” puntualmente danno l’impressione di non fare nulla per evitare una situazione di tensione, vedi Bologna.  

 

In un certo senso viene da pensare che lo scontro venga addirittura cercato perché evidentemente passare da “moderati” mentre i neofascisti e “zecche rosse amiche del piddì” se le danno di santa ragione “elettoralmente paga”. Non a caso, lo stesso sindaco di Bologna Lepore ha fatto notare questo atteggiamento alquanto discutibile della premier.

 

Anche se, a dirla tutta, andando poi a vedere come sono andate le regionali, elettoralmente, non ha poi pagato così tanto. Persino in Sapienza, dove la sinistra è tornata a rieleggere un Consigliere di Amministrazione dopo 20 anni dall’ultima volta, le liste di Destra sono state battute.

 

Non è agevole individuare superficialmente responsabili, e forse non ha nemmeno senso cercarli. Le ragioni vanno piuttosto individuate nell’intima complessità, e anche nella violenza diffusa dei tempi che viviamo. Tempi in cui persone muoiono sotto le bombe o in mare e non fa più notizia né scalpore, tempi in cui assistiamo a oltre 106 femminicidi da inizio anno e ce ne facciamo una ragione, in cui una persona su due non vota più perché “tanto non mi interessa”, in cui l’importante è avere un lavoro, anche se poi con quel lavoro non ti ci paghi nemmeno la casa e non ci arrivi a fine mese, tempi in cui di simboli se ne hanno sempre di meno, o sempre più lontani, e ne siamo tutti disperatamente in cerca.


Tempi, dunque, nei quali gli stessi fattori costitutivi del patto sociale grazie al quale le persone vivono assieme sembrano tentennare.


Perché ci muoviamo tutti all’interno della medesima società, e ne subiamo inevitabilmente i processi, le complessità che la compongono, le mancanze ormai strutturali di anelli di congiunzione in essa, di corpi intermedi a rappresentare i nostri bisogni, di pensatori in grado di restituire letture organiche di società e capaci di donarle a tutte a tutti, senza per forza chiedere compenso.

 

Una società essenzialmente violenta, insomma, forse perché non trova altri modi per dimostrare che è in vita.

 

Perché il vecchio mondo è morto, non c’è dubbio, ma quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro, nascono i mostri.

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